GNOSIS 2/2011
Dieci anni di guerre asimmetriche Dall'Afghanistan alla Libia lezioni per l'Occidente |
Guido OLIMPIO |
Armi a basso costo. Inventiva. Alta mobilità. Capacità di adattarsi. Tunnel e bunker. E un gran numero di razzi. Dal Medio Oriente all’Asia, formazioni guerrigliere hanno modellato le loro forze per tenere testa a eserciti meglio organizzati. Scelte spesso dettate dalle necessità operative e dalla mancanza di mezzi. In queste pagine esamineremo alcune crisi dove i protagonisti hanno messo in atto chiari esempi di guerra asimmetrica: la Libia, il conflitto tra Hezbollah e Israele, quello nella Striscia di Gaza e gli sviluppi del confronto nello scacchiere afghano-pachistano. Ognuno contraddistinto da un'arma di "preferenza". Le "tecniche" – ossia le jeep armate – i razzi e le trappole esplosive. Sistemi rudimentali che possono però creare problemi e perdite a eserciti convenzionali. La campagna di Libia All'inizio della rivolta popolare contro il regime di Gheddafi gli oppositori non pensavano probabilmente di doverla fare con le armi. Ma le dimostrazioni in Cirenaica hanno travolto la debole resistenza delle Forze armate permettendo a chi era sceso in piazza di entrare in possesso di equipaggiamento bellico. A Bengasi la popolazione ha conquistato diversi depositi e caserme, avendo accesso a poche dozzine di vecchi tank e blindati, a ingenti quantitativi di munizioni, a un buon numero di mitragliatrici anti-aeree, lanciarazzi, Rpg e veicoli leggeri. Nell'arco di pochi giorni una massa di volontari, affiancata da un nucleo ridotto di soldati passati con l'opposizione, ha costituito la forza centrale di uno schieramento variegato. È stato calcolato che fossero poco più di mille i "professionisti", con un numero ridotto di ufficiali, presenti a Bengasi. Poi alcune centinaia di volontari, con tanto coraggio ma scarsa arte militare. Una presenza modesta rispetto ai governativi. Secondo l'Istituto di studi strategici di Londra era questa la consistenza – sulla carta, sottolineiamo – delle truppe filo-Gheddafi: - 50 mila regolari (ma vi sono dubbi). - Diverse migliaia di irregolari, raccolti nei comitati popolari. - Circa 2000 carri (vecchi T 72, T 62 e T 55) - Circa 2000 blindati (Btr, Bmp 1, M113) - Semoventi Palmaria italiani. - Gruppi di mercenari provenienti dal Sudan, Ciad, Niger, Sahara, Algeria, Bielorussia e Serbia. Difficile quantificarne il numero. Forse una realtà che a tratti è stata enfatizzata. Il regime ha ingaggiato soldati di ventura, ma non hanno avuto l'impatto e le proporzioni che si sono dette. L’aviazione – anch'essa antiquata – è stata neutralizzata dopo l'intervento della Nato e l'imposizione della no fly zone. Identico destino per l'ombrello missilistico costituito da Sam 2 e Sam 5. In mano ai lealisti sono rimasti sistemi mobili e quelli portatili. Il conflitto, sotto il profilo delle operazioni terrestri, ha avuto tre zone chiave. La Cirenaica a est. La città di Misurata. L'Ovest, detta anche "la montagna". Nelle regioni orientali i combattimenti hanno avuto – almeno fino al maggio 2011 – due fasi. La prima, dalla metà di marzo agli inizi di aprile. La seconda nella tarda primavera. La prima fase Molto caotica, è stata segnata dal continuo passaggio di mano di diverse località. Ajdabya, Brega, Ras Lanuf sono state teatro di combattimenti condotti essenzialmente con l'impiego – massiccio – di pick up e fuoristrada armati di mitragliatrici anti-aeree e lanciarazzi tipo Grad. I ribelli avevano solo quelli, i governativi li hanno mescolati ai corazzati nella speranza di renderli meno individuabili alla caccia alleata. E in parte vi sono riusciti. Anche perché si trattava di mezzi del tutto simili a quelli dei loro avversari e non identificabili come militari. Interessanti le "applicazioni" degli insorti. Privi di artiglieria pesante e lanciarazzi con lunga gittata (oltre i 20 chilometri) i ribelli hanno organizzato delle officine che hanno prodotto una panoplia di mezzi: - pick up dotati di mitragliere anti-aeree - camioncini con