GNOSIS 2/2011
Rivolte di popolo Primavera araba rivoluzioni da rivoluzionare |
Valentina COLOMBO |
“Una delle specificità della rivoluzione tunisina, specificità sulla quale gli storici dovranno riflettere, è che ha avuto luogo pur essendo priva di una vera leadership e senza l’appoggio di un gruppo dirigente. Questo suo aspetto spontaneo, inaspettato (soprattutto nella tempistica) è stato da un lato stupefacente e ammirevole, dall’altro fuorviante e incontrollabile”, ha dichiarato di recente la tunisina Latifa Lakhdar, vice presidente dell’Alta Istanza per la riforma politica, la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione e la transizione democratica (1) . L’osservazione è più che pertinente ed è confermata dal fatto che le prime due rivoluzioni della primavera araba sono state definite le rivoluzioni di Facebook e di Twitter ovvero le rivoluzioni dei giovani connessi a Internet. Si tratta di giovani di entrambi i sessi, istruiti e insoddisfatti della vita, sia perché disoccupati sia perché privi di ogni genere di libertà, prima fra tutte quella di espressione. La rapidità con cui in Tunisia si è ottenuta la fuga del presidente/dittatore Ben Ali e la relativa velocità con cui, a solo un mese di distanza, è stato allontanato dal potere il presidente/autocrate Mubarak in Egitto sono state un’iniezione di ottimismo sia nel mondo arabo sia nel mondo occidentale. Successivamente si è innescato l’effetto domino e l’intero Medio Oriente si è infuocato e continua a ribollire in nome della libertà. In ogni paese dell’area, per motivi diversi e con modalità diverse, le manifestazioni non si sono più arrestate. Se si tralascia il caso libico che rappresenta un unicum per varie ragioni, dallo Yemen alla Siria, dal Bahrein alla Giordania, le popolazioni sono da mesi in fermento. L’attenzione dell’opinione pubblica occidentale è purtroppo focalizzata solo su alcune nazioni, in modo particolare la Libia, mentre le rivoluzioni del Gelsomino e del Loto sembrano ormai lontane e dimenticate, quasi come se il delicato processo di transizione che stanno vivendo Egitto e Tunisia non fosse così importante e cruciale. La percezione è che la libertà sia stata raggiunta e che la democrazia sia quindi automaticamente alle porte. D’altronde il 27 marzo scorso in Egitto si è già tenuto il referendum costituzionale, durante il quale gli egiziani sono stati chiamati a decidere se riformare l’attuale costituzione oppure se elaborarne una nuova. In Tunisia il prossimo il 16 ottobre si terranno le elezioni per l’Assemblea costituente che saranno poi seguite da quelle parlamentari. Il 17 gennaio il premier tunisino, Muhammad Ghannouchi, ha annunciato il nuovo governo di unità nazionale e l’intenzione di riconoscere tutti i partiti sino a quel momento considerati fuorilegge. All’alba del 7 marzo i partiti politici legalizzati in Tunisia erano già una cinquantina. Il 29 maggio il governo temporaneo annuncia l’esistenza di 81 partiti politici (2) . In Egitto il prossimo novembre sono previste le elezioni presidenziali alle quali seguiranno quelle parlamentari. I partiti attualmente riconosciuti sono una ventina. In linea di principio le scadenze appena riportate potrebbero confermare l’ottimismo di partenza. Ciononostante un’analisi più approfondita della situazione politica nei due paesi in transizione, in particolare, e dell’area mediorientale, in generale, non da ultimo della politica occidentale nell’area, evidenzia alcuni punti critici. Primo fra tutti è quello che riguarda il ruolo del movimento dei Fratelli Musulmani che sin dalla rivoluzione del Gelsomino si è impossessato della mobilitazione e che viene inoltre considerato dall’occidente il principale referente nel dialogo con i “ribelli” che hanno cacciato i dittatori a scapito dei veri attori delle manifestazioni sia in Tunisia che in Egitto. Ebbene, già il 15 gennaio Yusuf Qaradawi, lo shaykh della televisione satellitare Al Jazeera e il principale referente spirituale dei Fratelli Musulmani, pubblicava sul proprio sito personale un articolo dal titolo “Il popolo tunisino ha dato l’esempio di come uscire dall’oppressione” (3) in cui sottolineava che il popolo tunisino aveva rovesciato il tiranno “in modo