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GNOSIS 4/2010
LA CULTURA

RECENSIONI

Un testo per l'analisi dell'Intelligence


Gianluigi CESTA

 
Psychology of Intelligence Analysis è ritenuto da molti la Bibbia dell’analisi di intelligence. Composto da una serie di saggi scritti da Heuer Jr. tra gli anni ’70 e ’80 a uso interno della Divisione Analisi della C.I.A., è stato pubblicato nel 1999; e poiché oggi è fuori catalogo,è possibile scaricarlo dal web, gratuitamente, in formato pdf dall’url https://www.cia.gov/library/ center-for-the-study-of-intelligence/csi-publications/books-and-monographs/psychology-of-intelligence-analysis/PsychofIntelNew.pdf. Nonostante non sia un libro recente, non ha avuto ancora oggi – almeno in Italia – la larga diffusione che si converrebbe per un testo di tale rilievo.
Il volume affronta l’analisi dell’intelligence partendo dal primo fattore necessario per svolgerla: l’analista. Per far questo l’Autore parte dall’analisi del modo di pensare dell’Uomo: questo argomento costituisce la prima parte del libro, dedicata alla “macchina mentale”. Secondo l’Autore l’essere umano non ha piena coscienza dell’operazione altamente complessa che è il pensiero umano: spesso si ignorano infatti i pregiudizi di fondo e le debolezze che possono caratterizzarlo. Quando si parla di sviluppare la propria “mente” ci si riferisce di solito all’acquisizione di nuove conoscenze e informazioni, e mai ci si cura dell’effettivo sviluppo della sua funzionalità.
Per far fronte alla complessità della realtà che circonda l’uomo, la mente deve necessariamente ridurla in schemi per semplificarla e poterla così comprendere. Così le persone si costruiscono una sorta di realtà “personale” che filtra la “vera realtà” in base agli schemi mentali e ai “settaggi” della mente che si sono venuti a creare con l’educazione, la cultura, i valori e l’esperienza personale; e attraverso questi ultimi gli input ricevuti vengono catalogati e incasellati. Questi schemi sono ineludibili: così come uno psichiatra entra in analisi prima di iniziare a esercitare, allo stesso modo H. ritiene che un analista di intelligence debba conoscere i propri limiti. L’Autore passa poi a spiegare il processo cognitivo, e dimostra come il “percepire” non sia un’azione passiva, ma un moto attivo di costruzione della realtà che risente dei nostri schemi precostituiti e delle nostre aspettative: si riesce a conoscere dunque più a fondo ciò che non si conosce per nulla, perché non ci sono aspettative che fuorviano la percezione e si evita quindi di vedere “quello che si vuol vedere”.
La mente umana, poi, tende ad assimilare le nuove informazioni a quelle già conosciute: per questo può accadere che un analista assegnato da poco a un determinato settore rilevi in breve tempo cose che non sono state notate da chi lavora nel medesimo settore da anni.
Per evitare di assimilare le informazione nuove alle precedenti, e quindi mal interpretarle, l’analista dovrebbe sospendere il giudizio finché le nuove informazioni non siano state del tutto ricevute. Come ricorda l’Autore, scopo dell’intelligence è di illuminare ciò che è sconosciuto, fronteggiare le situazioni più ambigue: l’analista spesso fronteggia un evento fin dal suo primo manifestarsi, nella fase più caotica, e quindi assumere passo dopo passo le informazioni risulta fisiologico. Ma il rischio, come scritto, è che nessuna informazione aggiuntiva sia capace di far deviare l’analista dalla sua “prima visione” del fenomeno: al fine di evitare ciò, l’Autore traccia una serie di attività che l’analista dovrebbe compiere, come favorire la produzione di report in cui sia chiara la sua linea analitica, così da permettere una inferenza delle sue analisi; riesaminare periodicamente l’analisi dalla base per evitare trappole ed errori; sviluppare punti di vista alternativi.
Importante, poi, è la memoria, e quindi l’insieme delle informazioni che costituiscono il background culturale, esperienziale ed educazionale e come questo è archiviato nella memoria a lungo termine dell’analista. Il manuale spiega come è composta la memoria, che assomma in sé tre diversi tipi: la memoria di archivio dei sensi, la memoria a breve termine e quella a lungo termine. La prima permette una memorizzazione, per pochi istanti, di quello che i sensi percepiscono, non è estensibile e permette al cervello di elaborare stimoli che vanno oltre la loro effettiva rapida durata. La memoria a breve termine dura da pochi secondi ad alcuni minuti e serve a mantenere le informazioni per ulteriori processi - come riscontrare un significato, magari integrando l’informazione tramite il richiamo della memoria a lungo termine. Infine la memoria a lungo termine, nella quale vengono archiviate le informazioni per lungo tempo e dalla quale far riaffiorare i ricordi è spesso laborioso e comporta sempre una perdita di dettagli. Il sistema della memoria è quindi tripartito, ma ad esso vanno aggiunti anche altri processi complessi che regolano e decidono, come ad esempio, quali informazioni vanno archiviate e come regolare i contrasti. Heuer prosegue con la spiegazione del funzionamento dell’archiviazione delle informazioni attraverso gli schemi che si radicano tra i percorsi sinaptici in base alla frequenza d’uso, che permettono la connessione tra le informazioni e quindi la possibilità di ricordarne e archiviarne di nuove.