lanciarazzi rudimentali: spesso quattro tubi attivati dalla batteria del veicolo. Una copia di un sistema egiziano. - Mezzi su cui hanno sistemato lanciarazzi prelevati da elicotteri da combattimento - Jeep con piccole rampe per lanciare ordigni trovati nei depositi. - Veicoli sequestrati ai governativi: come i Grad con gittata media. I ribelli hanno incontrato serie difficoltà per la mancanza di quadri, lo scarso addestramento – almeno fino a maggio – l'assoluta incapacità di condurre azioni coordinate, apparati comunicazione inesistenti, treno logistico nullo. Inoltre l'equipaggiamento trovato a Bengasi era di scarsa qualità. Mancavano pezzi di ricambio, erano mezzi scarsamente efficienti e il personale non era adeguato. Gheddafi, in base ad una scelta deliberata, aveva lasciato in Cirenaica solo le "seconde linee". In favore dei ribelli, invece, la protezione Nato e l'accesso al confine egiziano attraverso il quale è proseguito ininterrotto il flusso di rifornimenti. Armi leggere, munizioni, apparati radio – inesistenti all'inizio – e veicoli per rimpiazzare quelli andati perduti. In Cirenaica, e come vedremo anche nel resto del Paese, il conflitto ha ricalcato quello avvenuto negli anni '80 nel deserto del Ciad. Protagoniste le "tecniche", i grandi fuoristrada e i pick up, usato come una cavalleria armata per percorrere le poche strade disponibili (in particolare sulla costa o in direzione sud). Nell’Est i governativi, meglio addestrati e forse ben assistiti da qualche consigliere straniero, hanno tenuto per mesi usando un mezzo vecchio come la Katiuscia. Le loro arrivano fino a 40 chilometri, le poche a disposizione dei ribelli – nella prima fase – a 20. A Misurata, per settimane, popolazione e insorti hanno subito un assedio asfissiante, condotto con bombardamenti continui e uso di cecchini. I gheddafiani avevano schierato nuclei di 4/5 tiratori scelti sui palazzi più alti che venivano riforniti ogni tanto. Erano di fatto gruppi autonomi. E per giorni la tattica ha funzionato. Per gli insorti l'unica via di rifornimento era quella marittima e, riuscendo a tenere in mano il porto, hanno potuto ricevere viveri e aiuti militari. Poche le armi a disposizione degli insorti. Kalashnikov, qualche Rpg e bottiglie molotov. Nell’Ovest, settore abitato dai berberi, i lealisti hanno picchiato duro ma grazie alla conformazione del terreno, con i villaggi posti in alto e vie d'accesso scarse i ribelli hanno impedito che molte località cadessero nelle mani degli avversari. Pesanti comunque le perdite per la popolazione, costretta alla fuga in Tunisia. La seconda fase Con l'intensificarsi dei raid Nato e un flusso più continuo di rifornimenti (accompagnati da consiglieri del Qatar, egiziani, italiani, inglesi e francesi) le operazioni terrestri hanno fatto registrare in maggio un cambiamento lento ma continuo. A Est, i ribelli hanno intensificato l'addestramento e le loro unità hanno evitato le incursioni azzardate che erano costate vittime e rovesci nei primi giorni della rivolta. A Bengasi i rivoluzionari hanno pensato soprattutto a consolidare le posizioni erigendo difese, postazioni e punti di blocco inesistenti fino ad allora. Nel contempo hanno reso più intenso e organizzato l'invio di aiuti verso Misurata con l'impiego di rimorchiatori, pescherecci e piccoli cargo. Una pipeline che, unita ad attacchi aerei di precisione da parte dell'alleanza, ha permesso agli insorti di passare all'offensiva. Certa la presenza al loro fianco di consiglieri, in particolare contractors ingaggiati dai governi alleati. È, infatti, impossibile che nell'arco di poche settimane gli "sparatori a casaccio" di Misurata siano diventati dei soldati provetti. Foto e video hanno mostrato tecniche di combattimento urbano. Gli insorti hanno iniziato a muoversi di casa in casa attraverso buchi aperti nelle pareti. In alcuni edifici hanno aperto piccole feritoie per poter sparare senza essere colpiti. I nidi di cecchini sono stati eliminati con fuoco preciso oppure con trucchi, come quello di appiccare