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GNOSIS 4/2010
"INTERVISTA"

Situazione sociale ed economica dell'Italia in ambito europeo


Francesco D'ARRIGO
Direttore del Dipartimento di Studi d’Intelligence Strategica e Sicurezza della Link Campus of Malta


Direttore del Dipartimento di Studi d’Intelligence Strategica e Sicurezza della Link Campus of Malta, è ’Full Member’ dell’International Institute for Strategic Studies-Londra (IISS) e socio fondatore dell’Istituto Italiano di Studi Strategici ‘Niccolò Machiavelli’.

È project manager per la Link Campus University del Progetto RACAM- Development of a Risk Assessment and Countermeasure Audit Methodology for Potential Terrorist Attacks on Mass Transit
System conferito dalla Commissione Europea-Direttorato Generale Giustizia, Libertà e Sicurezza.

È componente dell’Osservatorio sulla Sicurezza Nazionale (OSN), costituito dal Centro Alti Studi per la Difesa (CASD).

Per diversi anni ha ricoperto il ruolo di Segretario Generale del Centro Alti Studi per la lotta al terrorismo e alla violenza politica (Ce.A.S.).

Ha collaborato come docente con l’Università Sapienza di Roma, nel Master Universitario in Scienze Forensi ‘Criminologia - Investigazione - Security - Intelligence’.


“Un’analisi della situazione sociale ed economica italiana non può prescindere dall’inquadramento nel contesto europeo. Le sorti dell’Italia sono in questo momento, più che in passato, strettamente legate all’andamento della crisi anche negli altri paesi dell’Unione e alle decisioni che vengono prese in sede parlamentare a Bruxelles, nell’ambito delle scelte seguite all’ istituzione della valuta comune europea, che vede l’Inghilterra non vincolata all’Unione monetaria (pur partecipando al capitale della Banca Centrale Europea) e la Germania, in modo non palese, imporre la propria politica monetaria.
La moneta europea, in questi giorni sotto pressione per l’acuirsi della crisi del debito sovrano dei Paesi membri dell’Eurozona, ha evidenziato la scarsa competitività delle economie deboli dei paesi europei di media dimensione sottolineando – al contrario - i settori produttivi più maturi.
In questo quadro l’Italia, dopo una entusiasmante fase di crescita economica iniziata nel dopoguerra, si trova in una sostanziale situazione di stasi anche a causa di una classe dirigente che non ha saputo o voluto attuare nel tempo le riforme indispensabili a mantenere il Paese ai vertici della compagine europea adeguandolo alla nuova situazione post caduta del Muro.
Ne abbiamo ricavato una perdita consistente in tema di capacità negoziale e di influenza sulle decisioni deliberate da altre potenze europee, restando, a volte, più esposti alla concorrenza aggressiva delle nuove economie.
Questa perdita di “peso” ha generato una ricaduta sfavorevole ostacolando la crescita di una leadership italiana nel bacino mediterraneo.
Occorre però riconoscere all’Italia alcuni punti di eccellenza ed alcuni primati indiscutibili, ovvero alcuni settori in cui anche l’apparato pubblico registra successi che consentono al nostro paese di porsi come leader europeo in alcuni comparti.
Le Forze Armate, ad esempio, nel contesto delle missioni internazionali, sono ritenute un esempio di efficienza e professionalità. La diplomazia italiana vede riconosciuta a livello internazionale una indiscussa capacità di mediazione, la lotta al terrorismo ed il contrasto alla criminalità organizzata condotta dagli Italiani sono divenute “case history” ed esempi da seguire per molte polizie internazionali.
Per il futuro, nell’ottica di riguadagnare il ruolo che per storia, attitudine nazionale e capacità compete all’Italia, è indispensabile rinegoziare la nostra presenza e funzione in seno agli Organismi internazionali, anche nel quadro di una diversa e più incisiva politica di sviluppo economico.
Nel contempo, occorre definire una nuova strategia industriale, tradizionalmente vittima della mancanza di coordinamento tra attori diversi, sostenendo una forte politica infrastrutturale, per supportare lo sviluppo economico e sociale dell’Italia.”



