GNOSIS 4/2010
Il FORUM |
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Bioterrorismo e misure di consequence management Il bioterrorismo è una minaccia relativamente recente per l’umanità, che eredita il know how accumulato nel contesto delle ricerche relative alle politiche offensive sulle armi biologiche perseguite anche da Paesi occidentali ad alto tasso di democrazia fino a tempi non molto lontani da oggi. L’arma biologica, infatti, al pari di altre armi di distruzione di massa, quali quella chimica e quella nucleare, è stata per molto tempo considerata una credibile opzione per uso militare anche da Stati democratici fortemente avanzati, probabilmente per le sue caratteristiche di effetti molto gravi sulle persone e molto temuti, a fronte di relativa economicità di produzione e rispetto per le infrastrutture, caratteristiche non osservabili nel caso dell’arma nucleare, per la quale sono necessari rilevanti investimenti e profondo background scientifico e che si accompagna a distruzione totale del sito di esplosione. Sorse pertanto nel secolo scorso un’importante attività di ricerca in numerosi Paesi del mondo sulle armi di distruzione di massa. Per quanto attiene alle armi biologiche, benché fossero state messe a punto armi letali o incapacitanti, che potevano essere prodotte in elevata quantità e disperse nell’ambiente in modo da infettare un gran numero di avversari, non vi sono notizie sicure riguardo un loro possibile utilizzo da parte degli Stati durante il secolo scorso, anche da parte dei regimi dittatoriali più feroci. Ciò forse in ragione del difficile controllo anche da parte degli utilizzatori, nonché dello stigma morale conseguente all’uso di un’arma così terribile. Tutte le considerazioni sopra riportate, comunque, e soprattutto il terrore che si accompagna alla diffusione di un’arma invisibile che semina morte lungo il suo percorso e che passa indisturbata attraverso i controlli dei metal detectors, ne potevano fare uno strumento appetibile dai gruppi terroristi. Pertanto, quando, pochi giorni dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, in un Paese profondamente scosso e disorientato per la terribile azione perpetrata al suo interno, si verificò il primo caso di morte per un quadro sintomatologico polmonare molto aggressivo da far sospettare si trattasse di antrace polmonare, diagnosi poi confermata in un individuo che non aveva alcun fattore di rischio professionale per ammalarsi di tale patologia, fu subito chiaro che i peggiori timori si erano effettivamente materializzati e ci si trovava dinanzi ad un episodio di bioterrorismo, con l’agente biologico diffuso attraverso la spedizione di lettere contaminate con spore di antrace. Il bilancio finale di questo episodio fu di 22 persone colpite, di cui la metà con antrace cutaneo, tutte guarite a seguito di terapia antibiotica, e l’altra metà con antrace polmonare, di cui soltanto 6 sono guariti, mentre gli altri 5 sono deceduti. Pertanto il numero di vittime è stato relativamente contenuto, ma il significato dell’operazione è stato enorme, soprattutto per una serie di considerazioni: - per la prima volta all’alba del nuovo millennio si riusciva a dimostrare che il bioterrorismo, fino ad allora soltanto paventato, poteva realizzarsi, attraverso un veicolo semplice, economico e non precedentemente sospettato, come il sistema postale; - il terrore che seguì alla identificazione del primo caso di antrace fu di livello tale da soddisfare in pieno l’obiettivo di colui (o coloro) che aveva(no) ideato l’operazione bioterroristica; - migliaia di persone furono sottoposte a profilassi antibiotica per il timore di essere state contaminate ed i lavori di decontaminazione degli edifici e delle apparecchiature per lo smistamento posta contaminati furono lunghi e costosi; - tale episodio rappresentò uno spartiacque culturale, che sensibilizzò i governi, soprattutto quello degli USA, a devolvere risorse finanziarie a progetti di ricerca sul bioterrorismo, come documentato dall’incremento di circa 50 volte del budget USA ad esso dedicato fra il 1997 ed il 2005 e dal numero di lavori pubblicati dal 2003 ad oggi, quindi successivi all’episodio delle lettere all’antrace, rinvenibili sul database PubMed con le parole chiave biological terrorism o bioterrorism, che sono circa 70% del totale; - anche nel nostro Paese, come in numerosi altri, l’ondata di panico si diffuse, testimoniata dalle numerose richieste di analisi di oggetti sospettati di essere contaminati da spore di antrace, oggetti che venivano raccolti in condizioni di sicurezza e di isolamento dalle Forze di polizia e immediatamente trasportati al Centro diagnostico di riferimento, rappresentato dall’Istituto Zooprofilattico di Foggia.
Ma per quale motivo il bioterrorismo è un fenomeno che suscita così grande terrore? La risposta risiede non soltanto nelle caratteristiche della minaccia, invisibile, difficilmente intercettabile, difficile da dominare anche da parte di coloro che la utilizzano, ma soprattutto per le sue conseguenze. La stima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità nella sua pubblicazione del 1970 Health Aspects of Chemical and Biological Weapons, che rappresenta un riferimento fondamentale sul problema, propose sugli effetti, in termini di letalità, della diffusione per via aerea di 50 Kg di spore di antrace rilasciati su una città densamente popolata fu di 95,000 morti. Quando nel 1993 l’Office for Technological Assessment, un organo di consulenza del Congresso degli USA, fu incaricato di redigere una stima analoga, calcolò che il numero di morti conseguenti ad un evento quale quello sopra riportato, ma con una quantità di spore di antrace doppia, di 100 Kg, era rappresentato da una forbice oscillante fra 130,000 e 3,000,000, valori non dissimili da quanto può essere provocato da un’esplosione nucleare, ma ottenuta con l’uso di un agente infinitamente meno costoso e in grado di colpire le persone, mantenendo intatte le infrastrutture. Questa serie di considerazioni sono forse anche alla base dell’osservazione dello scarso utilizzo di questa arma, malgrado la ricorrente tentazione di farvi ricorso nella storia. La situazione di difficoltà relativa alla imprevedibilità della minaccia, considerato l’elevatissimo numero di possibili agenti patogeni che possono essere utilizzati a scopo aggressivo (solo nel periodo 1973-2003 sono stati descritti circa 30 nuovi agenti patogeni per l’uomo, molti dei quali potenzialmente letali), è oggi più acuta che mai. Quando infatti il problema delle armi biologiche era confinato in un contesto di tipo bellico fra eserciti di Stati diversi, le caratteristiche dell’agente patogeno da utilizzare potevano essere limitate a patogeni a breve periodo di incubazione, stabili nella fase di disseminazione, per i quali l’aggressore poteva avere accesso a prevenzione e/o terapia, contrariamente alla popolazione bersaglio, e altro etc… Con l’avvento del fenomeno della lotta terroristica asimmetrica, e soprattutto del terrorismo suicida, i limiti d’impiego degli agenti patogeni fissati dalle caratteristiche dell’agente come sopra riportato non sono più validi. Infatti, l’eventuale utilizzo del virus HIV che, con il suo lungo periodo di latenza prima di provocare manifestazioni cliniche di malattia, non è dotato di interesse tattico per un eventuale uso bellico, può invece essere estremamente appetibile per gruppi terroristi, poiché una sua possibile diffusione è realmente in grado di seminare terrore, coerentemente alla mission del gruppo. Tali considerazioni indurrebbero pertanto ad un totale pessimismo ed una sorta di nichilismo operativo, basato sul fatto che, dal momento che è difficile se non impossibile predire il tipo di minaccia, è inutile predisporre adeguate misure preventive. Allo scopo di approfondire gli aspetti da sottolineare per poter individuare le minacce più probabili, comunque, nel 1999 i Centri per il Controllo delle Malattie di Atlanta organizzarono un Convegno mirato ad individuare le caratteristiche in base alle quali poter classificare gli agenti patogeni in categorie di pericolosità. Fu pertanto stilato un elenco di categorie, dalla A alla C in decrescente grado di pericolosità, sulla base di caratteristiche quali il potenziale di disseminazione, la percezione da parte dell’opinione pubblica e l’impatto su di essa, nonché l’eventuale necessità di maneggiare l’agente patogeno soltanto in laboratori specificamente dedicati, ad elevato livello di biosicurezza. Nella categoria A furono classificati gli agenti patogeni considerati più pericolosi, rappresentati da virus quali Variola major, agente eziologico del vaiolo, e da Filovirus e Arenavirus, quali Ebola e Lassa, agenti eziologici delle Febbri Virali Emorragiche, e da agenti batterici, quali Bacillus antracis, agente eziologico del carbonchio, Yersinia pestis, agente eziologico della peste, Francisella tularensis, agente eziologico della tularemia, ed infine Clostridium botulinum, produttore della tossina botulinica, causa del botulismo. Di questi agenti patogeni oggi si hanno numerose informazioni, inclusa la dose infettante, il periodo di incubazione, i tests diagnostici e l’eventuale necessità di isolamento per i pazienti affetti, ma le misure preventive, quali la disponibilità di un vaccino sicuro ed efficace, nonché quelle terapeutiche (immunoglobuline specifiche, agenti anti-virali o antibiotici) non sempre sono soddisfacenti o facilmente reperibili, condizioni forse che si aggiungono alle precedenti per fornire ulteriori giustificazioni all’inserimento di questi agenti patogeni nella categoria A dei più pericolosi.