incendi alla base degli edifici. Fumo e fuoco hanno costretto i tiratori ad abbandonare le posizioni. Per fermare l'avanzata dei tank sono stati realizzati fossati con l'impiego di trattori. In alternativa sono stati piazzati Tir riempiti di terra e detriti. In diverse occasioni i lealisti sono stati costretti a seguire percorsi obbligati esponendosi alle sortite di guerriglieri armati di Rpg. Attraverso il porto sono poi arrivate le "tecniche" armate (con mitragliere e cannoni senza rinculo) e in alcune officine le hanno modificate dotandole di protezioni. I pick up sono diventati dei mini-blindati, in grado di resistere alle fucilate. Se nella prima fase il fuoco delle "tecniche" era impreciso, nella seconda i ribelli hanno imparato a usarle in team di 2 o 3. La prima procedeva a marcia indietro (poiché le mitragliere posso tirare solo verso il retro), ingaggiavano l'obiettivo per diversi minuti. Poi lasciavano il posto alla seconda e così via. In diverse occasioni hanno proceduto in coppia (o in quattro affiancate) per aumentare il volume di fuoco. Spesso in queste azioni, gli insorti hanno accompagnato la manovra con un fitto di lancio di Rpg e altri sistemi controcarro. Il Qatar, a questo proposito, ha fatto arrivare numerosi lanciatori Milan. A Misurata e nell'Ovest i combattenti hanno di nuovo mostrato una certa inventiva. Sono anche comparsi dei camioncini su cui era stata montata la torretta con cannoncino di un blindato: non poteva ruotare e per ricaricare il pezzo serviva qualche minuto. Ancora. I ribelli hanno usato dei vecchi Sagger contro-carro per effettuare un fuoco di sbarramento. Invece che impiegare il sistema filo-guidato, li hanno sparati facendoli partire da rudimentali rampe. Difficile valutarne gli effetti. Gli analisti militari si sono mostrati piuttosto scettici. Ma l'impressione è che il fuoco continuo degli insorti – anche se impreciso – e gli attacchi aerei abbiano spesso spinto i lealisti ad abbandonare le posizioni. Sulla "montagna", a ovest, i berberi hanno usato più o meno le stesse tattiche – indizio di qualche forma di coordinamento – e sono riusciti a strappare al nemico mezzi importanti. Dominando le alture hanno impedito ai lealisti di lanciare controffensive di grande ampiezza e conquistando un posto di frontiera con la Tunisia si sono garantiti una retrovia importante. Anche nell'Ovest, il Qatar, uno dei pochi paesi arabi a dichiarare in pubblico il suo supporto, ha fatto arrivare mortai, equipaggiamento vario, proiettili, radio. Limitandoci all'esame dei primi tre mesi di conflitto si possono fissare alcuni punti: - Senza l'azione della Nato, la rivolta sarebbe stata stroncata nel sangue. - La copertura dell'aviazione alleata ha costruito un ombrello efficace e i raid hanno neutralizzato gran parte dei sistemi d'arma più importanti. - I ribelli, pur nella confusione e con equipaggiamento ridotto, hanno resistito e in certe aree hanno strappato posizioni al nemico. Notevole l'inventiva mostrata dagli insorti nel tentare di migliorare il loro equipaggiamento. - Un conflitto che ha assorbito risorse e sforzi diplomatici è stato combattuto con mezzi modesti e semplici (ovviamente non consideriamo la componente aerea). - Usando veicoli leggeri, lanciarazzi e mitragliatrici è stato più facile per i contendenti reperire ricambi e rifornimenti. Il mercato delle armi – anche dell'usato – è stato in grado di soddisfare la domanda. La campagna libica, in conclusione, ha mostrato come in certi scacchieri i conflitti possano essere combattuti sue due livelli. Il primo – e ci riferiamo all'intervento Nato in tutte le sue forme – altamente tecnologico. Il secondo con mezzi datati e tattiche piuttosto semplici. I razzi Israele ha due fronti di guerra attivi o semi-attivi. Il primo è quello a nord, che lo oppone agli Hezbollah libanesi. Oggi a dividere i due schieramenti c'è un ampio contingente Onu, del quale fanno parte anche i soldati italiani. Il secondo riguarda la Striscia di Gaza con Hamas e i gruppi salafiti. In entrambi gli scacchieri, davanti