Dal punto di vista dell’analisi strategica, il Dipartimento che Lei dirige, come guarda lo scenario internazionale?
Il nostro è un Dipartimento di recente costituzione che ha suscitato vivo interesse e dimostrato una notevole capacità attrattiva sia per giovani ricercatori che per esperti e studiosi italiani e stranieri. Da una ventina d’anni il sistema internazionale si trova in una fase di profonda, anche se lenta, trasformazione. Con la fine della Guerra Fredda e la scomparsa dell’Unione Sovietica si è passati da un sistema bipolare ad uno multipolare, con un breve intermezzo “unipolare” nel quale il potere relativo degli Stati Uniti è stato dominante anche a causa della mancanza di veri competitori strategici sulla scena internazionale. L’ascesa di nuove potenze, come Cina, India e Brasile, una rinnovata assertività della Russia nonché alcuni ben noti problemi in campo occidentale, stanno via via ridimensionando il potere degli Stati Uniti e dell’Europa fondando le basi per un mondo multipolare.
Un saggio pubblicato un paio d’anni fa da un brillante analista americano di origine indiana, Fareed Zakaria, può aiutare a comprendere il momento attuale. Zakaria, semplificando, parla di “rise of the rest”, ascesa degli “altri”, dove gli “altri” sono quegli attori che fino a qualche decennio fa occupavano una posizione secondaria e che adesso stanno emergendo sia economicamente che politicamente. Gli effetti in campo economico-finanziario della stessa ascesa degli “altri attori” vengono evidenziati da due economisti di Berkeley, Stephen Cohen e J. Bradford De Long, i quali, nel loro “The End of Influence”, mostrano come oggi siano le interrelazioni, non sempre reciprocamente gradite, tra Cina e Stati Uniti a rappresentare il perno intorno al quale si sviluppano le attuali strategie internazionali.

Quindi è in atto un profondo mutamento politico ed economico?
Esatto. Un spostamento dell’equilibrio dei poteri internazionale che ha ricadute in tutti i settori strategici, dall’industria alla ricerca, alla cultura.
È di poche settimane fa, ad esempio, la pubblicazione dell’UNESCO Science Report 2010 da cui risulta con chiarezza che le nuove potenze stanno investendo ingenti risorse proprio nel campo della ricerca e dell’istruzione. Investimenti che le classi dirigenti delle “nuove economie” percepiscono come altamente strategici per il futuro.
Progetti importanti si stanno moltiplicando nei Paesi emergenti. In Russia, ad esempio, la Skolkovo Foundation ha avviato lo Skolkovo Innograd Project per la ricerca e la commercializzazione di nuove tecnologie con il contributo di importanti soggetti quali la Russian Academy of Sciences, la Vneshekonombank, la Russian Corporation of Nanotechnologies, la Bauman Moscow State Technical University, la Russian Venture Company ed un fondo di investimento per le PMI nell’area scientifica e tecnologica. Analoghe iniziative si registrano in Cina, in India, in Malaysia.
Sono decisioni importanti che nei prossimi decenni possono contribuire a spostare sempre più verso oriente il baricentro del governo mondiale.

Negli scenari strategici del XXI secolo quale ruolo si profila per l’Europa e per l’Italia?
Sia il vecchio Continente, nel complesso, che l’Italia nel caso specifico, rischiano nel medio-lungo termine un processo di marginalizzazione. In un mondo che sta spostando il baricentro geopolitico e geoeconomico dall’Atlantico all’Oceano Indiano, l’Europa può diventare periferia subendo un declassamento storico di rango.
In un sistema multipolare la competizione, in tutti i settori, sarà sempre più agguerrita e senza esclusione di colpi. Tutti i Paesi, ma soprattutto quelli Occidentali, si devono attrezzare per sostenere il livello della competizione e non perdere il proprio ruolo sulla scena internazionale. C’è bisogno di una visione strategica e della capacità di analizzare realisticamente il presente ed il futuro per poter operare con efficacia.L’accademia e il mondo della ricerca hanno una funzione aggregante.
In quest’ottica, ad esempio, la Link Campus assieme ad un gruppo di ricercatori ed esperti, nazionali ed internazionali, ha preso la decisione di costituire un centro-studi, l’Istituto Italiano di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli”, che sul modello dei think tanks anglosassoni vuole contribuire alla rinascita degli studi strategici in Italia. Grazie a ricerche, seminari, partnership ed interscambi con altri istituti di ricerca, italiani e stranieri, è auspicabile che l’Istituto possa diventare un Foro culturale di aggregazione e studio per la produzione di un pensiero strategico nazionale.
In queste settimane sta partendo un progetto di ricerca sugli scenari strategici internazionali e sull’impatto globale di tali scenari. Lo scopo della ricerca, per la quale stiamo costituendo un gruppo di studio internazionale, è quello di elaborare una o più ipotesi di “Grand Strategy” da inserire nel pubblico dibattito nazionale.

