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GNOSIS 2/2011
ATTUALITA'

INCONTRI SU TEMI CONTEMPORANEI

Quattro chiacchere con.....
Enrico Mentana


 articolo redazionale

 
Giornalista da trentuno anni, ha cominciato la sua carriera nel 1980 al TG1-redazione Esteri per passare, tre anni dopo, alla conduzione dell’edizione di mezza sera.
Dopo aver seguito alcuni dei grandi eventi internazionali quali i Vertici di Ginevra e Reykyavik, tra Reagan e Gorbaciov, diviene, nel 1988, Capo dei servizi speciali del TG1 e Vice Direttore, poi, del TG2.
Contattato nel 1991 dai vertici dell’allora Fininvest per la realizzazione del nuovo Telegiornale di Canale 5, ne è Direttore dal 1992 al 2004. Sempre per Canale 5, ha ideato e condotto il programma di approfondimento di seconda serata MATRIX.
Passato nel 2010 alla rete televisiva LA7 ne dirige il Telegiornale.


Per un giornalista che ha sempre sostenuto l’importanza di essere anche un libero pensatore, la prima riflessione è quasi scontata... in tempi di globalizzazione che dimensioni può avere la libertà di espressione mediatica?
Io credo che al tempo del web e della comunicazione globalizzata ci sia solo apparentemente una maggiore libertà di espressione. Certo, ognuno di noi può scrivere o leggere quel che gli pare su qualsiasi sito del mondo, ma nella frammentazione tra miliardi di segni e informazioni, che solo i grandi motori di ricerca ordinano a modo loro, ciò che si scrive o si legge è, né più né meno, quel che potremmo comunicare scrivendo su un muro, o appendendo un post-it alla stazione. In realtà, proprio per effetto di questa enorme preponderanza dell’offerta di notizie e commenti, la maggior parte delle persone, per non perdersi finisce per agganciarsi a un mediatore, che sia un social network o un sito d’informazione, o un notiziario più tradizionale. Ecco quindi che in tempi di globalizzazione si torna a cercare qualcuno di cui ci si può fidare, per affidargli il compito di segnalare quel che è successo, quel che è importante sapere, e perché. Questo rafforza chi ha un ruolo consolidato nel panorama dell’informazione ma, al contempo, gli carica addosso maggiori responsabilità: deve essere credibile, non nascondere nulla, cercare di dare un senso al percorso informativo che propone.

Quanto l’informazione sulla rete web ed i social network hanno tolto all’immediatezza della trasmissione delle notizie?
Si è come creata una divisione spontanea dei ruoli: la notizia in prima battuta viene lanciata dai media più veloci e immediati, a cominciare da Twitter; ai siti di informazione e alle tv di news “round the clock”, quelle che fanno aggiornamento continuo, il compito di impaginarla e proporla a chi vuol subito sapere come-chi-cosa-dove; ai tg e ai giornali radio il ruolo di incastonare negli appuntamenti informativi il fatto.Un TG credibile ha un patto coi suoi spettatori: tu fai quel che vuoi durante la giornata, studia, lavora, viaggia. Poi all’ora di pranzo o di cena ci penso io a aggiornarti su quel che conta sapere, o a inquadrarti le news che hai già saputo. L’ultimo anello della catena informativa sono i giornali, ai quali sempre più, per il loro gap tecnologico (vanno in stampa di notte, vengono letti il giorno dopo) assolvono il ruolo di informatori altamente autorevoli per i commenti, o più pepati per il taglio che danno.

Quanto i media contribuiscono ad alimentare tensioni, a creare allarmi o invece a fornire punti di riferimento obiettivi?
Ecco, soprattutto i giornali, per il motivo che ho appena spiegato, ma anche i talk show televisivi hanno cominciato a praticare – in alcuni casi – la strada dell’informazione ad alta temperatura, dichiaratamente di parte, di forti sapori, polemica e corrosiva. Questo serve a fidelizzare quella parte dei lettori o telespettatori che proprio questo chiede: lo scontro delle idee a partire da posizione già scelta. Io compro quel quotidiano, o guardo quel programma tv perché sta dalla mia stessa parte e lo fa con argomenti forti o sorprendenti.

La minaccia del terrorismo internazionale, dopo la morte di Bin Laden, in quali forme può esprimersi?
Come il passato anche recente ci ha insegnato, è impossibile cercare di prevedere cosa farà il terrorismo. Nessuno di noi ha neanche lontanamente previsto l’11 settembre. Nessuno di noi ha previsto che poi non ci sarebbe più stato, per dieci anni, nulla di simile. Le grandi azioni terroristiche sono come le grandi crisi economiche non solo per i loro effetti ma anche perché, nonostante la presenza di grandissimi esperti alla guida di strutture governative e non, nessuno è mai riuscito a prevederle davvero. La mia impressione, per quel che vale, è che le rivolte di inizio 2011 nei paesi arabi del Nord Africa e del Medio Oriente dimostrano una scelta ben diversa da parte delle opinioni pubbliche, soprattutto giovani, di quelle nazioni, stanche di povertà e ribellismo armato. Ansia di progresso e di consumi: il contrario di quel che predicava Bin Laden.