allo strapotere dell'esercito israeliano, i miliziani hanno usato e usano razzi di varia gittata. Non possono alterare l'equilibrio militare ma hanno un alto impatto politico perché possono colpire la popolazione civile. E dunque questo ha ricadute interne non secondarie. Nell'estate del 2006, dopo il rapimento di tre soldati israeliani da parte dell'Hezbollah, l'esercito di Gerusalemme ha lanciato un'offensiva basata essenzialmente sulla forza aerea e su interventi terrestri limitati. Una campagna che ha mostrato evidenti limiti e suscitato aspre critiche nell'establishment israeliano. Contro formazioni guerrigliere bene organizzate – e l’Hezbollah lo è – i soli aerei non bastano. Per contro il movimento sciita libanese, ampiamente sostenuto da Iran e Siria, ha dimostrato che le versioni aggiornate delle Katiuscia possono condizionare eventi regionali e provocare conseguenze internazionali. L'ampliamento del contingente Onu è legato proprio alla minaccia dei razzi. L’Hezbollah si è preparato al conflitto per quasi sei anni. Non era sua intenzione usare gli ordigni nel confronto del 2006 ed è stato colto di sorpresa dalla risposta di Israele. Ma ha reagito con rapidità adeguandosi alla situazione. I miliziani hanno creato tre linee. La prima composta di razzi a corto raggio (122 millimetri) dispiegati a sud del fiume Litani e gestiti dalla Brigata Nasser. L’Hezbollah ha nascosto gli ordigni in dozzine di villaggi a ridosso della frontiera con Israele. Oltre alle postazioni fisse – celate in garage, cortili, fattorie – è stato creato un sistema mobile quanto efficace. Questa la sequenza: 1) Un team raggiunge un punto di lancio e piazza la rampa (una struttura in metallo facilmente trasportabile con qualsiasi veicolo). Quindi si disperde. 2) Un secondo team porta un razzo e si disperde. 3) Infine entrano in scena i "lanciatori" che sparano l'ordigno oppure programmano il lancio con un timer. Fonti israeliane hanno rilevato che in questo modo le unità Hezbollah hanno ridotto al minimo la possibilità di essere individuati e attaccati dall'aviazione. Alcune delle postazioni sono state create in boschetti, altre erano ben mimetizzate in "trincee" protette da coperture. I guerriglieri hanno poi organizzato una seconda linea, a nord del Litani, con razzi di medio e lungo raggio piazzati su veicoli di vario tipo. È stato calcolato che dal 2006 Siria e Iran abbiano fornito ai miliziani non meno di 13 mila razzi in modo da garantire un fuoco di sbarramento per settimane: secondo alcune stime, l’Hezbollah avrebbe sparato quasi 3800 missili, dei quali 901 hanno centrato località abitate di Israele. Un doppio dato che dice: gli sciiti, nonostante i raid aerei, hanno potuto mantenere i tiri fino all'ultimo giorno senza intaccare troppo le riserve; la precisione di questi ordigni è relativa, ma ciò non impedisce di creare una pressione sulla popolazione e sul governo avversario. Anche pochi razzi possono servire alla "causa". Nel senso che permettono a Hezbollah di affermare: "Non siete riusciti a bloccare la nostra risposta". Per proteggere le due linee da un'eventuale offensiva terrestre il movimento filo-iraniano ha creato un apparato di difesa altrettanto sofisticato con tunnel dotati anche di telecamere, vie di fuga e punti di tiro. Nel 2006 c'erano non meno di 600 bunker-deposito. Ogni unità era a conoscenza di solo tre rifugi, in modo da proteggere il network in caso di cattura. All’interno dei tunnel hanno preso posizione gruppi di fuoco dotati di razzi contro-carro di ogni tipo: dagli Rpg ai nuovi Kornet, dal Tow a ordigni cinesi. In alcune occasioni i reparti israeliani sono stati accolti da "sciami di razzi". Su 400 tra tank e blindati impiegati da Israele ne sono stati danneggiati quasi un centinaio. E alcuni sono andati completamente perduti. Gli Hezbollah hanno anche impiegato i sistemi anti-carro nei combattimenti urbani provocando perdite serie: un Tow tirato all'interno di un'abitazione può causare gravi danni. Come ha evidenziato una commissione d'inchiesta, i