Per estendere la memoria si devono esternare i problemi: è opportuno riportarli su carta o altri supporti, prendere note e appunti, oppure usare un modello per collegare i dati. Secondo Heuer è fondamentale evitare di interpretare i dati con le proprie categorie. La memoria raramente cambia in maniera retroattiva, per cui è difficile che una nuova informazione sia in grado di far rivalutare i ricordi già archiviati.
Gli schemi mentali, conclude Heuer, sono difficili da modificare. E se in alcuni casi aiutano – come, ad esempio, in un’applicazione che non cambia mai il proprio scenario come negli scacchi, in cui il terreno di gioco è sempre lo stesso, la scacchiera -, risulta invece poco produttivo in un settore come l’intelligence, in cui lo scenario può cambiare rapidamente. Gli analisti dovrebbero quindi apprendere nuovi schemi e disimparare i vecchi, ma questo meccanismo non sempre riesce ed è spesso tra le più frequenti cause di inerzia.
La seconda parte del libro tratta degli “strumenti per pensare”: i veri strumenti dell’analista che, anche se molto distanti da scalpello, martello o tornio, per la loro funzione possono davvero essere assimilati agli attrezzi di un artigiano.
In questa sezione viene affrontato il meccanismo con cui si forma un giudizio per arrivare a generare ipotesi che possano riempire il vuoto di conoscenza che l’analista è solitamente chiamato a colmare. Tre sono i modi principali di procedere: la “logica situazionale”, la “teoria applicata” e la “comparazione tra situazioni storiche”.
La prima, la “logica situazionale”, è quella più frequentemente utilizzata, che permette di partire dagli elementi del caso per poi cercarne gli antecedenti e i conseguenti logici: il limite di questa tecnica consiste nel fatto che non sempre si riesce a capire la logica dell’agire di un paese straniero.
La tecnica della “teoria applicata” al contrario del primo procedimento prevede l’analisi di molti esempi dello stesso fenomeno e assume come conclusione un’ipotesi che integri tutte le condizioni del caso in esame. Questo approccio permette di approfondire molto bene le tematiche in esame andando oltre i dati in possesso, ma trova il suo limite nel fatto che non è efficace nel prevedere la tempistica degli avvenimenti.
Il terzo approccio è quello della “comparazione tra situazioni storiche” che consiste nel paragonare fenomeni analoghi accaduti nello stesso Paese o in altri Paesi. È un procedimento veloce e che fa risparmiare tempo grazie all’identificazione di “elementi chiave”. La difficoltà e la fragilità di questo metodo stanno nel fatto che non è sempre facile identificare fenomeni che siano davvero compatibili: notate alcune similarità, infatti, si può tendere a pensare che i due fenomeni siano equivalenti in ogni aspetto, mentre si dovrebbe essere certi di tale equivalenza solo dopo una profonda analisi sia del fenomeno attuale che di quello storico.
Un’ulteriore tecnica descritta dall’Autore è quella dell’“immersione nei dati”, che viene applicata dagli analisti quando questi sospendono ogni giudizio, si “immergono” nei dati raccolti e li osservano fino a che uno schema o una ipotesi si presenti da sé ai loro occhi. Ovviamente tale metodo necessita di una conoscenza di base molto vasta.
Nel procedere nell’analisi il metodo migliore sarebbe sempre quello basato sulla generazione di una serie di ipotesi, per poi vedere quale si attaglia meglio ai dati, e quindi cercare di smentirla, piuttosto che confermarla. Tutto questo lavoro deve considerare lo scarso tempo a disposizione degli analisti per fornire il prodotto finale al decisore politico. L’Autore riporta una serie di strategie, che attribuisce ad Alexander George, per trovare la migliore ipotesi che si adatti ai dati in possesso dell’analista.