Si ritiene interessante citare alcuni degli episodi più significativi di uso deliberato o rilascio accidentale di agenti biologici. Negli anni 1936-1945 fu attiva, in Manciuria, la famigerata Unità 731, al comando del Tenente Generale medico giapponese Shiro Ishii, ove fu compiuta sperimentazione umana, prevalentemente su prigionieri di guerra cinesi, con agenti patogeni letali, che hanno determinato la morte di oltre 10.000 persone secondo alcune fonti. Durante la seconda guerra mondiale il nostro Paese fu teatro di un episodio di guerra biologica scatenato dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 contro gli ex alleati. Questo episodio fu misconosciuto al grande pubblico e ufficialmente ricostruito soltanto nel 2006 dallo storico americano Frank Snowden nel suo bel libro The conquest of Malaria: Italy, 1900-1962. Snowden infatti ripercorre con estremo dettaglio quanto si verificò fra ottobre 1943 e marzo 1944 nell’area pontina, già bonificata da Mussolini prima della guerra. La scuola malariologica italiana, e soprattutto romana, era a quel tempo molto avanzata e famosa nel mondo e in essa si erano formati insigni malariologi ed entomologi tedeschi i quali, con il pretesto di fermare l’avanzata delle truppe anglo-americane che stavano risalendo la penisola ed in opposizione alle insistenti richieste di soprassedere da parte dei malariologi italiani, che avevano compreso il piano e previsto le conseguenze, decisero di danneggiare alcune pompe idrovore installate in occasione della bonifica e di invertire il flusso di altre, dal mare verso la terraferma. Contemporaneamente requisirono alcune tonnellate di chinino che erano state approvvigionate, con ciò chiarendo definitivamente le loro reali intenzioni. Avvenne quanto previsto e cioè furono allagati 37,000 ettari di superficie e l’Anopheles labranchiae, il vettore malarico presente in quelle zone, che necessita di un certo grado di salinità nelle acque ove si riproduce, la cui presenza nell’ultimo trimestre del 1943 era quotata al 30% aumentò fino al 100% ed i casi di malaria nella provincia di Littoria (l’odierna Latina) si impennarono dai 1.217 del 1943 ai 54.929 del 1944. Un episodio di rilascio accidentale di spore di antrace trattate in maniera da poter essere utilizzate quale agente biologico avvenne invece nel 1979 a Sverdlovsk (l’odierna Ekaterinburg). In pieno periodo di guerra fredda gli USA ebbero sentore di qualcosa di insolito nell’area, che faceva sospettare un’epidemia e chiesero spiegazioni ufficiali all’allora Unione Sovietica, che rispose affermando che si era determinata un’epidemia di antrace gastro-enterico per una partita di carne avariata. L’episodio non fu ulteriormente affrontato fino alla caduta del muro di Berlino. Dopo di allora, nel 1992, in un clima di maggiore trasparenza, da parte sovietica vi fu l’ammissione che la Federazione Russa, e prima di essa la ex Unione Sovietica, malgrado fosse uno Stato co-depositario della Convenzione per le Armi Biologiche, aveva mantenuto in attività un programma offensivo di armi biologiche fino a quello stesso anno 1992, inoltre, ci fu un’adesione alla proposta americana di approfondire l’episodio di Sverdlovsk con una commissione di studio mista, formata da scienziati americani e russi. La commissione fu in grado di dimostrare che l’epidemia non fu di antrace gastro-enterico, ma polmonare, per contagio dovuto al passaggio di una nube contaminata da spore di antrace, probabilmente fuoriuscite da un’infrastruttura militare e pubblicò i risultati dello studio nel 1994 sull’autorevole rivista scientifica Science. Qualche anno più tardi l’ipotesi della fuoriuscita delle spore di antrace dall’infrastruttura militare fu confermata dal Dr. Kanatjan Alibekov, ex primo vice-direttore di Biopreparat, il programma offensivo di guerra biologica dell’ex Unione Sovietica, nel frattempo riparato negli USA. L’episodio di Sverdlovsk fu molto istruttivo, poiché dimostrò che alcune vittime si erano ammalate anche sei settimane dopo l’episodio, pur essendosi infettate contemporaneamente alle vittime dei primi giorni. Pertanto, malgrado il periodo d’incubazione dell’antrace polmonare sia di pochi giorni (nei casi determinati dalle lettere all’antrace è stato calcolato in 5-11 giorni), nell’episodio di Sverdlovsk si sono determinati casi anche dopo sei settimane, osservazione che ha guidato il comportamento delle autorità sanitarie americane nella circostanza delle lettere all’antrace i cui possibili contatti sono stati tenuti sotto profilassi antibiotica per almeno 2 mesi. Nel 1984 membri di una setta religiosa contaminarono con Salmonella typhimurium alcuni ristoranti di Dalles in Oregon, ottenendo 751 contagiati, mentre nel 1996 sempre negli USA furono contagiate 12 persone deliberatamente attraverso panini imbottiti contaminati con Shigella dysenteriae tipo 2. La relativa facilità di tali azioni unite alla difficoltà di risalire al/ai responsabile/i, ne fa un’arma estremamente temibile e potenzialmente attrattiva per i terroristi. Anche nell’attività di produzione di agenti biologici per uso bellico da parte di uno Stato, come l’Iraq, la difficoltà di individuare le prove, anche in presenza di fondati sospetti, è documentata dalla impossibilità, per la UNSCOM, la Commissione Speciale delle Nazioni Unite, a reperirle prima della confessione del genero del Dittatore Saddam Hussein, il Gen. Hussein Kamel. Il problema consiste nel dual use, il percorso per lunghi tratti parallelo nel trattamento dell’agente biologico per un uso malevolo o vaccinale. Il problema del dual use è largamente avvertito anche in seno alla Convenzione per le Armi Biologiche ed è uno degli elementi alla base del suo sostanziale insuccesso.
Dalle stime sopra ricordate delle conseguenze in termini di letalità di un rilascio per via aerea di spore di antrace e dalle esercitazioni che sul tema del bioterrorismo sono state svolte in USA emerge che anche i Paesi più organizzati rischiano di essere impreparati dinanzi ad una minaccia di questo tipo. Pur con la consapevolezza dell’intrinseca difficoltà a metter su una risposta totalmente efficace ad eventi non convenzionali di tipo biologico, un tentativo credibile dovrebbe prevedere un insieme di interventi che includano l’organizzazione di una rete epidemiologica di sorveglianza delle patologie infettive, di una rete di diagnostica microbiologica organizzata su livelli gerarchici crescenti di complessità, di una rete di strutture mobili e fisse per il trasporto e la gestione di pazienti altamente infettivi in condizioni di biosicurezza, di scorte o canali di approvvigionamento rapido di farmaci (antibiotici, antivirali, vaccini, emoderivati) necessari ad affrontare l’emergenza, la formazione del personale sanitario e del personale non sanitario, l’esecuzione di esercitazioni periodiche, la corretta individuazione della catena di comando e controllo, l’organizzazione di un team di esperti per una risposta rapida, l’elaborazione di piani di settore e soprattutto lo sviluppo di ricerca avanzata sugli agenti preventivi e terapeutici. Bioterrorismo e politiche di prevenzione: il coordinamento fra istituzioni e mondo scientifico La ricerca nelle scienze della vita produce conoscenze che danno un contributo significativo in termini di salute e benessere. Tuttavia, le stesse conoscenze possono essere usate a scopi criminali, possono cioè avere un duplice uso. Occorre quindi valutare in modo approfondito l’uso dei materiali biologici essendo consapevoli che le attività e le risorse biologiche possono sì essere usate a scopi pacifici o consentiti, ma possono anche essere usate facilmente per scopi delittuosi. Questa possibilità viene definita come duplice uso (dual-use). Il rischio di attacchi bioterroristici è statisticamente basso, ma le conseguenze possono essere devastanti per la capacità di alcuni agenti biologici di contaminare il territorio, distruggere i raccolti, infettare gli animali e colpire in modo strategico la catena di approvvigionamento degli alimenti. Il primo impegno a non usare gli agenti patogeni come arma risale al “Protocollo per la Proibizione dell’Uso in Guerra di Gas Asfissianti, Velenosi, o di altri Gas e di Metodi di Guerra Batteriologica”, aperto alla firma a Ginevra nel 1925 ed entrato in vigore nel 1928. Nel 1972 fu firmata la “Convenzione sulla Proibizione dello Sviluppo, Produzione e Stoccaggio di Armi Batteriologiche (Biologiche) e Tossine e sulla loro Distruzione” nota come Biological Weapons Convention (BWC, http://www.unog.ch/bwc). La BWC, entrata in vigore nel 1975 stabilisce che ogni Stato Membro non deve in alcun caso sviluppare, produrre, stoccare, acquisire o mantenere: - agenti microbici o biologici o tossine, qualunque sia la loro origine, o metodi di produzione del tipo e in quantità tali che non siano giustificabili in termini di profilassi, protezione o altri scopi pacifici; - armi, equipaggiamenti o mezzi di diffusione progettati per l’utilizzo di tali agenti o tossine in un conflitto armato. La Risoluzione 1540, approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 2004, aggiunge un ulteriore obbligo internazionale e vincolante contro ogni sostegno degli Stati membri all’acquisizione di armi di distruzione di massa da parte di attori non statali. La BWC, negli anni successivi alla sua entrata in vigore, ed in particolare a seguito della V Conferenza di Riesame (2002), ha posto in discussione fra gli Stati Membri, in incontri annuali intersessionali tra le Conferenze di Riesame, vari problemi legati alle armi biologiche, affrontando questioni relative al duplice uso, alla formazione, allo sviluppo e all’adozione di codici di comportamento. Negli incontri annuali è stata promossa la condivisione delle problematiche in agenda ed a beneficio degli Stati Membri sono state fornite, da parte di alcuni Stati, utili indicazioni sulle misure già adottate a livello nazionale.