guerriglieri sono stati avvantaggiati anche dall'indecisione del comando israeliano e dal ritardo nella mobilitazione di forze sufficienti da parte di Gerusalemme. Il governo voleva evitare di finire nell'ennesimo "pantano libanese" e si è affidato soprattutto all'aviazione. Quando, alla fine, ha ordinato un intervento delle brigate mobili era ormai troppo tardi. E anche in questo frangente – sempre secondo l'inchiesta – è emersa una cattiva preparazione. La strategia dell'Hezbollah ha seguìto un'evoluzione costante basata su quanto fatto dopo il 1985, quando Israele ha mantenuto il controllo di una fascia di sicurezza nel Libano sud affidandola a piccole unità dell'esercito e agli alleati libanesi dell'ALS. In quegli anni il comando sciita aveva indicato 13 princìpi chiave. Vediamoli. 1) Evita il più forte, attacca il debole. Attacca e ritirati. 2) La protezione dei nostri combattenti è più importante dei danni arrecati al nemico. 3) Attacca solo quando il successo è sicuro. 4) La sorpresa è essenziale. 5) Non farti trascinare in una battaglia aperta, sfuggi come il fumo prima che il nemico usi il suo vantaggio. 6) Arrivare alla méta richiede pazienza, solo così puoi scoprire i punti deboli dell’avversario. 7) Rimani in movimento. 8) Mantieni il nemico in allerta costante. 9) La strada per la grande vittoria passa attraverso migliaia di piccole vittorie. 10)Mantieni alto il morale dei tuoi uomini, nega la superiorità del nemico. 11)I media hanno molte armi che colpiscono come proiettili. Usali in battaglia. 12)La popolazione è un tesoro, coltivala. 13)Crea danni al nemico e fermati prima che rinunci alla moderazione. Alcuni di questi "cardini" sembrano ovvii o semplici slogan. Ma sul piano tattico hanno funzionato. Su quello strategico – nel 2006 – hanno fatto emergere qualche problema. O meglio, Hezbollah, forse troppo sicuro di se stesso, ha sottostimato quella che poteva essere la reazione di Israele dopo il rapimento dei suoi tre soldati. In ogni caso, il movimento non è parso abbandonare questa linea di difesa e attacco. Rivelazioni emerse durante i primi sei mesi del 2011 hanno fornito una nuova "fotografia" della situazione libanese. 1) Israele ha identificato 550 nuovi bunker, 300 punti di sorveglianza e altri 100 siti legati ad attività militari. 2) Hezbollah sarebbe in possesso di oltre 40 mila ordigni. Tra questi: M600 cinesi (400 km di gittata), Scud D (700 km.), Zalzal (200 km.), Fajr (75 km.). 3) Hezbollah, in caso di guerra, può lanciare una media quotidiana di 600 razzi. 4) Con l'eccezione degli Scud, queste armi possono essere sparate in un lasso di tempo inferiore ai 10 minuti. In caso di un nuovo conflitto il movimento libanese seguirà dunque questo profilo operativo. E non potrebbe far diversamente visto il gap che lo divide dall'apparato israeliano. Ma chi ha studiato il dossier è altrettanto convinto che vi possano essere nuove sorprese. Sia da parte dell'Hezbollah che da Israele. Il caso Hamas La crisi libanese del 2006 ha avuto un grande impatto sulle scelte militari di Hamas, la fazione integralista palestinese che ha il suo "cuore" nella Striscia di Gaza, alla frontiera meridionale di Israele. E il conflitto che ha opposto i palestinesi agli israeliani (dicembre 2008 – gennaio 2009) ha riproposto l'uso dei razzi da parte della componente più debole. Hamas, tuttavia, non è l'Hezbollah e il territorio dove opera è limitato e isolato. Non c'è vegetazione fitta, né fiumi o alture che possano offrire ripari naturali. Inevitabile che i palestinesi abbiano fatto ricorso ai razzi e alle trappole esplosive. I primi, soprattutto, – come in Libano – hanno avuto più un valore politico che militare. Ed hanno, comunque, rappresentato una sfida alla deterrenza israeliana. L’uso di questi ordigni risale alla seconda intifada: Hamas ha iniziato con i primi rudimentali Kassam ed ha proseguito fino ad oggi. Tiri che in quest'arco di tempo hanno causato danni materiali – contenuti – e una ventina di vittime, oltre allo stress psicologico per le popolazioni