Che America c’è oggi?
Il nuovo quadro geo-politico, le inedite alleanze, i nuovi giocatori sullo scacchiere internazionale e anche l’attuale grave crisi economica globale, hanno imposto una ridefinizione e una rilettura del ruolo degli Stati Uniti nell’odierno contesto planetario.
Le grandi potenze della Guerra Fredda sembrano aver esaurito il ruolo egemonico di controllo e gestione dei vecchi schieramenti, lo scenario di inizio secolo vede l’America in una fase di relativo tramonto di influenza e credibilità; la stessa politica strategica e la condotta diplomatica di Washington suscitano qualche perplessità con il palese dirottamento verso l’Asia degli interessi e delle attenzioni commerciali americane.
Il risultato di questa nuova impostazione è che l’America riveste un ruolo differente rispetto agli anni ’60 e ’70, trasformando la funzione di “traino” dell’Occidente in oculata gestione per risolvere difficoltà economiche e sociali che sembravano essere solo spettri del passato: Washington oggi gioca prevalentemente in difesa a vantaggio di altri players tra cui la Cina ed altre potenze emergenti.
Come Clausewitz però sosteneva, la difesa è una posizione strategicamente forte ma intellettualmente debole, mentre l’attacco viceversa è debole strategicamente ma forte intellettualmente: l’applicazione di questo principio alla diplomazia di inizio millennio basterebbe a spiegare l’attuale parziale perdita da parte dell’America dell’antico primato,considerandola attore di indiscusso potere militare più debole dal punto di vista della visione politica e diplomatica globale.
Va inoltre considerato che molti analisti attribuiscono agli Americani la responsabilità dell’attuale crisi economica, esplosa grazie alla prevedibile crisi dei mutui [i>subprime</i>] su immobili residenziali e commerciali in USA e che - con effetto domino - ha contagiato le economie di tutto il mondo.
Si è trattato di una condizione di tensione che ha pesato sugli equilibri e sui rapporti atlantici e che è stata alimentata anche dall’apparente mancanza di un Grand Strategy USA.
Come affermano Savona e Regola in “Il ritorno dello Stato padrone”, gli Stati Uniti si trovano obbligati a considerare una nuova governance globale, ossia una pressione a modificare gli assetti del potere e dell’influenza globale che hanno rappresentato l’asse portante della strategia globale.
La crisi finanziaria ha stravolto le basi che hanno legittimato la supremazia degli Stati Uniti nel sistema economico finanziario occidentale affievolendo insieme alla credibilità dei suoi istituti finanziari (nazionali e multilaterali) una componente decisiva del soft power di Washington: la capacità di imporre il proprio modello economico-finanziario come punto di riferimento per l’architettura di ispirazione per gli altri paesi.

Tra India e Cina quale prospettiva?
Le grandi economie emergenti si sono presentate al tavolo della discussione sulla governance finanziaria globale sostanzialmente contrarie a partecipare in qualità di partner accessori a istituzioni internazionali costruite e dominate storicamente dai poteri occidentali, ma consapevoli di avere una nuova forza contrattuale che consente di negoziare un assetto istituzionale più favorevole. Nel medio periodo, il rafforzamento del potere contrattuale delle economie emergenti offre a potenze economiche ormai leader (quali Cina ed India), la possibilità di avere aspirazioni geopolitiche maggiori.
L’India, la più grande democrazia dell’Asia, pur tra enormi problemi di povertà e nell’anacronistico mantenimento della divisione per caste, è aperta ai prodotti occidentali e al rispetto delle regole internazionali che impongono il rispetto delle proprietà intellettuali e dei brevetti commerciali.
I numeri sono ovviamente diversi, la Cina è di fatto la “fabbrica del mondo” e i prodotti cinesi hanno invaso il pianeta, procedendo a ritmo incalzante verso progetti creativi originali smentendo il luogo comune di “ottimi replicanti di prodotti” realizzati con mediocri qualità: la straordinaria capacità produttiva cinese sta modificando il quadro sociale nazionale.
Il boom economico cinese tuttavia pare scontare un prezzo altissimo, soprattutto sotto il profilo ambientale. Un prezzo che ancora non conosciamo nei dettagli e che l’intera comunità internazionale potrebbe finire col dover pagare quale contributo alla modernizzazione.
A parere dei nostri esperti meglio di altri l’India potrebbe essere il partner europeo d’elezione verso il quale focalizzare l’interesse e lo sforzo diplomatico e commerciale italiano ed europeo.