Heuer descrive l’agire “tipico” dell’analista sottolineandone tutti i punti deboli e rilevando che troppo spesso gli analisti procedono per “ipotesi soddisfacenti”, concludendo che un sistema multiplo di ipotesi permette un raggiungimento dell’obiettivo assai più facilmente che focalizzandosi che su una sola ipotesi cercando di adattarla agli elementi in possesso.
Il sistema sviluppato per arginare la mancanza di informazioni richiama un’altra considerazione che l’Autore pone: siamo certi che abbiamo bisogno di maggiori informazioni? Secondo l’Autore, infatti, non è vero che la carenza dell’analisi di intelligence è da ricondursi alla mancanza di informazioni disponibili. Le informazioni aggiuntive possono essere distinte più categorie che ci portano ad vari tipi di analisi: quella “guidata dai dati”, quella “guidata dai concetti” e quella della “teoria del mosaico”. Se da un lato l’aumento di informazioni disponibili può dare un certo guadagno, dall’altro lato il miglioramento della capacità analitica è un campo vasto e fertile, e di certo più produttivo.
Ciò si basa, ovviamente, sulla capacità dell’analista di mantenere una mente aperta, che si ottiene tramite esercizi che permettano di percepire prospettive diverse, sviluppare nuove idee e capire quando è tempo di modificare il proprio modo di pensare, “affinché una idea non sia la fine di un processo creativo ma l’inizio”. Questo processo passa ancora una volta, come visto all’inizio del manuale, attraverso la comprensione del pensiero umano e di come si formano concetti e schemi mentali. Per allenare la predisposizione a una mente duttile, l’Analista può procedere ora interrogando sé stesso, testando la sua capacità di analisi, ora interagendo con altri colleghi in giochi di ruolo che servono a uscire dai panni che si sono vestiti per troppo tempo. Procedimenti che fanno leva sulla creatività, un elemento che, come emerge dallo studio degli scritti dell’autore, assume un ruolo fondamentale nell’analisi d’intelligence, così come assume rilevanza l’ambiente in cui l’analista opera e si esprime.
L’analista necessita poi di una strutturazione dei problemi quando risultano troppo complessi. Definire una serie di matrici e scomporre il problema in base a queste è utile per analizzare ogni singola parte della problematica evitando però di dover tenere tutto a mente. A tal fine lo strumento maggiore a cui l’Autore dedica una parte intera del capitolo è l’ARC, Analysis of Competing Hypotheses, ovvero l’“analisi delle ipotesi concorrenti”. È un sistema complesso che serve a dimostrare come l’analista sia arrivato alle conclusioni, affinché altri analisti possano eventualmente contestarle. È una procedura, da eseguirsi in otto passaggi, che standardizzando il meccanismo dell’analisi e riconducendola in termini “oggettivi” permette a chiunque di capire come si è arrivati a una specifica conclusione. Questa parte è il cuore dell’analisi, è qui che l’analista mette a frutto le sue capacità e mette all’opera il mestiere di “artigiano dell’analisi”.
La terza parte del testo torna a esaminare il processo cognitivo, approfondendo meglio i “pregiudizi cognitivi” di cui spesso un analista è, inconsapevolmente, vittima.
Il pregiudizio cognitivo è un errore prevedibile e costante che mina la valutazione delle prove, la percezione di causa ed effetto, la stima delle probabilità e anche la valutazione stessa dei rapporti di intelligence. Questi limiti non vanno però confusi con i pregiudizi culturali, organizzativi o dovuti a interessi personali; i pregiudizi cognitivi sono infatti inerenti al processo mentale di elaborazione dell’informazione e, a differenza di quelli culturali e personali, la presa di coscienza della loro esistenza non basta per vincerli e superarli. La mente, si legge, viene studiata nella sua capacità di assorbire le informazioni, mettendo in evidenza come reagisce diversamente agli stimoli che provengono dai vari tipi di fonte: a volte più propensa a credere, altre volte più scettica e riottosa a rivalutare un elemento già giudicato in precedenza. Limiti, questi, che in base a come le prove vengono riportate all’analista, al modo in cui impattano sulla sua immaginazione, alla misura in cui risultano evidenti, meno evidenti o ridondanti, affliggono la capacità di valutazione nella misura in cui l’analista non riesce a staccarsi dall’impressione generata da una prova poi screditata.
Anche la percezione di “causa-effetto” è spesso soggetta ad essere male interpretata, là dove l’uomo nel confrontarsi con la complessità dei fenomeni spesso è portato a “semplificare” e a voler necessariamente rintracciare le cause alla base di fenomeni che, spesso, sono accidentali o casuali. L’Autore mette in parallelo le figure dell’analista di intelligence e dello storico, spiegando che è il modo di procedere di quest’ultimo che deve caratterizzare il lavoro dell’analista: deve cioè tenere a mente il singolo avvenimento, ma allo stesso tempo seguire i cambiamenti simultanei di molte variabili senza perdere mai di vista il contesto. Lo storico cerca un senso all’insieme che studia, e così pure l’analista: conoscendo il passato, cerca di immaginare come va a finire la storia.