Il Governo italiano ha adottato, da tempo (Legge di conversione 26 maggio 2004, n. 138 del Decreto Legge 29 marzo 2004, n. 81 recante “interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica” Gazzetta Ufficiale n. 125 del 29 maggio 2004), le misure idonee a prevenire un incidente o un atto criminale che preveda l’impiego di agenti biologici o tossine. In questo ambito ha predisposto un piano di emergenza su tutto il territorio italiano ed ha istituito un Centro nazionale per la prevenzione ed il controllo delle malattie, con il compito di analizzare e gestire i rischi collegati alla diffusione delle malattie infettive e al bioterrorismo. Il Centro opera in coordinamento con le strutture regionali, attraverso convenzioni con l’Istituto Superiore di Sanità (www.epicentro.iss.it/focus/bioterrorismo/bioterrorismo.asp), con l’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro, con l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani (http://www.inmi.it) e l’Azienda Ospedaliera Luigi Sacco - Ospedale e Polo Universitario (http://www.hsacco.it), Centri di Riferimento per il Bioterrorismo con gli Istituti Zooprofilattici Sperimentali, con le Università, con gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico e con le altre strutture di assistenza e di ricerca pubbliche e private, nonché con gli organi della Sanità Militare. Un’iniziativa analoga è stata realizzata relativamente al controllo dei patogeni animali con l’istituzione del Centro Nazionale di Lotta alle Emergenze contro le Malattie Animali e dell’Unità Centrale di Crisi, affidati alla Direzione Generale della Sanità Animale e del Farmaco Veterinario del Ministero della Salute (http://www.normativasanitaria.it/dettaglio.jsp?attoCompleto=si&di=25963). In precedenza, il Governo italiano aveva istituito il Centro di referenza nazionale per l’antrace (http://www.izsfg.it/pagine/antrace.htm) presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata di Foggia (D.M. 8 maggio 2002, pubblicato nella G.U n. 118 del 22 maggio 2002), come laboratorio di riferimento per l’Italia per il test di rilevamento delle spore di antrace responsabili del carbonchio. Al giorno d’oggi, il carbonchio non ha più la stessa diffusione che aveva nei secoli passati, ma rimane comunque una reale minaccia economica e per la salute pubblica ed è importante che le autorità sanitarie e gli addetti del settore mantengano alta l’attenzione nei confronti di questa temibile zoonosi il cui agente eziologico, a causa del largo spettro di ospiti e della elevata resistenza delle sue spore, risulta particolarmente adatto ad un potenziale impiego bioterroristico. Inoltre, in Italia, la manipolazione genetica degli agenti biologici è strettamente regolata, indipendentemente dal rischio posto dagli stessi, dal Decreto legislativo 12 aprile 2001, n. 206 che prevede la notifica e la valutazione preventiva da parte del Ministero della Salute dei laboratori/impianti realizzati con contenimento fisico/strutturale, dell’agente biologico risultante dalla modificazione genetica effettuata, della natura delle operazioni effettuate e della relativa valutazione di rischio. Nell’effettuare l’analisi di un potenziale duplice uso, è necessario prendere in considerazione anche la classificazione degli agenti biologici rischiosi per l’uomo, riportata in allegato XLVI del Decreto legislativo 81/08. La detenzione e, di conseguenza, la manipolazione di agenti biologici di gruppo di rischio 4, secondo la classifica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), deve essere autorizzata dal Ministero della salute. In quest’ambito, il Ministero della Salute, identifica come un rischio per la sicurezza nazionale i microrganismi Variola major (vaiolo), Bacillus antracis (antrace o carbonchio), Yersinia pestis (peste), la tossina del Clostridium botulinum (botulismo) ed i virus (Ebola, Marburg, Lassa, Febbri emorragiche sudamericane, ecc.) http://www.ministerosalute.it/imgs/C_17_pubblicazioni_17_allegato.pdf. Gli agenti appartenenti al gruppo 4 sono agenti che possono provocare malattie gravi in soggetti umani o animali e costituiscono un serio rischio per i lavoratori e possono presentare un elevato rischio di propagazione nella comunità; non sono disponibili, di norma, efficaci misure profilattiche o terapeutiche. Possono essere coltivati solo in apposite strutture a contenimento (chiamate P4 o BSL-4) anch’esse previamente valutate ed autorizzate dal Ministero della Salute. In Italia è in attività un solo laboratorio BSL-4 presso l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma. Il Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita (CNBBSV), nel 2004, ha pubblicato (http://www.governo.it/biotecnologie/documenti.html) una lista dei patogeni animali e vegetali classificati in 4 gruppi di rischio, identificati con criteri simili a quelli dei patogeni umani, al fine di fornire un utile strumento di riferimento alle istituzioni ed ai ricercatori interessati. Occorre sottolineare che la Convenzione BWC contiene all’articolo X le disposizioni relative ai benefici delle scienze della vita, riconoscendo agli Stati Membri il diritto di facilitare e partecipare a ricerche per l’uso pacifico di agenti biologici e tossine. Purtroppo la natura di alcune tecnologie e conoscenze scientifiche fa sì che le ricerche di scienziati, che lavorano per scopi pacifici, possano essere utilizzate anche per scopi criminali. Governare le tecnologie a duplice uso significa mantenere un equilibrio tra la necessità di impedire eventuali impieghi militari o terroristici e la necessità di favorire lo sviluppo delle applicazioni pacifiche. Il regime di governanceper raggiungere tale equilibrio è ben delineato nel documento finale del Sixth Review Conference of the State Parties to the BWC. Ai problemi del duplice uso ha dedicato particolare attenzione anche il G8 nell’ambito del programma Global Partnership against the Weapons of Mass Destruction; nelle Raccomandazioni del gruppo di lavoro, presieduto dall’Italia, si auspica: “(the) development and adoption of codes of conduct and of awareness raising tools in the scientific education at national level”.
Nel tempo, la ricerca scientifica sui microrganismi patogeni e tossine ha offerto mezzi efficaci per combattere le malattie infettive che colpiscono, l’uomo, gli animali e le piante ed ha permesso di sviluppare misure efficaci in grado di ridurre la minaccia del bioterrorismo. La piena conoscenza delle caratteristiche di alcuni agenti patogeni è stata la condizione necessaria per lo sviluppo di nuovi e migliori mezzi diagnostici, trattamenti antimicrobici od anti-tossine e misure preventive. Storicamente, la ricerca su alcuni virus - come ad esempio quello del vaiolo - ha fornito strumenti adatti a ridurre globalmente morbilità e mortalità, contribuendo in modo significativo all’allungamento della vita umana. La ricerca sui patogeni animali e vegetali ha contribuito notevolmente a migliorare la qualità degli alimenti ed a favorire progetti scientifici nel settore. È essenziale per il Paese lo sviluppo di metodi di identificazione rapida e tecnologie diagnostiche che aumentino la capacità di rispondere all’insorgenza naturale di una malattia o di contrastare eventuali atti di bioterrorismo. Lo sviluppo di mezzi diagnostici efficaci e di vaccini, peraltro, richiede l’accesso di istituzioni e personale attendibili ad un vasto numero di agenti biologici selezionati. La complessità della rete di regolamenti nazionali in materia ha ostacolato, fino ad oggi, lo scambio internazionale di microrganismi patogeni ed in particolare di quelli provenienti dagli USA, dove la normativa è molto stringente e non consente scambi di agenti patogeni ritenuti pericolosi, ovvero inclusi nella lista dei select agents, se non si è accreditati e sottoposti a sorveglianza delle stesse autorità USA, preposte a questo compito. Ciò nonostante, seppur con notevoli difficoltà, in ambito europeo, grazie all’azione delle reti che comprendono i laboratori BSL-3 e 4 europei (European Network of BLS-4 Laboratories - EuronetP4 www.euronetp4.eu, ed il Collaborative Network of European Laboratories for Outbreak Assistance and Support, coordinato dall’European Network for Diagnostics of ‘Imported’ Viral Diseases ENIVD/ENIVD CLRN www.enivd.de), questi scambi continuano ad essere attuati e si stanno sviluppando codici di condotta comuni che facilitino lo scambio, la tracciabilità e l’applicazione delle procedure di sicurezza previste per l’impiego di agenti patogeni. Allo sviluppo di linee guida comuni per la biosicurezza contribuirà inoltre l’European Research Infrastructure on Hihgly Pathogenic Agents, progetto approvato nell’ambito del settimo programma quadro che riunisce tutti i laboratori BSL-4 operativi in Germania, Svezia, Francia, Italia ed Inghilterra ed altri otto in costruzione, o in fase di progetto, in Italia (presso l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”) Germania, Olanda, Svizzera ed Austria. Inoltre, altre attività collaborative, che hanno consentito attività di ricerca e scambi di metodi diagnostici e di patogeni, sono in corso nell’ambito di network internazionali ai quali il nostro paese partecipa. Esempi all’interno della comunità civile sono il Global Health Security Action Group – Laboratory Network (GHSAG-LN) a cui aderiscono i paesi del G8 più il Messico, e l’Emerging and Dangerous Pathogens Laboratory Network for Outbreak Response and Readiness dell’OMS; collaborazioni internazionali tra istituzioni militari sono invece costituiti da alcuni progetti dell’European Defence Agency, come quello dell’European BioDefence Laboratory Network (EBLN) per la costituzione di ceppoteche e basi di dati genetici e per l’armonizzazione dei protocolli diagnostici per i principali agenti biologici di possibile impiego bioterroristico; da esercitazioni operative, in ambito NATO, per il rilevamento degli stessi agenti (Sampling and Identification of Biological Agents, SIBA).