L’Europa è una finzione giuridica, una finzione economico-commerciale o una finzione e basta?
La discussione circa l’Europa e la forma di governo sovranazionale che ha voluto darsi rischia di essere sterile se ci si abbandona al mero elenco delle “non positività” che il Consiglio dell’Unione Europea ha generato o del livello delle direttive che la Commissione Europea è riuscita ad emanare.
Occorre esaminare l’operato ed il futuro dell’Unione in chiave prospettica per le difficili sfide a venire, molte delle quali possono essere affrontate solo in sinergica coesione con gli alleati “naturali”. Non vi è infatti alcun dubbio che molti giudicano ancora l’Unione Europea come un organismo legislativo dotato di troppo potere, poco disponibile a riconoscere la specificità delle molte e diverse regioni di cui è composta l’Europa.
Non di finzione si tratta, né giuridica, né commerciale, né economica, ma di una importante opportunità, di laboratorio, di pensiero e di strategia nel cui ambito elaborare linee concordate che mettano al riparo tutte le nazioni europee da minacce potenziali di tipo economico-finanziario e di terrorismo: senza il supporto degli alleati, avvitate nell’autismo strategico-politico, le singole nazioni europee appaiono deboli e destinate al tramonto economico, commerciale e diplomatico, con inestimabile, inevitabile danno per i rispettivi tessuti produttivi e con i conseguenti picchi di disoccupazione e disagio sociale.
Tuttavia alcuni indirizzi strategici generali potrebbero essere ridisegnati alla luce dei nuovi eventi scaturiti dalla globalizzazione, dalla lotta al terrorismo, dalle nuove esigenze energetiche. Il bisogno di adattare la politica europea alle nuove sfide dovrebbe essere prioritario all’interno della grande mole di decisioni e leggi che i decision maker europei adottano a Bruxelles.
I medi e piccoli paesi europei, in un contesto decisionale allargato come il G20, parrebbero i più esposti all’erosione del potere nazionale nel sistema decisionale e sono, dunque, i più interessati al rafforzamento della “leva comunitaria.” La vera sfida in Europa avrà il centro vitale nella capacità da parte dei paesi europei di porsi come interlocutori credibili nei confronti dei paesi emergenti.
Per esempio una rivalutazione ed una particolare attenzione deve essere riposta su equilibri ed intese che riguardano l’area mediterranea, nel cui ambito l’Italia merita di rivestire un ruolo di leadership e di testa di ponte tra Occidente avanzato ed economie vitali per l’Europa.

Il terrorismo fondamentalista è una minaccia reale per l’Italia o è anche un prodotto dell’“effetto-terrore” in Europa?
Il terrorismo è una minaccia per tutti. Italia inclusa. In questa fase temporale le azioni terroristiche non necessariamente rispondono ad una logica ispirata dall’alto, in senso gerarchico e strutturato, ma potrebbero essere attuate da cellule “jihadiste”, che agiscono in totale assenza di direttive da parte dei vertici e quindi senza seguire necessariamente una strategia univoca, ispirate ad iniziative personali al martirio come prodotto estremo di conversioni di neofiti.
Occorre riconoscere poi alcune discriminanti che pongono l’Italia su un piano diverso da quello di molti nostri alleati. Anzitutto va dato atto alle nostre forze anti terrorismo e alla nostra intelligence di operare in maniera efficace per individuare, analizzare e contrastare il fenomeno. Le indagini attestano che l’Italia è prevalentemente ancora territorio di transito e base logistica contro la quale i terroristi, almeno fino ad oggi, non hanno inteso alzare il livello dello scontro. È soprattutto per questi motivi che, secondo il nostro parere, l’Italia al contrario di Spagna ed Inghilterra, non ha subito attacchi devastanti. Esiste però – come è stato più volte sottolineato - la possibilità del “lupo solitario” che in assenza di leadership potrebbe agire di propria iniziativa, magari utilizzando materiale offensivo artigianale.
In conclusione, il terrorismo di matrice fondamentalista rappresenta una minaccia concreta contro la quale l’Italia può offrire un significativo contributo sia culturale che di know-how.