Altri pregiudizi dipendono invece dall’”organizzazione”, ovvero dalla tendenza che l’analista ha a credere che ogni cosa sia frutto di una scala gerarchica, di una organizzazione di governo. A causa dello stesso pregiudizio si tende a non accettare l’idea che un fenomeno possa essere casuale o spontaneo, perché è nella natura umana “mettere ordine”; o si percepisce una correlazione che di fatto non c’è tra una causa e un effetto; oppure si associa una causa a un effetto, pensando che a una causa importante corrisponda un effetto altrettanto importante e viceversa; oppure si opera un bilanciamento errato tra le cause interne, dovute agli attori, e quelle esterne, dovute a fattori di interferenza di altro genere che determinano le azioni; o si sopravvaluta, da parte sia singoli che dei governi, la propria capacità di influenzare il comportamento altrui.
In merito invece ai pregiudizi riguardanti la distorsione della stima attribuita alle probabilità, queste ultime sono spesso sminuite del loro valore a causa della tendenza dell’analista a ritenerle attendibili in base a quanti fenomeni analoghi riesce a richiamare alla mente. Oppure l’analista in base all’ “ancoraggio”, quando prende in considerazioni tali dati, parte da un fenomeno analogo – preso magari da una precedente esperienza – e su questo poi innesta i nuovi dati, col risultato che spesso la nuova analisi non si discosta molto da quella precedente. Per non rischiare di essere fuorviati, suggerisce l’Autore, sarebbe meglio non prendere in considerazione casi ed esperienze pregresse, e partire da zero ogni volta. Così come è fondamentale eliminare forme di incertezza dovute a espressioni di probabilità soggettiva, inserendo al loro posto forme di probabilità percentuale.
Infine l’Autore parla del risultato di questi “bias”, pregiudizi, e dell’effetto sull’attività di analisi. Questi effetti toccano tre possibili aspetti: uno legato al prodotto dell’analisi, come operato dell’analista, laddove questo sopravvaluta la precisione dei suoi giudizi; uno legato al consumo del prodotto di intelligence, quando il decisore politico a cui è destinato il rapporto sottovaluta quanto appreso dal medesimo; un ultimo legato all’analisi “post mortem”, quando gli analisti preposti a indagare un errore arrivano a sancire che l’evento sarebbe stato più facilmente prevedibile di quanto non fosse effettivamente.
L’Autore nell’analizzare l’attività cognitiva umana identifica quelli che sono i possibili limiti dovuti all’“architettura” della nostra mente. Il manuale è un fondamentale dell’analisi per questo motivo: perché spiega pedissequamente i processi di elaborazione che la mente dell’analista compie ed esamina i casi in cui è molto probabile che l’analista, in quanto “uomo”, possa inciampare deviando dalla sua attività di analisi. Il testo è più un trattato di psicologia che un’opera che spiega “come fare l’analisi”; è come se si volesse spiegare l’alfabeto a chi, non sapendo leggere, vorrebbe avvicinarsi a un’opera letteraria. Allo stesso modo, avere i migliori report del mondo, la migliore humint delle migliori agenzie d’intelligence non servirebbe a nulla se non si conoscessero questi elementari – quanto importanti – meccanismi della mente umana. Per questo Heuer oltre a spiegare come “funziona” la mente ci indica anche degli strumenti per sfruttare al massimo questo complesso strumento. Se è vero che per migliorare l’analisi si possono investire più soldi, necessari per ottenere più informazioni e per fare analisi più approfondite, non si deve dimenticare che l’analisi è, prima di tutto, un modo di pensare. A questo ultimo argomento l’Autore dedica l’ultima parte del volume, e propone una check list di 6 passi da seguire per migliorare il modo di pensare; una scaletta che ogni analista all’opera dovrebbe assicurarsi di aver percorso durante la propria analisi.
Una volta allenata la mente, ciò che resta da fare è creare un ambiente migliore, che sia più stimolante per permettere il “fiorire dell’eccellenza dell’analisi”.
Il libro Psychology of Intelligence Analysis, edito dal CENTER for the STUDIES of INTELLIGENCE della CIA, è una pietra miliare nell’analisi di intelligence. La lettura è di certo raccomandata a tutti gli appassionati, ma andrebbe considerata fondamentale in ogni scuola di addestramento e formazione di analisti, indipendentemente dal loro campo di specializzazione o dal corpo di appartenenza.



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