pacifico senza ricorrere alle armi” e che l’aiuto occidentale non era gradito perché “la Tunisia era in grado di risolvere i propri problemi da sola”. I giovani scesi in strada a Tunisi, pur non avendo nulla a che fare con l’estremismo islamico del movimento fondato nel 1928 da Hasan al-Banna, stavano inconsapevolmente realizzando il sogno dello shaykh: spodestare un regime tirannico ma, soprattutto, miscredente. Nel 2001 Qaradawi scriveva, infatti, che “il modello tunisino [di laicità] è il peggiore e più disdicevole, corrisponde non tanto alla miscredenza di Abu Jahl e Abu Lahab, bensì a quella di Abd Allah figlio di Sallul, che è il capo degli ipocriti, per la presenza nella costituzione [tunisina] dell’articolo che dice che ‘la religione ufficiale dello Stato è l’islam’, ma gli articoli a seguire negano a ogni piè sospinto questa affermazione” (4) . Nello stesso volume non è stato nemmeno risparmiato un attacco al Codice dello Statuto personale tunisino che dal 1956, ovvero dall’avvento al potere di Habib Bourguiba, aboliva e vietava severamente la poligamia prevista dal Corano. Qaradawi scriveva: “Questa legge si oppone al testo coranico che contiene tra i propri precetti la poligamia […] colpisce che il codice tunisino vieti la poligamia, […] mentre non condanna l’adulterio” (5) . Il 25 maggio scorso Qaradawi pubblicava il comunicato “I popoli arabi attualmente stanno svolgendo il jihad migliore” (6) , laddove il jihad migliore era da intendersi quello contro i tiranni del mondo arabo. In Tunisia a due settimane dalla dipartita di Ben Ali, per la precisione il 30 gennaio, Rached al-Ghannouchi, leader in esilio de al-Nahda, il movimento islamista tunisino legato ai Fratelli Musulmani e che non ha ufficialmente preso parte alle proteste, è rientrato in Tunisia. Già il venerdì precedente al suo arrivo la gestione delle moschee tunisine era passata dalle mani di imam di regime a imam legati alla Fratellanza musulmana. Il 1° marzo al-Nahda è stato legalizzato a seguito della decisione del governo di transizione tunisino di riconoscere tutti i partiti politici in precedenza messi al bando, unitamente alla scelta di adottare un’amnistia per tutti i prigionieri politici. Il 9 marzo sono stati resi noti dal quotidiano francese Le Temps i risultati di un sondaggio effettuato in Tunisia su un campione di 1.021 persone di ambo i sessi e di età superiore ai 18 anni, nel periodo 28 febbraio - 5 marzo, svolto dalla Emrhod Consulting (7) . Ebbene, i risultati meritano una riflessione. Circa il futuro della rivoluzione, si dice fiducioso l’82%. Al contempo il 61,4% dei tunisini ignora cosa sia un partito politico. Per quanto riguarda la notorietà dei partiti, la classifica pone al primo posto il movimento al-Nahda con il 29%, seguito dal Parti Démocratique Progressiste, compagine di sinistra capeggiata da Najib Chebbi, con il 12,3% e da Ettajdid, l’ex partito comunista, con il 7,5%. La personalità politica ritenuta più valida a governare il Paese è, secondo gli intervistati, l’ex primo ministro Mohamed Ghannouchi (9%), che supera l’attuale primo ministro Béji Caid Essbsi (6,1%) e il Capo di Stato Maggiore dell’esercito generale Rachid Ammar (4,2%). E’ interessante notare come il movimento al-Nahda venga percepito dalla popolazione come partito politico, mentre nessuno dei suoi esponenti viene considerato un possibile presidente o primo ministro. Questo dato di fatto corrisponde perfettamente alle aspirazioni dei Fratelli musulmani tunisini. Non a caso Rached al-Ghannouchi ha ben presto dichiarato di non volersi candidare alla guida del paese. Anche dalle dichiarazioni successive al rientro del leader di al Nahda è emerso che il movimento non aspira a governare, ma ad agire dietro le quinte. In Tunisia il movimento sembra non volere spaventare un paese che vive dal 1956 all’insegna della laicità, quella laicità che i Fratelli Musulmani considerano un’istituzione voluta da Satana. La tattica della Fratellanza in Tunisia è confermata dalle dichiarazioni rilasciate da Ghannouchi il 6 febbraio relative al Codice dello Statuto personale. Ha affermato che il Codice si ispira alla sharia e che, in ogni caso, è un’acquisizione che appartiene al popolo tunisino