Che ruolo ha l’intelligence in un mondo globalizzato?
Questa è una domanda che più volte ci hanno posto i nostri studenti del Master: secondo noi l’intelligence ricopre un ruolo vitale. In un mondo globalizzato, multipolare, fluido ed altamente competitivo la lettura, la comprensione e l’analisi previsionale degli eventi è la chiave di volta per le strategie di ogni Paese.
La conoscenza è un elemento essenziale affinché uno Stato possa difendersi, pianificare, agire. Probabilmente l’Intelligence non è mai stata tanto indispensabile come lo è adesso. Ma prima di rispondere alla sua domanda mi faccia dire una cosa a nome di tutto il Dipartimento di Studi che ho l’onore di dirigere: contrariamente allo stereotipo spesso propagandato da una parte dei media, il giudizio prevalente sull’operato e sugli uomini dei nostri Servizi di intelligence manifestato dalla comunità scientifica che coopera e collabora con la nostra università è di assoluto apprezzamento. Il Sistema di informazione per la sicurezza garantisce un valore costituzionale primario, la sicurezza della Repubblica e delle Istituzioni Democratiche, e lo fa attraverso un’attività complessa ed altamente qualificata che merita e riscuote grande rispetto, stima, considerazione e soprattutto riconoscenza da parte dei cittadini.
La Legge 124 del 3 agosto 2007 ha notevolmente ampliato gli spazi dell’intelligence nazionale, dedicando costante attenzione alle attività relative alla sicurezza interna – sia in ambito nazionale che comunitario- ed attribuendo sempre maggiore enfasi alla dimensione extra-comunitaria ed internazionale.
Gli attentati di New York dell’11 Settembre 2001 hanno abbreviato i tempi di risposta consentiti all’intelligence in relazione alle richieste formulate dal potere politico e dai decision makers, ed hanno aumentato la valenza, negli Apparati di intelligence, di una maggiore offerta di analisi intelligence. Paradigmi “olistici” si sono affermati, connotati dal superamento della compartimentazione tipica della Dottrina NATO tra Analisi e Ricerca, ponendo l’una come complemento indispensabile dell’altra. Nel nuovo scenario tecnologico, si è accresciuto il fabbisogno di personale specializzato, attivo sul flusso informativo digitale, immesso in web e nei circuiti digitali da gruppi di criminalità e di terrorismo.
La legge di riforma ha richiesto - soprattutto alla Comunità Intelligence - di consolidare una reale presenza nel panorama economico nazionale, in ausilio alla politica del Governo nelle attività volte a contrastare la crisi internazionale, sia nel comparto finanziario che infrastrutturale. Nell’attuazione di una strategia competitiva del Governo, l’intelligence nell’economia rappresenta l’innovazione più rilevante in quanto trasversale e orientata a sintetizzare i contenuti necessari alla migliore realizzazione delle diverse fasi decisionali in materia di sicurezza anche finanziaria nazionale.
Per dare un senso concreto ad una politica di sicurezza nazionale di fronte ad aggressioni interne ed esterne, è indispensabile disporre di risorse culturali e professionali di altissimo valore.
L’obiettivo è acquisire la capacità di individuare le informazioni utili, di collegarle e di renderle fruibili.
L’attività di intelligence deve essere spesso in grado di anticipare richieste ed esigenze continue. Per questo tra i bacini di riferimento e di professionalità devono essere inclusi anche gli ambiti scientifico-accademici di secondo livello come i dottorati di ricerca e le scuole universitarie di specializzazione post-laurea.
All’importanza del reclutamento e delle procedure di selezione è associata la creatività del “prodotto intelligence”. Se l’analisi è inadeguata, l’intelligence fornita è, nella migliore delle ipotesi, banale. Se gli analisti sono addestrati e premiati per l’attività di raccolta e di rendiconto piuttosto che per quella esplorativa e di previsione, il supporto informativo al policy-maker si limiterà a fornire una sintesi dell’intelligence priva di orientamenti a breve-medio-lungo termine.
L’Università può e deve dare il suo apporto contribuendo alla diffusione ed al miglioramento della cultura della sicurezza così come autorevolmente evidenziato dal Prefetto Gianni De Gennaro nella Lectio Magistralis che ha tenuto in occasione dell’inaugurazione del nostro Master in Studi di Intelligence e Sicurezza Nazionale, un corso di studi specifico in Italia, professionale e con caratteristiche spiccate di internazionalità essendo in contatto costante con Istituti universitari di Londra, Washington, Parigi e Tel Aviv.
Siamo convinti che il futuro dell’intelligence del XXI secolo dipenderà anche dalla capacità di coinvolgere in un comune sforzo le Istituzioni, il mondo accademico e culturale ed il mondo delle imprese, sinergia consolidata da anni in altri Paesi avanzati; non a caso il ruolo di università e think tank nei processi di riforma dell’intelligence, soprattutto nel mondo anglosassone è di assoluta rilevanza. Prendendo spunto da tale modello, anche il nostro Dipartimento sta ultimando una ricerca comparata sui percorsi di riforma dei principali apparati di intelligence internazionali.

