GNOSIS 4/2010
ATTUALITA' INCONTRI SU TEMI CONTEMPORANEI Quattro chiacchere con... Annamaria Bernardini de Pace |
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Scattiamo una fotografia all’Italia… Non vedo quello che vorrei. Vedo un’Italia un po’ confusa, con i segni di un individualismo esasperato, per cui prevale spesso l’interesse dei singoli e si affievolisce l’orgoglio per lo Stato, la devozione verso la famiglia, il rispetto del lavoro. Per esempio: molti credono di avere “diritto” al lavoro e poi magari rischiano di svalutarlo non impegnandosi, non migliorando, trascurandolo, sfruttandone solo i “benefits”. Tendono a tramontare sia il senso del merito che quello della lealtà. Non parliamo poi del valore “massacrato” della giustizia, interpretata da alcuni come sinonimo di vendetta, da altri come espressione di potere personale, da altri ancora come lavoro ben retribuito privo di responsabilità. Mi piacerebbe che nella “hit parade” dei valori l’onestà, la fatica, la giustizia, la responsabilità e la solidarietà soppiantassero l’interesse, la furbizia, la slealtà, il disimpegno, la faziosità, che oggi raccolgono il massimo del consenso generale. Secondo critici e sociologi non è rimasto quasi nulla della ideologia del ’68 di cui tanto si parla anche a propostito di recenti manifestazioni: che significato hanno rappresentato quegli anni? Ho vissuto il ’68 controcorrente: mi sono sposata a 22 anni quando gli altri lottavano contro lo Stato, ho creato una famiglia nel tempo del “sesso libero”, ho avuto due figlie quando si rivendicava la libertà di abortire, mi sono impegnata a fare bene la moglie e la madre quando le mie amiche fondavano le basi della carriera. Poi negli anni ’80, cresciute le figlie, ho cominciato a lavorare e a faticare il doppio. Senza mai accettare, però, le indicazioni più negative del ’68, a cominciare da ogni tipo di rivendicazione, di libertà generica e di garantismo a ogni costo, che sono poi le impronte negative rimaste di quegli anni e che hanno minato famiglie e istituzioni. Di positivo, è rimasta la voglia di verità che – quando usata con responsabilità - non può che migliorare ogni situazione. Cosa è rimasto invece del sogno americano? E quali sono le ragioni del cosiddetto “grande sonno dell’Occidente”? Ho amato e letto più volte i discorsi di Martin Luther King e in America credo che il sogno americano faccia ancora parte della cultura generale: chiunque abbia competenza e sappia affrontare la fatica, può arrivare dove vuole. Milioni di persone nel mondo ci hanno creduto e hanno realizzato il sogno. Io stessa sono partita da zero e, senza l’aiuto né di padri, né di padroni, né di padrini, ho raggiunto gli obiettivi che mi ero posta. Anche se credo alla ricchezza della storia personale, più che a quella economica, che comunque c’è per quel che basta quando lavori al meglio. Oggi molti non ci credono, esiste la diffusione di una mentalità assistenzialista e di pretese garantiste, non sempre suffragate dalla volontà di impegni costanti. Il risultato è nella crisi, nei fallimenti, nella depressione del pensiero. La stessa classe politica dovrebbe essere in grado di sottolineare gli equilibri sociali basandoli sulla meritocrazia e sulla formazione. Il ministro Gelmini si sta impegnando con la riforma della scuola e dell’Università – innalzando il merito al primo posto dei valori – ma non è stata completamente capita. Ogni nazione ha bisogno di costruire e inseguire un sogno ora che quasi tutti hanno pari opportunità di partenza. È sempre la famiglia il primo mattone della società italiana? e, se non lo è più, cosa l’ha sostituita? Le persone che formano una famiglia potrebbero cominciare a coltivare nel loro piccolo un sogno, coinvolgendo i figli e gli amici. Molti lo fanno, ma la “musica allegra” che creano è disturbata, e spesso soffocata, dal rumore assordante di altri nuclei intorno che raccontano di tradimenti, violenze, trascuratezze, irresponsabilità, avidità di denaro, parassitismo, noncuranza per gli altri. La famiglia, coniugale o libera, dovrebbe essere sempre il primo mattone della società: è qui che si formano le persone e si insegna la dignità, la voglia di autonomia, il gusto di adempiere al dovere, la lealtà, la capacità di amare. Purtroppo non è così sempre: oggi l’individuo ha più “valore” della famiglia. La tendenza è di formare nuclei sempre più piccoli i cui interessi sono difficilmente condivisi. Ci sono molte donne che vivono sole o “di solitudine di ritorno”. È cambiato l’atteggiamento della società verso la donna che per scelta fatta o subita vive da sola? È una domanda che denota grandissima sensibilità: la solitudine delle donne è un fatto concreto che può infatti diventare un’emergenza sociale. La solitudine delle donne è il segno più ingiusto di questo nuovo secolo. Malgrado le lotte e le conquiste giuridiche e sociali (o forse per questo…) le donne, soprattutto ultra quarantenni, sono sempre più sole. La società è ancora maschilista e non solo non aiuta, ma spesso neppure accetta e sovente perseguita la donna, soprattutto se sola e non disposta a compromessi. C’è la solitudine delle donne che abortiscono, che diventano madri nonostante tutto, che sono abbandonate. Di quelle donne che devono sempre aiutare qualcuno, piccolo, vecchio o malato. Oppure delle donne maltrattate ogni giorno dal padre, dal marito, dal datore di lavoro che vivono nella paura e nella vergogna. La solitudine di tutte le donne che sono state educate a fare da sole e non chiedere mai aiuto, cui è stato insegnato ad amare, ma non ad essere amate, che sono creatrici di vita e muoiono sole giorno per giorno. Quali sono i difetti meno sopportati dalle donne e quindi spesso alla base di separazioni o divorzi? Su tutti l’egoismo e l’irresponsabilità affettiva. Il resto, le donne sono abituate a sopportarlo e persino a supportarlo. Che tipo di famiglia si profila per i figli dei nostri figli? Non un solo modello di famiglia, ma vari modelli di famiglia. Non c’è più uno stereotipo, un parametro cui fare riferimento. Ci sono famiglie sposate, allargate, libere, monogenitoriali e omosessuali. Un uomo o una donna col cane o col gatto. Fratelli soli. Anziani con la badante. Comunità familiari sostenute dallo Stato. Famiglie con affidi temporanei di bambini in difficoltà. Il codice e i principi del welfare dovranno adeguarsi alle nuove realtà. Quanto conta la formazione familiare per arginare alcune forme di aggressività giovanile che trapelano soprattutto in contesti di aggregazioni: ultras allo stadio e gruppi di contestazione pseudopolitica? La formazione familiare conta molto, prevalentemente nei primi anni di vita e a livello di esempio quotidiano rielaborato come schema esistenziale, ma mai come oggi nel processo formativo intervengono i media: internet, le comunicazioni virtuali e interattive, i modelli e le proposte di identificazione offerte dalla televisione tendono a diventare poli di riferimento. La voglia di “apparire” raccontando identità posticce create anche per uscire dalla barriera della ordinarietà possono suggerire comportamenti aggressivi quando si lascia spazio alla rabbia non mediata e contenuta da termini di confronto reali e dall’affetto consolidato. Spesso i componenti di un nucleo familiare si trovano a condividere soltanto una cena frettolosa alla sera senza troppa voglia di parlare, né di ascoltare mentre andrebbe rivalutato il senso pieno del termine condivisione che è anche il presupposto della progettualità comune e la base dei momenti di crescita degli adulti del domani. |