GNOSIS 4/2010
L'evoluzione verso nuovi equilibri I mercati finanziari scossi dalla crisi |
Carlo Domenico MOTTURA |
Alle origini della crisi All’origine della crisi c’è la grande quantità di mutui casa “ad alto rischio” concessi, a partire dagli inizi del 2000, da molte banche americane. Si tratta, in particolare, dei c.d. mutui subprime, ossia di prestiti che una banca decide di concedere a un soggetto con un reddito basso e/o instabile per l’acquisto di un’abitazione. Molti acronimi furono forgiati per targare questi prodotti finanziari (tra i più espressivi, il cosiddetto mutuo NINJA, No Income, No Job or Asset). Concedere un mutuo subprime è, ovviamente, un’operazione molto rischiosa per la banca, essendo molto probabile fin dall’inizio che il mutuatario non sia in grado di assolvere alle proprie obbligazioni. Perché, dunque, le banche americane hanno concesso così tanti mutui subprime, essendo nota fin dall’inizio la bassa probabilità di rimborso da parte dei mutuatari? Le spiegazioni sono molteplici, non ultima la politica sociale a favore della “casa” promossa dall’amministrazione americana. Tra le principali cause figurano elementi di contesto, quali l’andamento del mercato immobiliare e dei tassi di interesse americani, e l’uso diffuso delle operazioni di cartolarizzazione: i) a partire dall’anno 2000 fino alla metà del 2006, il prezzo degli immobili americani è cresciuto continuamente (quella che fu poi chiamata la “bolla immobiliare”). La banca, dunque, non si preoccupava del fatto che il mutuatario subprime potesse non rimborsare il prestito, avendo la casa a garanzia del mutuo concesso che si aspettava di poter rivendere ad un prezzo maggiore dell’ammontare del prestito concesso; ii) i livelli dei tassi di interesse sul mercato americano, dal 2001 al 2004, si attestavano a livelli molto bassi, creando un incentivo a indebitarsi (anche) per comprare immobili; acquisti che, a loro volta, contribuivano all’ulteriore crescita del prezzo degli immobili e ad alimentare la bolla immobiliare; iii) con le operazioni di cartolarizzazione, le banche hanno venduto i mutui subprime al mercato finanziario nella forma di obbligazioni, facendone certificare il rischio da società internazionali specializzate (agenzie di rating). In altri termini, con questo tipo di operazione, il rischio subprime (e il rischio immobiliare in esso incorporato) era trasferito al mercato finanziario e “polverizzato” via obbligazioni, le quali venivano sottoscritte da investitori istituzionali (assicurazioni, fondi pensione, banche d’affari, …), realizzando un processo noto come risk transfer. Il rischio e il mercato Il contesto economico comincia a cambiare a partire dal 2004, con l’inizio della crescita dei tassi di interesse americani che continuerà fino al 2006: diventa più difficile erogare mutui e, nel frattempo, cominciano ad aumentare le insolvenze su quelli già erogati. Anche la crescita dei prezzi degli immobili si ferma nel 2006 e dal 2007 inizia la discesa; e dall’estate 2007, di conseguenza, cominciano a ridursi i prezzi delle obbligazioni subprime. In questa situazione iniziano a generarsi forti perdite, effettive e potenziali, nei bilanci degli investitori istituzionali di tutto il mondo, tra i quali le stesse banche – specialmente le banche d’affari – che avevano acquistato le obbligazioni collegate ai mutui subprime (e nasce, per questo tipo di investimento, la denominazione “titoli tossici”), innescando una crisi di fiducia nel sistema finanziario internazionale. I diversi operatori si interrogano sulla quantità di titoli tossici acquistati, sulle perdite sostenute, sulle perdite potenziali e sostenibili; e le banche, non fidandosi più l’una dell’altra, smettono di prestarsi denaro a vicenda, trasformando la crisi di fiducia in crisi di liquidità. Si vendono i titoli e gli investimenti liquidabili, si interrompe l’erogazione di credito a imprese e famiglie e si innesca così un processo a catena di generazione di perdite che si traduce, anche, nel crollo dei prezzi di borsa: è l’inizio della crisi del sistema finanziario internazionale. Le conseguenze sono drammatiche: banche acquistano altre banche (JPMorgan acquista Bear Stearns, Bank of America acquista Merrill Lynch, …), compagnie di assicurazioni sono messe in amministrazione pubblica (AIG, Fannie&Freddie, …), banche e istituzioni falliscono (Lehman Brothers, …). Il rischio e le banche Per fronteggiare il rischio sistemico ed evitare il collasso dell’intero sistema finanziario, gli Stati sovrani sono costretti a intervenire abdicando alle leggi del mercato. Un fiume di denaro pubblico si dirige verso le banche: studi recenti stimano per i soli Stati Uniti una cifra di 1.590 miliardi di dollari di interventi diretti, ai quali si aggiungono 750 miliardi di dollari di mancate entrate fiscali per via della recessione. Nel 2009, “nell’insieme dei paesi del