Che significato hanno allora le primavere nordafricane ed arabe? E gli effetti sono destinati a durare?
Questo è il vero problema: sappiamo quel che le genti arabe dei paesi moderati non vogliono, sappiamo quel che sognano, ma non abbiamo la minima idea di quel che ne potrà venir fuori. Una spinta popolare così forte da cacciare Ben Alì o Mubarak, o addirittura da far vacillare il regime gendarme del mondo arabo, quello siriano, e però così impersonale, senza un Ataturk o un Ben Bella, e senza vettori precisi. Anche le grandi diplomazie brancolano nel buio…

La situazione economico-sociale italiana può favorire un ritorno alle piazze?
Non credo, a meno che non si estenda ancor di più la tendenza che purtroppo si è molto radicata in questi anni, cioè quella di contenere i danni sociali della crisi per chi lavora o è in pensione, a danno però delle prospettive di chi nel mercato del lavoro deve ancora entrare. In Italia c’è quella ricchezza diffusa, quel risparmio delle famiglie che finora ha attutito gli effetti peggiori della crisi, ma senza uno sforzo della politica di svoltare generazionalmente il sistema paese rischia seriamente di atrofizzarsi.

Cosa si può fare per una maggior sensibilizzazione del concetto di sicurezza nazionale?
Quando un paese vive oltre un sessantennio di pace, com’è successo a noi, la grande maggioranza dei suoi abitanti ritiene che la condizione attuale sia come uno stato naturale. Progressivamente è sempre più così, e la fine della leva obbligatoria ha allontanato ancora di più le nuove generazioni dall’idea classica di sicurezza, ma anche da quella di interesse nazionale alla sicurezza. È quel che succede anche rispetto alla democrazia, forma di rappresentanza che chi è nato dopo il 1945 ritiene scontata, unica, immutabile. E così l’idea classica di nemico, di pericolo, è venuta meno. Con la fine del comunismo la cintura di coesistenza democratica attorno al nostro Paese è ormai larghissima. Eravamo la frontiera dell’occidente, ora siamo nel bel mezzo della grande Europa e, se vediamo dei rischi, dobbiamo cercare i barconi dei migranti che arrivano dal sud del Mediterraneo.

Qual è la minaccia più immediata per la sicurezza del Paese? E quali sono i momenti di debolezza della società italiana
Non vedo serie minacce. Il decennio di Bin Laden ci ha risparmiato. L’Europa non è diventata Eurabia come profetizzava e temeva Oriana Fallaci. La grande ondata migratoria da est si è fatta più esile; quella da sud ci mette al cospetto di disperati che faranno lavori che nessun italiano vuol più svolgere. Bisogna solo saper organizzare il filtro, il respingimento quando è giusto, e l’inserimento.Se i governi avessero lavorato meglio, tutte le paure oscure sarebbero già svanite.

Che ruolo può avere l’intelligence in tempi di globalizzazione?
Lo stesso che ha avuto sempre, solo messo al passo con la struttura ormai sterminata della rete mondiale, che impone strategie e tecniche che immagino del tutto diverse rispetto al passato. Il mondo globalizzato non è per questo un mondo più sicuro. Il fatto stesso che sia più “aperto” lo conferma.

Quanto contano la formazione culturale e l’esperienza nel percorso professionale di un giornalista?
Bisogna intendersi su cosa vuol dire “formazione culturale”: un giornalista deve certo avere un background vasto e profondo ma, soprattutto, deve avere umiltà e passione, perché il giornalismo non si insegna a scuola, lo si impara sgobbando sul campo e alla scrivania di lavoro. Alcuni dei migliori giornalisti che ho conosciuto non erano laureati, non sapevano le lingue, non avevano mai letto una riga di Marshall McLuhan, ma avevano un fiuto e una capacità di isolare l’osso della notizia che purtroppo tanti giovani plurilaureati e poliglotti di oggi non avranno mai…

Le facoltà universitarie specifiche dei settori della comunicazione possono essere importanti?
Francamente non sono un estimatore delle facoltà di comunicazione. Fabbricano spesso disoccupati, illusi, nozionisti della comunicazione più che promesse del nostro settore. Non si capisce cosa siano, quelle facoltà. Chi le ha volute, chi le dirige, chi le imposta. Se non insegnamo noi, che facciamo questo mestiere sul campo; se nemmeno conosciamo chi insegna; se vediamo arrivare nelle nostre redazioni per il tradizionale stage giovani pieni di tare oltre che di buona volontà, ai quali bisognerà dire “le speranze sono poche”; se ogni anno ci sono più lauree e master in giornalismo e comunicazione di quanti posti si creino in assoluto nel settore, e già ci sono frotte di disoccupati a spasso… Se tutto questo è vero, qualcuno sa spiegarmi a cosa servono davvero quelle facoltà?

Un adolescente del 2011 può ancora sperare di realizzare un sogno?
Ci mancherebbe altro! È molto più difficile di trent’anni fa, ma un paese muore se non dà alle nuove generazioni almeno il diritto di sognare ragionevolmente di “farcela” di arrivare dove vorrebbe.

Se uno dei ragazzi Mentana volesse fare il giornalista che consigli gli daresti?
Vai per la tua strada, cerca di non chiuderti gli orizzonti, appassionati a tutto. Mio padre era un giornalista sportivo, io ho fatto altro, ma quel che ho capito è che devi saper scrivere o parlare di economia e di tennis, di cronaca e di cinema, di politica e di diplomazia, perché di tutto questo sei curioso, perché per primo ne vuoi sapere di più.

Che cosa ti manca dei tuoi venti anni?
Tante, troppe cose! La capacità di sognare a occhi aperti, la socialità spontanea della gioventù, la curiosità divorante, un mondo diverso, le ideologie potenti, l’Italia ancora gentile, Milano, i miei genitori…



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