La letteratura scientifica offre, anche inconsapevolmente, molti esempi di potenziale utilizzazione a fini criminali delle nuove tecnologie. La capacità di nebulizzare proteine e peptidi per aerosol ha permesso di sviluppare nuove forme farmaceutiche da utilizzare in terapia; nel diabete, per esempio, l’insulina può essere somministrata anche per via inalatoria invece che sottocutanea, questa applicazione consente però alle molecole di bypassare parzialmente i meccanismi di difesa. Questa tecnologia, quindi, potrebbe teoricamente essere utilizzata per produrre un’arma biologica, che può raggiungere la via ematica attraverso quella inalatoria con maggiore rapidità ed efficienza, rispetto ad altre vie di somministrazione. La dimostrazione che ceppi commensali comuni di Escherichia coli possono produrre nell’intestino umano peptidi specializzati offre un altro esempio di potenziale duplice uso. In biologia molecolare si fa largo uso dei geni di resistenza agli antibiotici come strumento per selezionare le cellule ingegnerizzate. Si tratta di una tecnologia semplice, facilmente adattabile alla produzione di patogeni antibiotico resistenti. È opinione comune che il programma sovietico di armi biologiche abbia prodotto forme di peste, antrace e tularemia resistenti agli antibiotici. Procedimento relativamente semplice visto che i batteri mutando spontaneamente possono acquisire resistenza agli antibiotici cui sono esposti. È stato pubblicato almeno un caso in cui la manipolazione genetica ha creato un patogeno più virulento del ceppo cosiddetto selvaggio. Alcuni ricercatori australiani avevano modificato geneticamente il virus Ectromelia (un patogeno naturale del topo) al fine di esprimere Interleuchina 4, con lo scopo di creare un vaccino anticoncezionale; il costrutto ottenuto, invece, provocava la morte dei topi. Poiché il virus Ectromelia è un parente stretto del virus del vaiolo e del virus vaccinia, utilizzato per la vaccinazione contro il vaiolo, una possibile ricombinazione tra i due potrebbe rendere inefficace la vaccinazione anti-vaiolo nell’uomo. I ricercatori, preoccupati del risultato ottenuto, si consultarono con il Governo australiano prima di pubblicare il lavoro. Il lavoro fu commentato sia dai media che dalla comunità scientifica, ma questa linea di ricerca venne abbandonata. La capacità, attuale, di creare un virus ex novo è progredita molto rapidamente: la sintesi in vitrodel virus della polio ha richiesto tre anni, mentre per la sintesi di un virus di dimensioni analoghe, il batteriofago Phi X174, sono bastate due settimane. Questo risultato deriva dall’aumento esponenziale della capacità di sintesi de novo del DNA che libera gli investigatori dalla necessità di utilizzare un organismo biologico pre-esistente sul quale analizzare l’impatto di piccole variazioni geniche e permette la progettazione di nuove forme biologiche. La biologia di sintesi è lo strumento che Craig Venter ed Hamilton Smith hanno usato per trasformare una cellula in un’altra. A tale scopo hanno comprato da una ditta di sintesi 1000 sequenze di DNA, che coprivano l’intero genoma del batterio Mycoplasma mycoides, lunghe 1080 basi, in modo che alla fine di ogni sequenza vi fossero 80 basi sovrapposte alla regione fiancheggiante. Quattro delle sequenze erano state disegnate in modo che, in codice, esprimessero i nomi delle persone coinvolte nel progetto, delle citazioni, ed un indirizzo di posta elettronica. Questo codice le faceva riconoscere come sintetiche. I geni artificiali andavano a sostituire 100 dei 500 geni del micoplasma, che potevano essere rimossi senza influenzare la vitalità del batterio L’intero genoma è stato assemblato in lievito ed inserito in un altro micoplasma M. capricolum, privato del proprio genoma. I primi tentativi non dettero alcun risultato per un errore su una singola base del genoma sintetico. Corretto l’errore, il batterio si è riprodotto esprimendo le proteine del M. mycoides e non quelle del M. capricolum, confermando la trasformazione di una cellula in un’altra. Questo risultato, che non ha creato la vita artificiale, è costato 10 anni e 40 milioni di dollari.
L’accelerazione nello sviluppo delle tecnologie apre nuovi scenari che richiedono, per la supervisione di ricerche potenzialmente a duplice uso, adeguati strumenti di responsabilità istituzionale. Leggi e regolamenti concernenti la biosicurezza contengono regole e linee guida per gestire l’accesso ai laboratori di ricerca. Tuttavia le istituzioni pubbliche debbono assicurarsi che i materiali a potenziale duplice uso siano conservati in aree nelle quali il pubblico non accede. Il Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita ha sviluppato come guida per le istituzioni che utilizzano agenti biologici i “Codici di condotta per la Biosicurezza” (http://www.governo.it/biotecnologie). In particolare, il Comitato raccomanda che le istituzioni: a) debbono avere politiche interne atte a commisurare la supervisione con il grado di rischio di un uso criminale della ricerca, assicurandosi che il responsabile della sicurezza sia addestrato a riconoscere i rischi connessi con la biosicurezza; b) debbono assistere i ricercatori nel valutare il problema del duplice uso, stabilendo un apposito punto di contatto; c) debbono valutare che le misure di contenimento applicate siano adeguate al grado di rischio delle attività svolte secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; d) debbono predisporre un’adeguata formazione del personale coinvolto; e) debbono revisionare i manoscritti, prima della presentazione ai giornali scientifici, per verificarne il potenziale duplice uso. Tali compiti possono essere affidati alle strutture previste dal D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, allargate alle necessarie competenze scientifiche. I criteri raccomandati per valutare se una ricerca abbia un potenziale duplice uso sono verificare se la ricerca: a) aumenti gli effetti dannosi di un agente biologico o di una tossina; b) annulli il sistema immunitario o l’efficacia di un sistema di immunizzazione senza una giustificazione clinica e/o agricola; c) conferisca ad un agente biologico o ad una tossina maggiori resistenze ai comuni mezzi di profilassi o terapeutici, clinici e/o agricoli; d)impedisca che l’agente biologico o la tossina sia individuato con i metodi diagnostici noti; e) aumenti la stabilità, la trasmissibilità, o la capacità di disseminazione di un agente biologico o tossina; f) alteri il numero degli ospiti od il tropismo di un agente biologico o tossina; g) aumenti la suscettibilità di una popolazione ospite; h) generi un nuovo agente patogeno o tossina, o ricostituisca un agente biologico eradicato od estinto. Per l’applicazione di queste raccomandazioni, oltre alle leggi indicate, si rinvia ai manuali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Le istituzioni che svolgono attività di ricerca al fine di finanziare i progetti di ricerca devono assicurarsi che i ricercatori aderiscano a tutte le disposizioni legali, etiche ed istituzionali che si applicano alla supervisione delle ricerche a potenziale duplice uso. Le istituzioni debbono impegnarsi molto per l’adesione dei ricercatori ai codici di condotta, perché la verifica dell’adesione volontaria ai codici, condotta negli USA e nel Regno Unito, ha evidenziato una notevole carenza nella volontà dei ricercatori di seguire le linee guida fornite dalle istituzioni preposte. Il libro verde della Commissione Europea sul bioterrorismo raccomanda di rafforzare la preparazione contro gli attacchi biologici mediante esercitazioni regolari, ma soprattutto l’istituzione di corsi di formazione sulla prevenzione e sul contenimento del bioterrorismo e/o delle epidemie di malattie naturali, e su come reagire. Infatti, i programmi di formazione sono fondamentali per sviluppare l’attendibilità e la responsabilità degli attori coinvolti nella ricerca a duplice uso. La formazione in materia è. tuttavia resa difficoltosa dal sistema di crediti in vigore nelle Università, tanto che. a livello europeo, in pochissimi corsi di scienze della vita vi è un qualche riferimento ai codici di condotta per il duplice uso. e Giuliano GAROFOLO Il pericolo vero non sono i batteri ma l’uomo che li manipola Gli episodi di bioterrorismo verificatisi nell’autunno del 2001 negli Stati Uniti, in cui 75 persone morirono e molte altre furono contaminate