G7, il sostegno dei bilanci pubblici all’economia superava i 5 punti percentuali del PIL. I tassi reali d’interesse a breve termine divenivano negativi, le banche centrali fornivano liquidità in misura senza precedenti” (Banca d’Italia, Considerazioni finali, 31 maggio 2010, pag. 4). I primi interventi sono stati delle banche centrali, finalizzati a fronteggiare la crisi di liquidità, soprattutto con una riduzione dei tassi d’interesse per facilitare l’accesso al credito. L’intervento dei governi si è invece concentrato soprattutto nell’evitare che la crisi di liquidità portasse al fallimento delle banche: si è trattato di un intervento senza precedenti, sia in termini di risorse stanziate sia per l’esigenza di coordinamento imposta dalla dimensione globale della crisi. Le principali azioni attuate dai governi, in particolare, hanno riguardato la concessione di garanzie sui prestiti interbancari e sui depositi dei cittadini (per evitare il rischio di “corsa allo sportello” come successe, ad esempio, nella primavera 2008 per la banca inglese Northern Rock), oltre che misure volte a ricapitalizzare le banche. In cambio, i governi hanno chiesto alle banche di limitare i bonus ai manager, di entrare negli organi di amministrazione, di utilizzare il denaro concesso per erogare prestiti alle imprese e alle famiglie, al fine limitare gli effetti della crisi di liquidità sull’economia reale. La crisi spazza via, dunque, anni e anni di teorie neo-liberiste e di fede assoluta nella “mano invisibile”, avviando la ricerca di nuovi equilibri dell’intero sistema finanziario. Il rischio e gli Stati Dalle banche il rischio si propaga agli Stati. Disavanzi e debiti pubblici aumentano vistosamente e al sollievo per la catastrofe evitata subentra “nei mercati finanziari internazionali l’ansia improvvisa per la sostenibilità di debiti sovrani crescenti. Le vendite colpiscono titoli di Stati che hanno ampi deficit di bilancio o alti livelli di debito pubblico; soprattutto quelli di paesi dove queste due caratteristiche si combinano con una bassa crescita economica”. In Europa, anche la Germania, paese tradizionalmente virtuoso, si trova a dover fronteggiare un disavanzo pubblico che supera il 5% del prodotto nazionale; la Gran Bretagna arriva al 10%. Una previsione Ocse stima nel 2011 un passivo del settore pubblico dei paesi industrializzati superiore al valore del prodotto nazionale aggregato (cosa mai avvenuta in tempo di pace). In Europa, questa nuova fase della crisi si avvia nell’autunno del 2009 quando in Grecia – paese che in termini di Pil vale solo il 2% circa dell’area euro – il governo appena insediato comunica che i conti pubblici si trovano in una situazione peggiore di quella fino ad allora evidenziata. Le conseguenze non tardano a manifestarsi: si blocca il mercato dei titoli pubblici greci (come accadde, l’anno precedente, per i titoli “tossici”), i prezzi crollano e i tassi di interesse si impennano. All’inizio del 2010, il downgrading di alcuni Stati dell’area euro da parte delle agenzie di rating internazionali – oltre alla Grecia, la Spagna, l’Irlanda e il Portogallo (da cui l’acronimo pigs) – diffonde il timore che la zona euro sia a rischio contagio. Nel mese di maggio 2010, per fronteggiare questo nuovo rischio e garantire un sostegno all’economia europea, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale e la Commissione Europea varano congiuntamente un piano da 750 miliardi di euro. Il rischio del debito, insomma, sale ai “piani alti”: dai privati alle banche, dalle banche ai singoli Stati, dai singoli Stati ai “sovra-Stati”. Un percorso non facile. Basti pensare alla recente proposta del governo tedesco di un nuovo meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano in Europa che preveda anche la partecipare degli investitori agli eventuali futuri salvataggi di Stati. Una proposta che ha evocato il rischio della fine dell’euro come valuta comune (aumentando ulteriormente le attuali difficoltà di alcuni paesi dell’eurozona) e che è stata fortemente osteggiata dalla Banca Centrale Europea. Ma che, d’altra parte, avvia un approfondimento, a livello di sistema, sulle modalità di gestione del rischio delle crisi sovrane, posta l’insostenibilità di lungo periodo di soluzioni che scarichino unicamente sui contribuenti gli effetti delle possibili crisi. Anche a livello di interventi di politica economica le soluzioni appaiono di non facile lettura. Si pensi, ad esempio, a quanto affermato da illustri osservatori i quali, nella ricostruzione delle cause della crisi, hanno affermato che queste siano in gran parte da attribuire alla “cattiva politica monetaria” e che “è stato il basso livello dei tassi la causa delle bolle degli immobili, della borsa e del credito”. Una diagnosi di difficile lettura alla luce della nuova politica di quantitative easing promossa dalla Federal Reserve (si acquistano