diventate bersaglio e ostaggio. Israele ha risposto con mezzi convenzionali – aviazione, artiglieria, droni – e attività segrete. Quest'ultime mirate a neutralizzare la filiera di rifornimento. Hamas, nella guerra del 2008, ha fallito sostanzialmente parte dei suoi obiettivi: non è riuscita a rallentare l'avanzata delle unità terrestri; i suoi combattenti si sono rivelati inferiori alle aspettative; non ha creato quella deterrenza che avrebbe dovuto indurre Israele a una maggiore prudenza (cosa avvenuta invece in Libano); ha subìto perdite serie anche se non irreparabili. All'opposto, l’offensiva nemica, non ha neutralizzato la minaccia dei "missili" che continuano a essere presenti nella Striscia e crescere nei numeri. Hamas ha lavorato con successo su quattro livelli: 1) Produzione locale di razzi Kassam con portata dai 6 ai 12 chilometri. 2) Incremento della qualità dei "pezzi". 3) Import di missili di produzione iraniana con un raggio più ampio (come i Fajr). 4) Utilizzo di mortai contro le truppe e gli insediamenti a ridosso della Striscia. Il tutto è stato ottenuto con costi relativamente contenuti. Quella che segue è una tabella – approssimativa – dei prezzi delle loro armi. Un razzo Grad costa sui mille dollari, un Kassam solo cento, un proiettile per mortaio 500-700 (c'è la tassa da pagare ai contrabbandieri). Israele, solo di recente, ha introdotto un sistema anti-Katyuscia (Iron Dom) che ha dato buoni risultati, anche se i conti per lo sviluppo e l'uso sono piuttosto salati. In base alle informazioni di fonte israeliana Hamas ha impiegato in maggioranza ordigni con un raggio d'azione non superiore ai 20 chilometri. Poi, verso la fine di dicembre, è passata all'uso del WeiShei-1E, un razzo cinese prodotto in due versioni: la prima in grado di colpire un bersaglio a 10-12 km, la seconda fino a 40. Per aumentarne gli effetti, all'esplosivo (dai 18 ai 28 kg.) sono state aggiunte biglie di ferro. Pur subendo una sconfitta, Hamas – grazie anche all'uso dei missili – può rivendicare alcuni successi. Come l'Hezbollah è stata in grado di minacciare le comunità israeliane con i Kassam e questo pericolo resta intatto. L'organizzazione non è stata annientata. Anzi, ha rimesso in piedi parte delle sue forze ottenendo nuovi rifornimenti militari dall'Iran. Il movimento ha mostrato anche di sapersi adattare e "cambiare in corsa". Del resto Israele è entrato facilmente a Gaza, non ha incontrato la resistenza temuta – si parlava di un cerchio di fuoco irto di trappole – però ha deciso, alla fine, di ritirarsi. Certo, l’obiettivo non era quello di rioccupare la Striscia ma lo Stato ebraico ha preferito un'operazione di media durata per non restare invischiato in una situazione che poteva diventare rischiosa per i suoi uomini e senza ottenere i vantaggi desiderati. Una presenza continuata in territorio comunque ostile può essere segnata da attentati, rapimenti di soldati, incidenti nei quali a pagare è soprattutto la popolazione. Non c'è alcun ritorno politico – interno ed esterno – non è possibile neutralizzare fino in fondo un movimento come Hamas che non è solo una realtà militare ma conta su un grande consenso sociale. Le forniture Non un aiuto sporadico ma una linea di rifornimenti che ha una dimensione che supera i confini regionali. Il movimento libanese riceve i rifornimenti in modo diretto lungo tre direttrici. Per aggirare i controlli i container vengono spediti in scali intermedi e poi trasferiti su un secondo mercantile. Le armi sono celate dietro partite di latte in polvere o altri prodotti legittimi. Per via aerea grossi cargo trasportano i missili sempre in Siria o nel Libano stesso. Diverse spedizioni sono state individuate nel corso degli ultimi due anni. Infine la via terrestre. Le armi raggiungono la Siria, quindi i rifugi libanesi. In territorio siriano vi sarebbero numerosi depositi dove gli Hezbollah hanno stoccato delle riserve di razzi. Inoltre un impianto – ancora in Siria – produrrebbe una versione speciale dei Grad. Più articolata la filiera che