e non sarà toccato ma, al contempo, ha consigliato al ministro dell’Educazione un ripensamento sul divieto del velo nelle scuole tunisine (8) . La richiesta è stata parzialmente recepita dal Ministero dell’Interno che ad aprile a reso legale l’emissione della carta d’identità per le donne che si vogliono fare ritrarre con il hijab, il foulard (9) . Se la posizione di Ghannouchi apparentemente contraddice quella del teologo Qaradawi e, quindi, sembrerebbe prenderne le distanze, non va dimenticato che quest’ultimo, nel mese di maggio, ha annunciato una sua imminente visita in Tunisia, a Sousse, roccaforte del leader de al-Nahda (10) . In Egitto la posizione dei Fratelli Musulmani è diversa sia come punto di partenza che come tattica post-rivoluzionaria. Il movimento qui è molto più radicato, nonostante sia stato ufficialmente bandito a partire dal 1954 quando venne ritenuto responsabile di avere organizzato un attentato all’allora presidente egiziano Gamal Abdel Nasser. Ciononostante, a partire dagli anni Settanta entrano nell’agone politico. Nelle elezioni parlamentari del 2005 i candidati legati alla Fratellanza, presentatisi come indipendenti, ottengono 88 seggi corrispondenti al 20% del totale. Durante il regime di Mubarak si sono alternate repressione e tacita accettazione del movimento estremista islamico. Basti pensare che le opere di Yusuf Qaradawi, cittadino egiziano dal 1961 in esilio, sono sempre state pubblicate dalla casa editrice filo-governativa egiziana Dar al-Shorouk. Inoltre, fino allo scorso mese di maggio, la sede operativa dei Fratelli Musulmani si trovava nella centralissima piazza Talat al-Harb, a due passi da piazza al-Tahrir, scenario delle manifestazioni della rivoluzione del Loto. D’altronde, l’estremo radicamento del movimento in Egitto è stato aiutato, non lo si può negare, da una politica, economica e sociale, perversa del regime Mubarak che ha reso la popolazione egiziana, il cui tasso di analfabetismo si aggira sul 44%, facile preda del proselitismo dell’estremismo islamico. Questo è il motivo per cui i Fratelli Musulmani hanno partecipato, dopo una iniziale esitazione, alle manifestazioni in piazza al-Tahrir lo scorso gennaio. E’ il motivo per cui Yusuf Qaradawi il 18 febbraio ha celebrato la preghiera del venerdì nella stessa piazza, tenendo un sermone tipico dell’islam politico, un sermone che non ha lasciato àdito a dubbi e che, comunque, come nel caso tunisino, ha cercato di calmare gli animi e tranquillizzare l’opinione pubblica. Qaradawi si è rivolto a “musulmani e copti” ovvero ai “figli dell’Egitto” e ha lodato i giovani della rivoluzione che si sono uniti in nome della rivoluzione e della lotta al tiranno, mettendoli in guardia da chiunque volesse usurpare la loro vittoria. Terminata l’introduzione prettamente politica, Qaradawi si è premurato a fornire una giustificazione religiosa, meglio coranica, della rivoluzione, quasi a giustificarne l’esito positivo, ovvero la cacciata del tiranno, con la tradizione islamica: “Notate bene che il Corano ha citato per nome solo due nazioni: una nazione citata solo in un versetto, Babilonia, e l’Egitto che è stato citato cinque volte. L’unica nazione citata nel Corano più di una volta è quella di cui Dio ha detto: ‘Entrerete in Egitto, se Dio vorrà’ (Cor. XII, 99)”. Lo shaykh non ha nemmeno tralasciato di ringraziare l’esercito egiziano: “Saluto questo esercito che è l’armatura del suo popolo, il suo sostegno e il suo orgoglio” (11) . L’intero sermone di Qaradawi meriterebbe un’analisi dettagliata a parte, ma qui sia sufficiente ribadirne i concetti fondamentali: la vittoria del popolo egiziano è avvenuta grazie alla benedizione divina, perché l’Egitto è una nazione prediletta, e grazie all’aiuto dell’esercito. Il discorso contiene nella parte finale un appello a favore dei Fratelli palestinesi, ai quali si riconferma il totale sostegno e ai quali si augura e si promette la riapertura del valico di Rafah, ribadendo il fatto che i musulmani ritorneranno a pregare alla moschea di al-Aqsa, a Gerusalemme. Immediatamente dopo si invitano gli altri popoli arabi a combattere per la libertà e i tiranni a cedere alle aspirazioni dei manifestanti, quasi a ipotecare le future