di titoli di Stato stampando moneta): sia per gli effetti economici della riallocazione dei capitali privati verso investimenti più remunerativi – ad esempio, quelli offerti dai paesi emergenti – indotti dalla (forzata?) riduzione dei rendimenti dei titoli americani; sia per l’attuale debolezza del dollaro che ha riacceso una guerra valutaria e il rischio di una nuova era di protezionismo. Il rischio “rimbalza” tra banche e Stati Ma a finanziare gli Stati sono le stesse banche prima finanziate dagli Stati stessi, che detengono tra le loro attività una grande quantità di titoli pubblici. La Banca Centrale Europea ha stimato che i soli istituti europei detengono obbligazioni sovrane per oltre 1.500 miliardi di euro. Peraltro, ciò che merita particolare attenzione è il modo in cui le banche hanno spesso finanziato i loro acquisti di titoli di Stato: attraverso denaro preso a prestito, a tassi di favore, dalla BCE. In altri termini, gli istituti finanziari si indebitano con la banca centrale e investono il denaro così raccolto in titoli emessi da Stati con tassi di remunerazione maggiori (sono le c.d. banche zombie). È un semplice schema di intermediazione, che entra in crisi quando le banche, proprio a seguito della caduta dei prezzi dei titoli pubblici indotta dal maggior rischio sovrano, sono costrette a loro volta a svalutare i loro impieghi scritti a bilancio. Il rischio è di nuovo nelle banche, sebbene, questa volta, in forma diversa: non più il rischio dei titoli “tossici” della fase iniziale, ma quello degli investimenti in titoli pubblici. Prende forma una sorta di circolo vizioso nel quale il rischio “rimbalza” tra Stati e banche. Un mondo che gira al contrario? Attualmente, gli Stati sono percepiti come più rischiosi delle imprese. In Europa, infatti, i prezzi dei Credit Default Swaps – i derivati scambiati sui mercati finanziari che consentono di proteggersi dal rischio di fallimento di imprese e Stati – testimoniano un mondo che gira al contrario: costa di più assicurarsi contro il rischio di fallimento degli Stati sovrani che non contro quello delle società che operano in quegli stessi Stati. Se è possibile che un’impresa può sopravvivere al fallimento del proprio Stato, è ben vero che, in condizioni normali, ci si aspetterebbe il contrario. Il recente boom delle obbligazioni “ad alto rischio” Secondo recenti statistiche, nei primi nove mesi del 2010 il mercato delle obbligazioni societarie ha segnato, a livello globale, un calo dell’8% rispetto al record nei volumi emessi nel 2009. Si evidenziano però due tendenze opposte: da una parte, si riducono le emissioni obbligazionarie delle imprese con rating elevato (a minor rischio); dall’altra, aumenta l’interesse degli investitori nei confronti delle obbligazioni “ad alto rischio” (high yield bond, con basso rating). In tale periodo, infatti, le emissioni dei titoli speculativi hanno registrato un boom storico, raggiungendo un volume di 257,6 miliardi di dollari, con una crescita del 58% rispetto al 2009. È interessante osservare che si tratta di un tipo di investimento che appartiene alla stessa famiglia alla quale si riferivano, in tempi meno recenti, le c.d. obbligazioni “spazzatura” (junk bond). Il sistema è, dunque, nuovamente alla ricerca di rischio? Ciò sembrerebbe confermato anche dal ritorno della c.d. finanza strutturata, alla quale rimandano tutte quelle tipologie di strumenti finanziari che sono state, secondo alcuni, tra le cause determinanti dell’origine della crisi (bond da cartolarizzazioni, obbligazioni “ibride”, …). Di recente, poi, nei mercati finanziari internazionali, riappaiono le obbligazioni collegate ai mutui ad alto rischio: “subprime mortgage bonds reappear amid mixed signals … Investec, the South African-based group, is preparing a sale of bonds backed by subprime mortgage, the first since the financial crisis emerged in 2007” (Financial Times, 25/09/2010). Conclusioni Il rischio, dunque, corre e ricorre nella storia del sistema finanziario assumendo, nell’attuale fase, il ruolo di indiscusso protagonista. Le azioni di recente intraprese dai diversi organismi di vigilanza e di supervisione, nazionali e internazionali, al fine di ridisegnare il quadro regolamentare in cui opererà l’industria finanziaria degli anni a venire, sono certamente importanti e utili. Una cosa appare certa: l’importanza della cultura finanziaria come unica garanzia del buon governo del rischio. Se è vero, com’è vero, che il rischio guarda al futuro, è essenziale prendere atto che il governo del rischio è, anzitutto, sfida culturale: occorre adottare (ricostruire?) un atteggiamento e uno stile che siano adeguati alle nuove esigenze, prima ancora dell’idonea e indispensabile dotazione tecnica. Auguriamoci, anche per il bene delle generazioni future, di non farci trovare ancora impreparati ad affrontare questa inevitabile e difficile sfida. |