alimenta Hamas con i carichi che seguono la rotta africana: Sudan, Egitto, Penisola del Sinai, infine Gaza. A gestire le operazioni un network complesso composto da ufficiali dell’Armata Qods, elementi sudanesi e contrabbandieri legati ai clan beduini. Talvolta sul territorio egiziano ci sono contatti con cellule islamiste, in particolare quelle presenti nel Sinai. Le rivolte in Nord Africa, il caos che ha sconvolto gli Apparati di sicurezza in Libia, Egitto e Tunisia, i minori controlli hanno ampliato queste attività. Il teatro afghano-pachistano Afghanistan e Pakistan formano un unico teatro. Impossibile dividerli. Uno incide sull'altro. Le forze insurrezionali e terroristiche muovono lungo i due lati della frontiera. Esistono connessioni ideologiche, vincoli di complicità, scambi operativi, reclutamento nelle due direzioni. Contro questa minaccia si muovono forze convenzionali. In Afghanistan il contingente alleato – del quale fa parte anche l'Italia – in Pakistan l'esercito locale e, in misura minore, gli Usa con forze speciali e droni armati. Pur contando su migliaia di seguaci, i militanti accettano solo raramente lo scontro a fuoco diretto. Di solito, contro le postazioni più esposte in aree remote. Le loro armi preferite rappresentano un tridente: gli ordigni esplosivi – conosciuti in gergo come IED (improvised explosive device) –; gli attentatori suicidi; l'infiltrazione accompagnata da azioni kamikaze. Da oltre un decennio combattono in questo modo e solo ogni tanto introducono delle leggere varianti, come quella dei cecchini. Si tratta di "sistemi" a basso costo ma che incidono sul teatro. Fonti americane sostengono che dal 2007 a oggi, il 57-60 per cento delle perdite sono da imputare agli IED. Una percentuale che nel corso del 2010-2011 sarebbe salita ulteriormente. Inizialmente gli insorti usavano vecchie mine, poi esaurite le scorte hanno costruito ordigni con il fertilizzante al quale hanno aggiunto "proiettili" di vario tipo. Biglie, chiodi, viti, frammenti di metallo. Le bombe possono essere attivate a distanza, ma il ricorso da parte degli alleati di contromisure ha spinto i ribelli ad ampliare le cariche a pressione. Dal singolo ordigno si è passati al cosiddetto "anello". Una serie di cariche disseminate lungo una strada o attorno ad un edificio. Sono fatte detonare insieme oppure con la tecnica dell'esca: un primo "botto" che colpisce la pattuglia, quindi gli altri per investire i soccorritori. Imitando una tecnica già adottata dai qaedisti in Iraq, i talebani hanno organizzato "case esplosive" destinate a fare perdite tra le pattuglie appiedate. L'edificio viene "trappolato", così come la zona circostante. Indispensabile per la messa a punto degli ordigni è il fertilizzante che viene importato in quantità industriali – e con il contrabbando – dal vicino Pakistan. Le bombe sono studiate per danneggiare i veicoli protetti di nuova concezione. Cariche che vanno dai 20 chilogrammi ai 200. In alcune regioni sono apparsi gli ordigni perforanti: "creature" dei pasdaran iraniani cedute ai talebani. Per parare la minaccia gli alleati hanno speso somme astronomiche. Gli Usa hanno un dipartimento interforze che conduce ricerche e sollecita il mercato privato nel trovare rimedi. Studi costati non meno di 20 miliardi di dollari. Nello scacchiere sono arrivati mezzi protetti che hanno limitato i danni e reso più sicure le missioni in territorio ostile. Mezzi come l'Oskkosh M-ATV, il "Buffalo", il "Cougar", il Navistar MaxxPro, il Cayman, l'italiano "Lince", il tedesco "Dingo" hanno incrementato lo scudo e favorito la lotta agli IED. Inoltre è cresciuto – con costi notevoli – l'impiego di sistemi elettronici. Velivoli-spia, droni, palloni aerostatici con sensori e visori, mappatura sistematica delle rotte seguite dalle unità Isaf, lavoro di intelligence per scoprire i network di posatori. Una ripetizione della tattica che ha dato risultati in Iraq. Il Pentagono riconosce che si sono registrati progressi ma che è ovviamente impossibile eliminare il problema. Per