a seguito del deliberato rilascio di spore di Bacillus anthracis, rappresentano un punto di svolta nella storia degli agenti altamente patogeni e del loro uso come mezzo di offesa nei confronti della popolazione civile: quello che fino ad allora era considerata solo una remota probabilità era diventata una terribile realtà e un pericoloso esempio che potrebbe essere imitato da chiunque. Passata ben presto nel dimenticatoio, questa faccenda è tornata all’attenzione dell’opinione pubblica fino a quando il 1° Agosto 2008 Bruce Ivins viene trovato morto suicida a seguito dell’ingestione di una massiccia dose di Tylenol mischiato a codeina. Bruce Ivins era un microbiologo esperto di antrace e di vaccini presso lo United States Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID) in Fort Detrick, Maryland. Nel 2001, dopo le lettere contaminate da antrace inviate al Senato americano era stato indicato come esperto per conto del governo statunitense nei test di rilevamento sui campioni sospetti relativi all’emergenza bioterrorismo. La sua figura cominciò a vacillare nel corso delle indagini su quegli attentati e fu il Los Angeles Time che lanciò gravi sospetti sul fatto che tali attentati erano stati decisi in quanto mirati a creare panico e convincere il governo a stanziare fondi speciali per la ricerca di un vaccino che lo stesso Ivins stava studiando. Questa storia non è mai stata accertata e gli stessi amici, colleghi e avvocati di Ivins hanno continuato a smentirla. Descritto come uomo schivo e riservato sembra che poco prima del suo suicidio, la sua personalità si sia resa ancora più debole a causa di problemi familiari. Secondo Associated Press, un collega anonimo dello scienziato avrebbe raccontato che l’FBI voleva assolutamente trovare un colpevole per gli attentati che avevano tanto sconvolto l’opinione pubblica americana e aveva deciso di incastrarlo. Per questo, gli agenti federali, per mesi, avrebbero fatto fortissime pressioni su di lui e sulla sua famiglia soprattutto perché Bruce Ivins rappresentava un obiettivo facile da distruggere proprio a causa della sua fragilità. Certo è che adesso, dopo la morte del ricercatore, l’agenzia sembra voler dichiarare risolto il caso Antrace. Anche il movente per cui, secondo gli inquirenti, Ivins avrebbe spedito le lettere letali non è del tutto chiaro. È vero che la società di biotecnologia Vaxgen si aggiudicò nel 2001 un contratto federale da 877,5 milioni di dollari per la fornitura del nuovo vaccino e che una parte dei profitti sarebbero dovuti andare agli inventori, tra cui Bruce Ivins, ma è anche vero che il guadagno dello scienziato sarebbe stato nell’ordine delle migliaia – e non dei milioni – di dollari. Molti comunque si chiedono ancora oggi se è stato davvero Bruce Invins l’ideatore e l’esecutore dell’attacco bioterroristico, e se il movente siano stati gli 877,5 milioni di dollari. Questa storia ha evidenziato un aspetto noto e cioè che per pianificare un attacco bioterroristico occorre l’intervento di gente esperta del settore. In sintesi il reale pericolo potrebbe giungere dagli stessi scienziati che lavorano nel campo della ricerca dual use, ecco perchè la prevenzione di un attacco bioterroristico passa necessariamente attraverso un rigido controllo di tutti quegli operatori che lavorano in questo delicato settore.
Le notizie rilanciate dai media e il crescente clima di allerta legato al terrorismo, che stiamo vivendo in Europa ed in Italia lasciano poco spazio al dubbio: i paesi occidentali devono mantenere alta la guardia, l’eventualità di subire attacchi scellerati volti a seminare panico e distruzione è alta. Il report “World at risk” datato 2008 della commissione USA presieduta da due senatori Bob Graham and Jim Talent (Commission on the Prevention of Weapons of Mass Destruction Proliferation and Terrorism) sancisce nelle sue conclusioni che un attacco bioterroristico potrebbe accadere entro la fine del 2013. La commissione arriva a queste conclusioni intervistando 250 esperti del settore della biosicurezza del Dipartimento di Stato americano, dei militari, dell’Intelligence e del mondo politico, nonché esperti a vario titolo di diverse nazioni. In particolare secondo il Dipartimento di Stato americano i Paesi europei sarebbero nel mirino di possibili attacchi organizzati non solo in alcuni Stati canaglia ma in Europa stessa. In realtà difficilmente ciò potrebbe avvenire utilizzando armi e metodi convenzionali, ma più semplicemente utilizzando armi di tipo chimico-biologico, diffondendo sostanze nocive in aria, acqua, terra, per posta o come avvenne per esempio nell’autunno del 2001 negli Stati Uniti. Inoltre è risaputo come l’effetto del bioterrorismo sulla popolazione civile supera quello, certamente orribile, del danno materiale e sanitario, perché il probabile alto numero dei casi di contaminazione, che potrebbero aumentare anche in un momento successivo all’atto criminale, diffonderebbe forte paura ed insicurezza, creando una vera e propria psicosi collettiva. La sola psicosi collettiva verificatesi nell’ottobre del 2001 in Italia e nel Mondo riuscì a bloccare svariate attività di interesse pubblico, nonché fu causa di un’immotivata crisi economica.
Le armi chimiche e biologiche, sono strumenti di distruzione di massa relativamente facili da realizzare, comodi da trasportare e meno costose da produrre delle armi convenzionali. Uno dei batteri altamente patogeni più studiati per questo scopo è il bacillo dell’antrace. La caratteristica di questo batterio è quella di conservarsi sotto forma di spora per decenni e, soprattutto, di conservare inalterato il proprio potere patogeno. Esso, inoltre, si può produrre in grande quantità con costi relativamente molto bassi. Si può ben immaginare quanto reale possa essere il rischio ed è proprio in questa ottica che è nell’affrontare le spaventose minacce di questo tipo di terrorismo, in particolare, che i paesi occidentali si stanno preparando da anni. Ma qual’è il Piano di emergenza in Italia in caso di terrorismo biologico o chimico? Gli episodi di bioterrorismo sono diventati un rischio più che plausibile, anche per la nostra nazione. Per garantire una pronta risposta sanitaria di fronte a possibili aggressioni terroristiche di natura chimica, fisica e biologica ai danni del nostro Paese, sono state già assunte iniziative a livello centrale e locale, che hanno consentito di superare il primo momento dell’emergenza. Tra le iniziative più importanti assunte immediatamente a ridosso dei tragici eventi dell’11 settembre 2001 bisogna ricordare la costituzione, con Decreto Ministeriale 24 settembre 2001, di un’ apposita Unità di crisi che, fra l’altro, ha elaborato il protocollo operativo per la gestione delle minaccia terroristica derivante da un eventuale uso del Bacillus anthracis. Fu infatti istituito un sistema di sorveglianza passivo sui campioni sospetti di “antrace” sul territorio nazionale che conferisce al laboratorio del Centro di Referenza Nazionale per l’Antrace (CeRNA) presso IZS Puglia e Basilicata il ruolo di esecutore dei test di rilevamento delle spore di antrace responsabili del carbonchio. La procedura indicata dal Ministero della Salute (PROT. 400.3/120.33/4786 del 23/10/2001) è tuttora in vigore ed il laboratorio continua a distinguersi per il lavoro di sorveglianza; infatti non sono mancati, in questi dieci anni, gli attestati di stima del mondo Politico. Dall’autunno del 2001 il laboratorio del CeRNA si è distinto eseguendo numerose analisi su lettere con sospetta contaminazione di antrace. Alla fase di emergenza avviata all’indomani degli attacchi bioterroristici in USA è seguita una fase più complessa che si è sviluppata attraverso una serie iniziative rivolte a colmare il gap strutturale e scientifico necessario per affrontare e risolvere in maniera efficace eventuali e più gravi emergenze bioterroristiche legate al deliberato rilascio di spore di antrace. Il bagaglio di esperienza tecnico scientifica del CeRNA maturato è enorme, e l’attività che si svolge è orientata alla messa a punto di nuovi metodi di diagnosi e di identificazione di B. anthracis, alla ricerca nel settore dei vaccini contro il carbonchio ematico, e alla identificazione di altri batteri di interesse bioterroristico come ad esempio Yersinia pestis, Burkholderia mallei e pseudomallei Francisella tularensis, Brucella abortus e melitensis e Coxiella Burnetii.