vittorie, con molta probabilità in Siria e Yemen, a favore del movimento dei Fratelli Musulmani. Lo stretto legame tra movimento dei Fratelli Musulmani ed esercito è emerso anche dai risultati del referendum costituzionale del 27 marzo scorso. Il fronte favorevole agli emendamenti e contrario alla riformulazione ex-novo della costituzione ha riportato una vittoria schiacciante ottenendo il 77,2% dei voti. La “coalizione” vincitrice era costituita dall’esercito, dal Partito Nazional Democratico dell’ex-presidente Mubarak e dai Fratelli Musulmani ovvero dal vecchio establishment. Mentre sconfitta, con solo il 22,8% dei voti, è risultata la compagine costituita da liberali, nasseriani, partiti di sinistra e, ultimi ma non meno importanti, i giovani della rivoluzione del Loto. Contro gli emendamenti, in quanto non includevano la riforma dell’articolo 2 della Costituzione in cui si sancisce che “la sharia è la fonte principale della legge”, si era schierata la comunità copta. Una delle prime osservazioni che scaturiscono dai risultati del referendum è che l’Egitto post-rivoluzionario ha commesso un errore che la Tunisia è riuscita a evitare: non è stato sciolto il partito legato a Mubarak, mentre il 9 marzo il Tribunale civile di prima istanza di Tunisi aveva dichiarato disciolto il braccio politico del vecchio regime di Ben Ali: il Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD) (12) . L’altra riflessione che invece riguarda più da vicino i Fratelli musulmani è quella che li vede come la forza sociale e politica più organizzata e diffusa capillarmente su tutto il territorio. Il tutto si unisce alla loro incredibile capacità di adattamento a situazioni nuove, nella fattispecie a un sistema che vorrebbe fare della democrazia il proprio vessillo. È interessante notare, altresì, come abbiano compreso che un eccessivo richiamo all’islam potrebbe essere nocivo alla propria immagine, tanto da decidere di cambiare lo slogan elettorale del movimento da “l’islam è la soluzione” (al-islam huwa al-hall) a “la libertà è la soluzione e la giustizia è la sua applicazione” (al-hurriyya hiya al-hall wa-al-‘adala hiya al-tatbiq) soprattutto da fondare un nuovo partito, quello della Libertà e della Giustizia, con un simbolo che non ha alcun richiamo né all’islam né al Corano né, tantomeno, reca le due spade incrociate tipiche del logo del movimento. Beninteso che questo non significa in alcun modo venire meno alla loro islamicità, anzi va tenuto sempre presente che tutto il loro vocabolario va inserito e interpretato in chiave islamica. È evidente che guardano al futuro e che, come si è già riscontrato in Tunisia, non puntino al potere diretto. Lo scorso 20 maggio all’inaugurazione del nuovo quartiere generale della Fratellanza al Cairo si è confermata la costante coalizione tra estremisti islamici e regimi al potere in Medio Oriente. Ospiti della Guida suprema Muhammad Badie erano i rappresentanti del Governo turco e del partito della Giustizia e dello Sviluppo del premier turco Erdogan, del ramo palestinese dei Fratelli Musulmani, Hamas, e delle varie sigle con cui sono presenti nei vari stati arabo-islamici, tra cui Algeria, Giordania, Pakistan, Nigeria e Sudan, una delegazione dell’università islamica di Al-Azhar il cui vertice è di nomina governativa e l’ex segretario generale della Lega araba Amru Moussa, che viene indicato come il probabile vincitore nelle prossime elezioni presidenziali (13) . Allo stesso modo nella Siria lacerata dalla feroce repressione del regime di Bashar Assad hanno mosso i primi passi anche se in questo caso con il presidente/dittatore che cerca di restare al potere. Ufficialmente la famiglia Assad rappresenta il partito laico e nazionalista Baath che ha sempre combattuto, meglio perseguitato, ogni oppositore primi fra tutti i Fratelli Musulmani che dal luglio 1980 sono messi fuori legge ed esserne membro è passibile di condanna a morte. Questi ultimi, dal canto loro, come nel caso tunisino, hanno da sempre considerato il regime di Assad come apostata perché contrario a ogni precetto islamico. Il 3 febbraio 1982 si è raggiunto l’apice degli scontri con il tristemente noto massacro di Hama, durante il quale l’esercito ha ucciso