dare un parametro: nel gennaio 2011 sono stati registrati 1344 attacchi con bombe, ne erano stati censiti "solo" 465 nell'intero 2005. Nel tenere il conto delle azioni, gli americani hanno anche rilevato un aumento delle bombe contro unità appiedate. Nell’aprile 2009 sono state 5, nell'aprile 2010 sono passate a 210, nello stesso mese del 2011 ne hanno registrate 376. Armi che a volte non uccidono ma provocano mutilazioni estese agli arti inferiori e al bacino. Il Pentagono parla di un incremento dell’11 per cento dei mutilati. Ferite che cambiano la vita dei soldati, provocano conseguenze fisiche e psicologiche, incidono sui costi dell'assistenza. Insieme alle trappole, gli insorti hanno proseguito nel periodo 2010-2011 le operazioni affidate ai kamikaze. Con due modus operandi. Il primo, quello classico, con il terrorista che si fa saltare in mezzo alla folla o in prossimità di un obiettivo sensibile. La seconda ha invece caratteristiche militari. I kamikaze colpiscono in formazione: un primo team attiva le cariche vicino al posto di guardia di una caserma o sfonda la porta carraia su un veicoli pieno di esplosivo e bombole di gas. È la tattica della testuggine. Aprono una breccia per favorire l'ingresso di un gruppo di fuoco che si infiltra in un'installazione o in una base cercando di resistere il più a lungo possibile. L’operazione può chiudersi con la fuga di una parte degli assalitori oppure con il suicidio. Rispetto alle azioni "convenzionali", queste ultime hanno un grande impatto propagandistico e accrescono il senso di insicurezza. È altrettanto chiaro che per organizzarle è necessario un lavoro di intelligence accurato e, spesso, gli assalitori hanno bisogno di complicità interne. Ma i primi sette mesi del 2001 hanno mostrato che ai talebani non mancano né kamikaze né persone disposti ad aiutarli. Conclusione Negli scenari esaminati abbiamo fotografato solo una parte degli arsenali impiegati. È volutamente un quadro parziale. Ma è chiaro che il "piccolo" può mettere in crisi il "grande". Gli apparati e la tecnologia degli eserciti sono impressionanti. Vedono l'impossibile, raggiungono il nemico quando meno se lo aspetta, offrono ai militari una molteplicità di risorse. Ma a volte queste armi sono troppo avanzate. Tanto è vero che il Pentagono è alla ricerca di un aereo d'attacco meno costoso dei jet attuali. Qualcosa che chiuda il gap tra i droni – ormai cecchini del cielo – e i reparti tradizionali. Sul fronte opposto terroristi e guerriglieri, spendendo pochissimo, hanno imparato come sia possibile sopravvivere davanti ad apparati superiori. C’è quasi una corsa a razzi e ordigni esplosivi. Gli IED sono la rappresentazione perfetta di mezzi "economici" che possono avere ripercussioni serie su scelte e strategie. I soldati muoiono e nell'opinione pubblica – come nei parlamenti – si rafforzano i dubbi sull'utilità delle spedizioni. Dopo ogni attentato la domanda è la stessa: "Vale la pena morire per Kabul o Herat?". Un interrogativo che può essere riproposto in Libano – dove sono riapparsi gli IED – e in tutti quegli scacchieri dove il "grande" si batte contro il "piccolo". E il sì a quelle domande, con il passare dei mesi, diventa sempre più flebile. Ai talebani e agli ideologi qaedisti tutto ciò è ben chiaro. E insistono. Perché si tratta di una guerra asimmetrica d'attrito dove nessuno può vincere ma che la Nato può perdere. Lo stesso discorso vale per l’Hezbollah con i suoi razzi. Può essere ridimensionato, rischia di pagare un prezzo politico alto, ma è difficile cancellarlo. Senza dimenticare il fattore tempo. Che è sempre dalla parte dei nemici della democrazia. Se un esercito occidentale entra in guerra, il giorno dopo già si discute "entro quanto finirà". L’avversario deve solo avere pazienza e aspettare. Per approfondimenti l'autore suggerisce.... Counterinsurgency Autore: David Kilcullen Editore: Hurst, London 2010 Strategie di contro-insurrezione Autore: Riccardo Cappelli; Francesco N. Moro; Editore: Studio LT2 (collana Secreta), 2010
| |