A proposito di Università, quale futuro si profila per i nostri ragazzi? Quale formazione culturale li aspetta?
È di questo periodo l’esplosione di una forte conflittualità anche all’interno degli atenei ed istituti di ricerca. È necessaria allora una riflessione sui lineamenti del futuro culturale e professionale dei nostri giovani. A prescindere dalle forme violente di contestazione.
Nel quadro economico e politico attuale appare lampante che il ruolo delle università dovrebbe tornare ad essere quello di “guida intellettuale e di pensiero” in grado di ispirare e consigliare anche le future scelte economiche e strategiche del Paese.
L’università dovrebbe tornare ad essere di eccellenza e basata sulla meritocrazia, un obiettivo che può essere raggiunto anche attraverso una maggiore partecipazione delle aziende negli atenei, anche con l’ausilio della interattività.

Qual è il rapporto tra Internet e l’Analisi delle Informazioni (Open Source Intelligence)?
È opinione purtroppo frequente che la quasi totalità delle attività OSINT sia svolta attingendo a risorse disponibili su Internet. A volte l’analisi OSINT viene anche erroneamente assimilata ad attività pur necessarie ma di profilo meno elevato, come il web surfing o il mero gathering di informazioni dalla rete. L’OSINT invece non si limita al semplice collazionamento ed alla catalogazione delle informazioni digitali, ma prevede una serie di metodi analitici, di sistemi (anche organizzativi), di tecnologie operanti in un contesto all-source che la qualificano come vera e propria disciplina analitica.
Il concetto di apertura di una fonte/informazione non va in nessun caso confuso con quello di gratuità della stessa e nemmeno - d’altro canto - con il fatto che la maggior parte dei contenuti disponibili su Internet (per lo più non validati) sia fruibile gratuitamente e senza ulteriori formalità, come ad esempio l’autenticazione dell’utente-fruitore: una fonte aperta che per l’accesso richiede una autenticazione e magari il pagamento di una certa somma in denaro rimane sempre e comunque una fonte aperta, esattamente come nel caso di alcune edizioni online di quotidiani o periodici.