circa 20.000 persone tra militanti al movimento islamico e civili. Nonostante la severa repressione, proprio come in Tunisia, il movimento non è scomparso, anzi l’11 aprile Mohammad Riad Shaqfa, il leader siriano della Fratellanza in esilio in Arabia Saudita, ha dichiarato il proprio appoggio alle manifestazioni pro-democrazia nel proprio paese d’origine. Intervistato dall’agenzia di stampa Reuters ha, altresì, affermato che pur non essendo presenti ufficialmente in Siria, i Fratelli Musulmani godono di grande favore e sostegno a livello popolare e, ha aggiunto, che “aspirano a costruire una società civile dove i cittadini godono della libertà senza alcuna discriminazione”. Shafqa ha ribadito di credere nel “pluralismo e nel processo elettorale” (14) . Nonostante Shafqa abbia negato un incontro con i servizi segreti di Stato, i Mukhabarat, per patteggiare un accordo, alcuni fatti accaduti di recente sembrerebbero confermarlo. Se nel luglio 2010 Bashar Assad aveva vietato il niqab, il velo integrale, nei luoghi pubblici e soprattutto nelle scuole, proprio lo scorso aprile Ali Saad, il ministro siriano dell’Educazione, ha ritirato l’ordinanza. A questa decisione si è unita quella che ha visto chiudere il Casinò di Damasco. Velo e gioco d’azzardo nell’ideologia dei Fratelli Musulmani sono totalmente agli antipodi: il primo è il simbolo della donna islamica, mentre il secondo è il simbolo della corruzione morale. Per concludere, la Primavera araba si sta trasformando nella grande occasione per i Fratelli Musulmani, a scapito delle masse di giovani che ne sono state l’anima. La mancata partecipazione, con tanto di dichiarazioni ufficiali, del movimento islamico alle manifestazioni del 27 maggio scorso al Cairo, in cui si chiedeva una “seconda rivoluzione” è la conferma che ormai la loro posizione è consolidata, che non hanno più bisogno di scendere in piazza e che, quindi, hanno già un futuro assicurato nella prossima compagine governativa. Purtroppo non si tratta di una buona notizia per gli egiziani, soprattutto per la compagine copta che rappresenta il 10% della popolazione. L’Occidente, in modo particolare gli Stati Uniti, e la Chiesa cattolica sembrano credere che esista in seno alla Fratellanza una parte moderata, disposta a scendere a patti con la democrazia. Recentemente il direttore della rivista Civiltà Cattolica ha scritto in un editoriale che “la recente «rivolta di popolo», che ha costretto il «faraone», H. Mubarak, dopo circa trent’anni di presidenza, ad abbandonare il potere e a ritirarsi a vita privata, ha sconcertato per molti versi l’opinione pubblica internazionale e anche le maggiori cancellerie. I disordini in piazza Tahir, divenuta il luogo simbolico della protesta, hanno fatto riemergere in molti la paura che gli islamisti, dietro le quinte, stessero manovrando la piazza per rovesciare il tiranno «infedele e idolatra», amico dell’Occidente e di Israele. A nostro avviso, dall’impasse tra islamismo e democrazia si può uscire soltanto se si dà ai movimenti islamici che hanno un seguito popolare, primo fra tutti i Fratelli Musulmani, una possibilità di autentica democratizzazione (15) .” Purtroppo la storia del Medio Oriente ha insegnato che chiunque sia sceso a patti con i Fratelli Musulmani, se ne sia pentito amaramente. Un esempio tra tutti l’assassinio del presidente egiziano Sadat nel 1981. È vero che si tratta dell’unico movimento organizzato, ma l’alternativa esiste anche se è tutta da costruire. L’alternativa è rappresentata da un insieme variegato, policromo e apparentemente informe, ma non si deve dimenticare che è stata proprio questa compagine disorganizzata a cacciare i dittatori in Tunisia ed Egitto. Da qui la necessità di riflettere su chi sostenere nel delicato passaggio alla democrazia e di decidere se appoggiare i movimenti già organizzati, quali i Fratelli Musulmani, oppure puntare su una politica a lungo termine che vedrebbe rafforzati i veri attori del cambiamento. Per approfondimenti sull’argomento... I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo Autori: Massimo Campanini, Karim Mezran- Editore: UTET, 2010 Islam e Occidente. Le sfide della coabitazione Autore: Khalil Samir- Editore: Lindau, 2011 |