A nostro modo di vedere l’Italia ha fatto una scelta ottima concentrando in poche strutture di eccellenza tale attività. Infatti questo sistema risulta più vincente e meno costoso rispetto a quello americano, dove la molteplicità dei laboratori che manipolano agenti altamente patogeni comporta dei costi proibitivi per i controlli di sicurezza sugli scienziati. Dall’altra in Italia si è fatto purtroppo troppo ricorso a ricercatori con contratti di lavoro precario anche nel settore della biosicurezza. Fortunatamente nei laboratori del CeRNA la responsabilità dei ricercatori che da anni sono impegnati in questo delicato settore, nonostante vivano l’incertezza del proprio futuro, è irreprensibile. La loro presenza nel laboratorio è essenziale per la continua supervisione del personale che opera nel laboratorio, essendo capaci di far osservare tutti i dovuti comportamenti di biocontenimento e proteggendo l’accesso ai materiali, tecnologie e conoscenze sensibili. Sono a tutti gli effetti una risorsa imprescindibile. In USA le regolamentazioni di strutture che operano in questo settore sono rigide e la presenza di lavoro precario è addirittura proibita. Le regole per l’accesso agli agenti biologici impongono che il personale interessato venga sempre sottoposto ad una valutazione preventiva di sicurezza. Il turn over lavorativo in queste unità è limitatissimo onde evitare che argomenti e conoscenze specifiche del settore finiscano in mani sbagliate. Gli anglosassoni definiscono questo problema “insider threat” cioè la possibilità, poi così non tanto remota, di creare un bioterrorista in casa.
La “Convenzione sulla Proibizione dello Sviluppo, Produzione e Stoccaggio di Armi Batteriologiche nota come Biological Weapons Convention(BWC, http://www.unog.ch/bwc), sottoscritta e firmata già nel lontano 1972 è, come è stato già detto, la pietra miliare della biosicurezza nel mondo. Per biosicurezza si devono intendere tutti gli aspetti inerenti le misure operative capaci di prevenire l’uso deliberato e malevolo di microrganismi e tossine. Negli anni successivi alla sua entrata in vigore, la BWC ha posto in discussione vari problemi legati alle armi biologiche affrontando questioni relative al duplice uso, alla formazione, allo sviluppo ed all’adozione di codici di comportamento. La scienza e la tecnologia a doppio uso sono, a mio parere, al momento un problema di grande attualità. Difatti governare le tecnologie a duppio-uso significa mantenere un equilibrio tra la necessità di impedire eventuali impieghi malevoli e la necessità di mantenere lo sviluppo di applicazioni pacifiche. Basti pensare come la sola pubblicazione su riviste scientifiche di questo tipo di ricerche pone il problema di rendere accessibile a chiunque la conoscenza di potenziali “ricette” per la preparazione di armi biologiche, il raggiungimento di un giusto equilibrio tra la pubblicazione di risultati e la restrizione all’accesso a tali informazioni è estremamente delicato. Questo equilibrio si ottiene attraverso una politica di biosicurezza da parte degli editori anche attraverso una valutazione preliminare dei lavori sottomessi ma soprattutto con una procedura di autovalutazione da parte dei ricercatori che sviluppano programmi di ricerca con potenziale duplice uso. I codici di condotta individuali sono quindi essenziali e questo permette di minimizzare i rischi e i danni che possono derivare dall’uso criminale dei risultati della ricerca scientifica ma a questi si devono affiancare dei codici di condotta istituzionali. Le istituzioni devono avere una serie di responsabilità nel supervisionare le ricerche a duplice uso assistendo i ricercatori, valutando tutte le misure di contenimento, predisponendo una formazione adeguata del personale coinvolto ed infine revisionando i manoscritti. È fortemente raccomandabile per gestire il rischio di un uso non appropriato di un agente biologico basarsi su ricercatori che siano eticamente e legalmente responsabili del loro operato. In conclusione si può affermare che l’Italia nel settore dei controlli sui campioni sospetti, gode di buona salute ma dovrebbe migliorare qualcosa nel settore della prevenzione al fine di ottenere un risultato quasi perfetto. In particolare occorre una maggiore azione di protezione di quelle poche equipe che hanno avuto ed hanno come propria mission quella di garantire uno standard scientifico elevato nel programma di lotta al bioterrorismo, e che allo stesso attuano programmi di ricerca finalizzati a ridurre i rischi per la popolazione legati a eventuali attacchi bioterroristici. Sarebbe paradossale che l’Italia e l’UE finanziano Stati dell’ex Unione Sovietica per garantire un salario a quei ricercatori che erano impegnati in progetti finalizzati alla realizzazione di armi di distruzione di massa per evitare che possano essere assoldati da stati canaglia, quando poi noi produciamo scienziati di alto livello per poi non dare loro la certezza di un futuro stabile.
Ci si potrebbe chiedere perché esista un Centro di referenza Nazionale per l’antrace in Italia. L’antrace o carbonchio ematico è una malattia infettiva non contagiosa causata da un batterio, il Bacillus anthracis. Colpisce prevalentemente erbivori ruminanti ma talvolta può colpire l’uomo dove può manifestarsi in tre forme: cutanea, polmonare e gastrointestinale. Tranne quella cutanea, che è benigna e causa solo delle lesioni alla pelle nel punto di contatto con la fonte di infezione, le altre due hanno elevate percentuali di letalità. Sebbene il carbonchio non abbia più la diffusione che aveva nei secoli passati, rimane un problema primario di sanità pubblica. Questa zoonosi è tuttora una minaccia per alcune professioni (veterinari, allevatori, cardatori della lana etc.) ed è quindi opportuno che le autorità sanitarie e gli addetti del settore mantengano alta l’attenzione. Bacillus B. anthracis è in grado di sopravvivere nell’ambiente sotto forma di spora per decenni. È per questo motivo che l’antrace risulta il “principe” dei batteri per il potenziale uso come arma batteriologica. In Italia la malattia è presente in forma endemica a carattere sporadico e colpisce generalmente animali al pascolo non vaccinati soprattutto in aree dell’Italia centrale, meridionale ed insulare. In Italia quindi i casi di carbonchio si continuano a registrare nel comparto veterinario anche se negli ultimi anni si sono registrati casi di antrace cutaneo anche nell’uomo. Il ciclo della malattia permette il perpetuarsi delle infezioni anche dopo decenni e quindi spesso talvolta si registrano focolai anche in territori dove a memoria d’uomo non si ricorda la malattia. Questa malattia è diffusa in tutto il mondo e allo stato attuale vi è una situazione di emergenza sanitaria che sta colpendo il Bangladesh. Fino a pochi giorni fa i report indicavano in oltre 600 le persone contagiate in modo più o meno grave mentre sono ben più gravi i dati sulla popolazione animale. La comparsa dell’antrace nell’uomo ha rivelato la presenza della malattia nelle popolazioni animali ed è stata anche messa in relazione alla macellazione di animali malati. Nella parte nord-occidentale del Bangladesh si ha una particolare concentrazione di allevamenti di bovini da latte e i bovini costituiscono di fatto la principale fonte di proteine animali per la popolazione umana. La macellazione di animali malati e il consumo di carni contaminate sono pratiche comportamentali ancora adottate nel Paese. Non è da escludere che parte dell’emergenza sanitaria sia dovuta al commercio transfrontaliero illegale di carne contaminata proveniente da India e Nepal, Paesi da cui capi bovini adulti sono esportati verso il Bangladesh. La carne di capi importati illegalmente è venduta, peraltro, a un prezzo molto inferiore a quello dei capi nazionali e questo sembra alimentare ulteriormente l’emergenza. La microbiologia forense Il possibile rilascio intenzionale di agenti biologici a fini criminali, ovvero per vere e proprie operazioni belliche, costituisce, ad oggi, uno scenario tutt’altro che inverosimile. Alla lista degli agenti patogeni disponibili per tali situazioni, oltre a quelli conosciuti in grado di provocare manifestazioni patologiche naturali o che possano avere particolari caratteristiche di pericolosità, facile diffusibilità e mancanza di contromisure sanitarie, si aggiungono tutti quelli che possono essere potenzialmente sviluppati grazie agli strumenti della rivoluzione biotecnologica degli ultimi anni. La manipolazione degli agenti biologici insieme alla possibilità di creare dal nulla nuovi agenti è solo uno dei vari esempi di utilizzo duale applicato alle biotecnologie. Per ognuno degli agenti biologici conosciuti, potenzialmente idoneo a essere utilizzato in un episodio deliberato di bioterrorismo, appare fondamentale acquisire ogni possibile informazione. Così come avviene per armi o sistemi che possano nuocere alla sicurezza, al fine di una corretta gestione investigativa e per operare le corrette contromisure, anche per gli agenti B bisogna sapere dove possano essere riscontrati, sia in contesti “naturali” che in quelli “artificiali”. Si dovrà tracciare la presenza del patogeno, nel primo caso secondo le sue normali e fisiologiche vie di diffusione e conoscere quindi luoghi, animali o situazioni favorenti il suo sviluppo; nel secondo caso, in quali laboratori possa essere, lecitamente o meno, conservato o manipolato. L’utilizzo malevolo di ceppi di laboratorio a fini bioterroristici infatti non stupisce più dopo gli episodi delle lettere all’antrace rilasciate nel 2001 negli Stati Uniti. Da allora, è nata una nuova disciplina scientifica, dedicata alle investigazioni di episodi criminali legati al rilascio deliberato di agenti biologici ed il bioterrorismo, capace di collegare gli agenti patogeni coinvolti, i crimini perpetrati e gli eventuali colpevoli: la microbiologia forense. Un’attenzione particolare alla tracciabilità degli agenti B è quindi un aspetto da non trascurare per comprendere le possibili fonti di rilascio. Idealmente si dovrebbe sapere, a priori, in quali laboratori un agente B sia presente, in quali quantità e soprattutto quali ceppi o isolati sono presenti. Infatti è stato dimostrato che, anche per batteri ritenuti molto omogenei dal punto di vista della loro variabilità genetica, esistono delle variazioni significative rilevabili con i mezzi tecnologici più moderni. Così come per stabilire l’identità di un persona che ha commesso un delitto penalmente rilevante, oggi si usano le stesse metodologie analitiche per cogliere le differenze genetiche non solo tra specie diverse di microorganismi ma anche tra differenti ceppi della stessa specie, come per esempio tra due ceppi di antrace A e B. Inoltre, è possibile stabilire differenze tra due ceppi A dello stesso ceppo legate, per esempio, a condizioni di crescita e propagazione in laboratori diversi. Lo studio della variabilità genetica degli agenti B rappresenta quindi la base indispensabile per una valutazione bioforense.