Esiste una definizione accademica più precisa di” fonte aperta”?
Certamente.
Secondo i nostri ricercatori la natura “aperta” (o meno) di una fonte/informazione non va inquadrata come caratteristica a sé stante ma, al contrario, nell’ambito di una completa ontologia formale del concetto di fonte. In altre parole, la fonte è una entità - più o meno astratta - portatrice di un certo contenuto informativo (o ‘carico pagante’) nella cui struttura formale, tra le altre caratteristiche, si evidenzia un certo grado di apertura, ovvero il “naturale livello di disponibilità e di accessibilità (o “partecipazione”) al sistema fonte da parte di un sistema esterno”.
Internet è un repository di fonti e di informazioni. Ma né Internet, né le informazioni in essa contenute sono sufficienti a definire la vera natura dell’OSINT (anche se concorrono in un certo qual modo a farlo). È invece la fonte (source), la sua struttura e le sue qualità peculiari, prima fra tutte il grado di accessibilità e le modalità di disponibilità “open”, a definire l’OSINT.
Questo, tra l’altro, è uno dei motivi basilari per i quali si usa riferirsi all’OSINT come intelligence “DELLE fonti aperte” piuttosto che intelligence “delle informazioni” (quindi DALLE fonti aperte). È infatti il cosiddetto “sbilanciamento sulle fonti” l’elemento caratterizzante dell’OSINT rispetto all’intelligence convenzionale. Se la fonte (aperta) definisce la natura dell’OSINT, il suo dominio applicativo è definito dal corpus di fonti aperte esistenti in un determinato contesto: il cosiddetto network delle fonti.
L’OSINT deve ad Internet da un lato il grosso impulso dato alla sperimentazione e implementazione di tecnologie assai specifiche come ad esempio la comprensione automatica del testo (text mining) e dall’altro una certa “visibilità” (in quanto disciplina) dovuta alla pervasività sociale del network globale, sebbene proprio a causa di questa pervasività, sconta il luogo comune di essere ritenuta una intelligence “più facile”, meno impegnativa, alla portata di tutti e qualche volta meno “invasiva” ed “esclusiva” dell’intelligence convenzionale. Fondamentale inoltre il contributo dato dai sistemi tecnologici per l’OSINT nei contesti caratterizzati da un multilinguismo spinto - contesto al giorno d’oggi sempre più frequente - senza i quali l’analisi si limiterebbe alle sole lingue europee (recentissime e significative innovazioni tecnologiche si sono avute nella comprensione automatica di lingue arabe ed asiatiche).
Per contro, l’analisi strategica trova nell’OSINT sia uno strumento utile - tra le altre cose - alla rapida definizione preliminare del contesto generale (o “dominio”) di una problema strategico, sia una tecnica analitica particolarmente efficace nella tempestiva scoperta ed estrazione di “informazioni significative”, specialmente in contesti caratterizzati dalla presenza di molte informazioni testuali (non strutturate) e comunque in situazioni in cui la tempestività e l’immediatezza della fruizione dell’informazione sono fattori di fondamentale importanza per la massima efficienza della funzione decisionale.

Quanto incidono Facebook e i socialnetwork nella quotidianità degli adolescenti e degli adulti?
Parlare di Facebook oggi significa non discutere più di un “album di ricordi” nel cui ambito incontrare vecchi amici di scuola ormai “lontani”, quanto, più che altro, parlare del più grande database di dati personali (verificati e/o verificabili) attualmente esistente.
La piattaforma Facebook, però, che allo stato attuale vanta un bacino di utenti in tutto il mondo di circa 550 milioni, oltre a porre sul piatto problematiche legali legate ai dati personali, al marketing diretto, alla profilazione degli utenti, ecc., rappresenta certamente un luogo sempre meno “virtuale” in cui gli adolescenti “vivono”, si incontrano, crescono e imparano. Sotto questo profilo i reati penali attuabili come l’adescamento minorile, la pedopornografia et simila, devono rappresentare l’oggetto attento di un’analisi approfondita, che altrimenti rischia di sfuggire sempre più al controllo.
Per quanto riguarda il mondo degli adulti, un utilizzo smodato dei social network, Facebook in testa a tutti, può comportare una riduzione dello stimolo percettivo alla sola espressione scritta, privando così le relazioni interpersonali di tutte quelle componenti sensoriali (come i tratti somatici, le posture e le espressioni mimiche, ecc.) ed ambientali che caratterizzano la relazione interpersonale “oggettuale” non virtuale.