Per condurre queste valutazioni è necessario disporre di uno schedario/database per ciascuno degli agenti B. Questi database dovranno essere più completi possibili: nel caso dell’antrace, per esempio, dovranno essere collezionati tutti i ceppi isolati una determinata area geografica e per un dato periodo di tempo. Ogni database comprende i ceppi vivi corredati della provenienza d’origine, del materiale genetico (DNA ed RNA) e delle informazioni genetiche desunte da studi scientifici pubblicati nella letteratura internazionale o ricavate da tecnologie proprie del laboratorio. Questa matrice di dati costituisce la base sulla quale le varie esigenze investigative possono essere soddisfatte. Queste possono essere di tipo sanitario, per comprendere per esempio l’andamento della diffusione di un’epidemia naturale; oppure di sicurezza, per definire l’attribuzione di colpa verso gli autori di un rilascio intenzionale. La comparazione delle tracce genetiche dei microorganismi riscontrati sulla “scena del crimine” con quelle presenti in questi database possono quindi aiutare a descrivere le dinamiche dei fatti in episodi di bioterrorismo e simili.
Data la numerosità e la varietà degli agenti B, considerato anche il loro ruolo nelle patologie “naturali”, appare chiaro che la costruzione di questi database non può essere compiuta da un solo Laboratorio, sia al livello nazionale che internazionale. Per questo esistono delle reti di laboratori e centri di ricerca, soprattutto “governmental” e non strutture con assetti di tipo accademico o privatistico, seppure no profit. A parte le reti esistenti negli Stati Uniti, a livello europeo esiste una rete di laboratori nata sotto l’egida della European Defence Agency (EDA) denominata European Biodefence Laboratory Network (EBLN), unico esempio di capacità forense applicata all’uso degli agenti B in Europa. Gli scopi di questa rete originano dall’esigenza di verificare l’utilizzo degli agenti B nel contesto della Biological and Toxin Weapon Convention (BTWC) e di formare una capacità di identificazione forense a livello europeo. Nel caso di un evento che indichi l’utilizzo di un agente biologico, ci dovrà essere una identificazione assolutamente non ambigua dell’agente attraverso una validazione dei risultati di tipo forense. Attualmente la rete è formata da strutture di ricerca provenienti da 12 paesi europei, tra i quali come maggiori contributori sono da annoverare la Francia, la Germania, la Svezia, e l’Italia. Nel nostro Paese, il laboratorio di riferimento della EBLN è quello afferente al Centro Studi e Ricerche di Sanità e Veterinaria dell’Esercito che, oltre a partecipare attivamente allo scambio con gli altri laboratori della rete europea, si avvale della collaborazione di alcuni Centri Nazionali di Riferimento specifici per le singole specie batteriche: quello per l’antrace presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Foggia, quello per la brucella presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo e quello per il botulino presso l’Istituto Superiore di Sanità. EBLN applica e standardizza al suo interno tutte quelle metodologie necessarie alla categorizzazione delle informazioni genetiche degli agenti B inclusi in un database comune. Tali validazioni non sono però autoreferenziali, poiché molti dei dati generati sono oggetto di pubblicazioni scientifiche “peer reviewed”, accettate quindi e sottoposte a revisione critica della comunità scientifica internazionale. Nel caso di alcuni batteri, le pubblicazioni della EBLN costituiscono il riferimento internazionale anche per i laboratori scientifici al di fuori della rete stessa.
Il database condiviso della EBLN raccoglie e genera informazioni con le tecnologie più moderne, tra le quale quelle del sequenziamento di DNA di seconda generazione. Tale tecnologia non solo permette di ricavare l’intera informazione genetica di un microorganismo, stadio finale della tipizzazione genetica, ma in futuro darà la possibilità di disporre di informazioni di tutte le specie viventi presenti in un dato campione. Questo approccio, denominato metagenomica, rivoluzionerà la rivelazione e l’identificazione di campioni biologici ignoti poiché potrà fornire un’esatta “fotografia” o spettro di tutto quello che esiste in un campione. Le implicazioni di queste applicazioni nella prevenzione, monitoraggio e screening di siti sensibili sono enormi. Si potrà definire simultaneamente la presenza di tutte le specie patogene e non, le specie modificate o manipolate geneticamente ed eventuali caratteristiche biologiche come la sensibilità a trattamenti terapeutici o la loro resistenza ad agenti fisici e chimici. La microbiologia forense ha lo scopo di sviluppare una capacità di identificazione non ambigua e definitiva per stabilire l’origine e la natura di attacchi biologici e/o eventi naturali. La base sulla quale si fonda tale disciplina è lo sviluppo di metodi di studio della variabilità dei ceppi degli agenti B potenzialmente coinvolti nel bioterrorismo o contesti francamente bellici. Passaggio indispensabile è quindi la raccolta di informazioni e ceppi di agenti B attraverso una catalogazione genetica in appositi database. Per raggiungere un adeguato livello qualitativo e quantitativo di questi database è necessario instaurare collaborazioni nazionali ed internazionali fra centri specializzati governativi. Il rischio bioterroristico: l’urgenza di superare vecchi schemi Il 28 settembre del 2006, in un file audio immesso in un sito riconducibile ad Al Qaeda, un capo terrorista dell’organizzazione in Iraq, Abu Hamza Al-Muhajir, meglio noto come Abu Ayyub al-Masri, fece un appello alla comunità degli scienziati invitandoli ad unirsi al jihad contro gli americani nel Paese arabo. Nel messaggio, al-Masri dichiarava: “La causa del jihad può appagare le vostre ambizioni scientifiche, e le grandi basi americane (in Iraq) sono luoghi ideali dove sperimentare le vostre armi non convenzionali, siano esse biologiche o sporche, come vengono definite”. Apparentemente, il caso citato dimostrerebbe che fino ad oggi un interesse per il settore biologico sia stato di esclusivo appannaggio di gruppi che godono di buoni finanziamenti, di un basso profilo e di un santuario sicuro: non solo quindi di articolazioni dell’universo jihadista, ma anche di gruppi organizzati come la setta Aum Shinrikyo in Giappone e Rajneeshee in Oregon attivi rispettivamente fra il 1990 e il 1993 e i primi anni ottanta. La setta Aum dirottò ingenti risorse per realizzare laboratori in cui produrre diversi patogeni e ne tentò anche l’impiego, ma senza successo. Solo a quel punto, spostò la propria attenzione sugli agenti chimici. Il gruppo religioso Rajneeshee, invece, riuscì a mettere a segno un attacco facendo uso di salmonella in alcuni ristoranti dell’Oregon con l’intento di condizionare l’esito di elezioni locali. Non è detto però che ciò non possa cambiare. Così come Unabomber Ted Kaczynski, assistente di matematica a Berkeley con un dottorato di ricerca assegnatogli dall’Università del Michigan, si è reso responsabile di 16 attentati in un arco temporale di 18 anni, non si può escludere che il prossimo possa essere un dottore di ricerca in biologia a fare un uso offensivo di agenti patogeni anziché di tubi bomba. D’altronde, la realtà ha in parte già superato gli scenari elaborati dagli esperti. Gli attacchi all’antrace negli Stati Uniti nell’autunno del 2001 sono stati infatti opera di un individuo isolato, nella fattispecie di un microbiologo americano che lavorava presso un laboratorio dell’esercito. È evidente, quindi, che la sola barriera nel campo biologico sia costituita dall’accesso al know-how, e non all’acquisizione di materiali ed equipaggiamenti specifici, come avviene per la proliferazione nucleare. Non solo, le maggiori sfide a cui far fronte chiamano in causa la circolazione delle conoscenze immateriali, ossia quelle che derivano dall’esperienza o dall’istruzione pratica, mentre si sono progressivamente erosi i confini frapposti all’assimilazione di conoscenze codificate e disponibili attraverso pubblicazioni e brevetti. Ciò che potremmo definire la tacit knowledge si rivelerà cruciale soprattutto per compiere il “salto di qualità”, ossia per l’attuazione di progetti tecnicamente più sofisticati, e sembra anzi che abbia avuto un ruolo negli esiti poi abortiti di sviluppare un’arma biologica impiegabile da parte della setta Aum. Per questo motivo, nel prossimo futuro gli sforzi di chi nutre intenzioni ostili saranno orientati ad accordare la massima priorità all’acquisizione di simili tipologie di know-how.