Cyberwars o psycocyberwars, qual è il rischio maggiore?
La continua ed ormai imprescindibile necessità di interconnessione di tutti i sistemi, informativi e non, impone ormai da alcuni anni una seria valutazione sulle minacce che da essa scaturiscono, a maggior ragione se poste sotto la lente della sicurezza nazionale e della solidità delle infrastrutture critiche. I recenti avvenimenti come l’infezione causata dal worm Stuxnet, ovvero il dirottamento del 15% del traffico di Internet verso sistemi cinesi o ancora come il recentissimo “Cablegate” di Wikileaks, hanno improvvisamente dimostrato al mondo quanto la minaccia di cyberwarfare sia non solo consistente, quanto, soprattutto, reale e “facilmente” attuabile.
Prima ancora di poter parlare di un conflitto conducibile sul campo di battaglia relativamente nuovo rappresentato dalla rete Internet e già denominato il “quinto elemento” (dopo mare, terra, aria e spazio), ci troviamo a dover “combattere” una guerra di semplici parole sul significato stesso del termine cyber-war.
Questo termine infatti è sicuramente legittimo, ma per utilizzarlo è necessario che le azioni portate a termine utilizzando strumenti informatici abbiano dei risvolti dannosi anche nel mondo reale, quindi “off line”. È questa la ragione per cui, per la maggioranza dei casi fino ad ora balzati all’onore della cronaca, è certamente più opportuno parlare di mere azioni di cyberwarfare.
Certamente più complessa, ma non per questo meno probabile o attuabile, è la questione sul momento in cui si debbano ipotizzare dei veri e propri atti di cyberwar, ovvero di atti, compiuti - più o meno palesemente - da attori che abbiano: 1. come obiettivo, i computer, le reti di computer o i sistemi elettronici ad essi comparabili di uno Stato “avversario”; 2. come scopo, il preciso intento di causare dei danni nel mondo reale. Simili atti, come sostengono i ricercatori del nostro dipartimento, sono allo stato attuale certamente possibili ed attuabili: basti pensare ai danni reali che la violazione delle reti deputate alla gestione delle infrastrutture critiche (come ad esempio, quelle aeroportuali e del controllo del traffico aereo civile e militare, della Difesa, di approvvigionamento, ecc.) possono causare anche direttamente alla vita dei cittadini.
Tutto questo comporta due direzioni di ragionamento: 1. nei fatti, una psycocyberwar non è attualmente ipotizzabile, atteso che si accetti la possibilità (concreta) che la violazione delle suddette reti possa arrivare a comportare danni diretti per i cittadini; 2. dal punto di vista psicologico, una possibile ‘psycocyberwar’ può essere ipotizzata esclusivamente nel caso in cui ci si ponga nell’ottica del Decisore.
Sotto questo punto di vista, infatti, il rischio di valutare ogni strumento/sistema elettronico come possibile “veicolo di attacco” alla sicurezza nazionale, potrebbe comportare l’ingresso in un circuito psicologico molto complesso e pericoloso, che avrebbe – come conseguenza – il tentativo da parte del Decisore (politico e militare) di provare a comprimere oltre ogni limite accettabile dalla collettività anche i diritti costituzionalmente garantiti.

Qual è allora la reale probabilità di una cyberwar?
Su questo delicato argomento il nostro Istituto sta effettuando un’approfondita ricerca ed in particolare proprio sulle dottrine internazionali di cyberwarfare. Per quanto analizzato fino ad ora, è logico desumere che una guerra elettronica sia molto più probabile e forse conveniente di quanto si possa effettivamente prevedere. Una cyberwar, infatti, mette in condizioni anche i più piccoli Stati, normalmente incapaci di competere sia militarmente che economicamente con le altre potenze internazionali, di colpire i sistemi critici di un qualsiasi bersaglio statale grazie ad un eccellente rapporto “costi-benefici”. Infatti, sfruttando competenze tecniche e know-how che nel 90% dei casi sono rintracciabili a costo zero direttamente in Rete, nonché approfittando delle attuali scarse capacità/possibilità di difesa su questo “campo di battaglia” da parte di tutti quei Paesi (America in testa) eccessivamente dipendenti dai sistemi tecnologici, è possibile portare agevolmente una guerra in ogni parte del mondo, con pochi costi ed altissime probabilità di risultato.
C’è da mettere in evidenza, tra l’altro, che i Paesi scarsamente informatizzati, anche solo per questa loro caratteristica, traggono al contempo una rilevante forza e un’insuperabile strategia difensiva dal possibile contrattacco informatico da parte dei Paesi ad alta “digitalizzazione”, provocando una forma di “auto-deterrenza generalizzata” all’impiego di una vera e propria cyberwar e/o all’utilizzo di atti di cyberwarfare.



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