La complessità del rischio biologico si deve mettere anche in relazione con la distribuzione globale di tali conoscenze favorita dalle attività svolte dalle istituzioni preposte all’educazione e alla formazione, nonché dall’industria (in particolare quella farmaceutica e biotecnologica). Le conoscenze legate alle scienze della vita sono sempre più applicate in forme che ne fanno una commodity, con la conseguenza che il settore civile – sia quello scientifico che industriale – sta trainando il progresso tecnologico, spesso senza che i governi possano esercitarvi alcun controllo. A complicare il quadro vi è anche la tendenza che vede l’industria biotecnologica espandersi non solo nei Paesi più avanzati. La Cina e l’India, in particolare, potrebbero assumere negli anni a venire un ruolo di leadership nel settore, ma anche altre nazioni stanno massicciamente investendo nelle biotecnologie per stimolare la propria crescita economica, come Singapore, la Malaysia, la Corea del Sud, Cuba, il Brasile e il Sudafrica. Evidenti, quindi, appaiono le ricadute sulla sicurezza: la moltiplicazione di aree del mondo dove è possibile reperire tecnici le cui conoscenze possono essere utilizzate per finalità non pacifiche non può che comportare un aumento esponenziale dei rischi. Tanto più perché al poderoso sviluppo dell’industria biotecnologica spesso non corrisponde, specie nell’Asia orientale, il rispetto di adeguati standard di biosicurezza. È inoltre arduo sapere con esattezza quanti laboratori BSL-3 e BSL-4 esistano nella regione e se essi operano in conformità alle linee guida internazionali in materia di biosafety. L’impulso all’innovazione tecnologica si riscontra dunque oggi prevalentemente nel settore civile anziché in quello militare, laddove però determinate attività legittimamente condotte, come quelle destinate a taluni trattamenti medici (ad esempio, l’apporto di miglioramenti alla tecnologia aerosol), possono rivelarsi di interesse per un potenziale uso terroristico.
In alcune circostanze, non molto deve essere fatto per ottenere e diffondere un agente patogeno. In particolare, quelli che colpiscono il bestiame sono facilmente trasportabili con uno scarso rischio di detection; inoltre, possono essere coltivati senza costosi e specifici equipaggiamenti di laboratorio. Si pensi al virus dell’afta epizootica, uno degli agro-patogeni più frequentemente indicati negli scenari di agroterrorismo, in quanto si propaga rapidamente e potrebbe procurare pesanti danni economici e commerciali. Il riferimento è principalmente alle misure di polizia veterinaria che porterebbero al cosiddetto stamping out, vale a dire all’abbattimento di tutti gli animali malati, nonché di quelli sospetti di malattia, di infezione e di contaminazione nella zona colpita e nelle aree potenzialmente interessate. Si tratta di una malattia altamente contagiosa a cui sono sensibili bovini, suini, ovini, caprini e artiodattili selvatici come i cervi, ed è trasmissibile non solo tramite contatto diretto, ma anche per via aerea e con prodotti di origine animale, con l’acqua e materiale contaminato. In teoria, un impiego terroristico del virus aftoso potrebbe realizzarsi con l’introduzione in un allevamento di alimenti contaminati. In base ad alcuni studi americani condotti facendo uso del modello NIEMO (National Interstate Economic Model), un attacco limitato alla California con il virus appena descritto provocherebbe impatti economici indiretti compresi fra i 23 e i 34 miliardi di dollari. La malattia, comune fra le popolazioni animali dei Paesi in via di sviluppo, non è presente negli Stati Uniti da più di 75 anni. Timori legati a scenari di questo tipo sono alimentati, peraltro, dal particolare interesse che potrebbe manifestarsi da parte di gruppi per la difesa degli animali ed ecoterroristi per armi biologiche che causerebbero ingenti perdite economiche senza danneggiare gli animali e l’ambiente. Così come coloro che si oppongono alle colture e agli animali geneticamente modificati potrebbero essere attratti dal ricorso ad agenti patogeni contro tali organismi. Emblematica a questo proposito la speranza espressa da Ingrid Newkirk, Presidente del People for the Ethical Treatment of Animals, che il virus dell’afta arrivi negli Stati Uniti. “Sarebbe un bene per gli animali, per la salute umana, e per l’ambiente”, avrebbe dichiarato. Gli scienziati concordano sul fatto che ad essere maggiormente esposto ai rischi di agroterrorismo sia il bestiame più che le piante coltivate, in ragione del sistematico eradicamento di certe malattie, che fa sì che gli allevamenti restino privi di una copertura anticorpale e non soggetti ad adeguato monitoraggio. A ciò si aggiunga che talune patologie degli animali potrebbero essere appetibili quali strumenti terroristici in quanto zoonotiche, ossia trasmissibili all’uomo (il Nipahvirus e l’Hendravirus, ad esempio). Più in generale, il settore agroalimentare presenta peculiari vulnerabilità relative alla sorveglianza e diagnosi delle malattie. Le aziende agricole sono spesso geograficamente localizzate in ambienti non del tutto sicuri, mentre molti veterinari mancano di esperienza nell’individuare e trattare patologie eradicate sul territorio nazionale ma endemiche in altre nazioni.
Le problematiche connesse ad un attacco bioterroristico si estendono tuttavia anche alla necessità di articolare un efficace sistema di risposta, accanto ad un piano di comunicazione affidabile, che non si limiti a comunicare al pubblico le informazioni e le raccomandazioni sul comportamento ottimale da adottare, ma che incorpori adeguate strategie per garantire il mantenimento della fiducia nell’abilità del governo di salvaguardare la salute e la sicurezza della popolazione. Solitamente, la fiducia cresce nelle fasi iniziali di una crisi, per poi contrarsi in un momento successivo. La fiducia nelle autorità è stata messa alla prova in occasione dell’epidemia di afta epizootica del 2001 in Gran Bretagna, soprattutto per le modalità con cui esse hanno provveduto all’abbattimento dei capi di bestiame, ma innanzitutto nel pieno dell’emergenza innescata dalle lettere all’antrace negli Stati Uniti. In quella circostanza, i governi degli Stati e quelli locali hanno fornito spesso differenti raccomandazioni a proposito di chi avrebbe dovuto ricevere antibiotici o essere sottoposto a vaccinazione, mentre accadeva che i rappresentanti politici criticassero e talora ignorassero i loro rispettivi dipartimenti preposti alla salute pubblica. Come se ciò non bastasse, tali divergenze sono state amplificate dai media e confrontate con i punti di vista dissonanti provenienti da settori esterni a quelli governativi. In termini di coordinamento (questione centrale nel contesto della homeland security), gli attentati hanno messo in luce le difficoltà intrinseche del governo di parlare con una sola voce. Malgrado al Centers for Disease Control and Prevention (CDC) fosse ampiamente riconosciuto un ruolo di guida, diversi rappresentanti locali non hanno lesinato esternazioni che essi stessi facevano rientrare in una “competizione di idee”. A questi ultimi, i responsabili per la salute degli Stati hanno altresì impartito direttive volte a non far uso delle raccomandazioni del CDC a meno che e fino a quando non fosse lo Stato a convalidarle. Tali messaggi contrastanti sono durati giorni, gettando nella paralisi i processi comunicativi. La gestione della comunicazione diventa un nodo cruciale anche considerando che rischi di sovraccarico dei servizi sanitari sono da mettere in conto in conseguenza dell’alto numero di persone che richiedono assistenza per effetti di panico normalmente prevedibili allorché si verificano crisi di questa natura. È accaduto in seguito agli attentati alla metropolitana di Tokyo, allorquando 4.500 persone si erano rivolte alle autorità sanitarie su un totale di circa mille esposte al sarin. Per fare un confronto, da sondaggi effettuati emergerebbe che più di centomila persone si consideravano “ad alto rischio” dopo gli attacchi con spore di antrace a Washington. Questi ultimi rappresentano un episodio emblematico, seppure di modesta entità, di atti di bioterrorismo ripetuti, e quindi non isolati e circoscritti nel tempo. Se fossero proseguiti, probabilmente avrebbero determinato la chiusura dell’intero sistema postale statunitense. Anche in tal caso, il nostro sistema di sicurezza interna, imperniato su criteri e modalità di gestione di “incidenti” – attacchi di sorpresa e altamente traumatici, ma che si concludono in poche ore e che non ostacolano una piena ripresa, come quelli dell’11 settembre – dovrà adattarsi per rispondere ad una sfida indiscutibilmente differente e più complessa rispetto a quelle tradizionali. |