GNOSIS 4/2010
Nuovi scenari e risposte adeguate Il network di Al Qaeda ha un volto occidentale |
Guido OLIMPIO |
L’allarme sicurezza scattato quasi su scala globale nel periodo Ottobre-Novembre è stato legato a tre realtà eversive distinte. La prima quella – cronica – incarnata dall’area tribale pachistana usata quale piattaforma per attacchi. Una regione dove è cresciuta la presenza di volontari provenienti dai paesi occidentali: militanti trasformatisi, con l’aiuto di movimenti estremisti regionali, in una duplice arma. Possono colpire in loco oppure sono designati a condurre operazioni a lungo raggio, spesso nei rispettivi paesi di appartenenza. Il fenomeno degli “stranieri” – e ciò costituisce ulteriore fonte di preoccupazione – si è allargato anche ad altri scacchieri. In particolare lo Yemen e la Somalia. La seconda realtà, molto più vicina ai nostri confini, ruota attorno ad Al Qaeda, nella terra del Maghreb (Aqim). Un gruppo che, pur fiaccato, ha trovato le risorse attraverso i sequestri di turisti e operatori umanitari per rilanciarsi. Una fazione che per gli storici legami con simpatizzanti nel Vecchio Continente è ritenuta un brutto cliente per i Servizi di Sicurezza. Anche la minaccia rappresentata da Aqim ha una doppia valenza: regionale – con un epicentro tra Algeria e Sahel –, internazionale, con le diramazioni negli Stati europei (Francia, su tutti, ma anche Italia, Spagna e paesi scandinavi). La terza insidia è venuta con i pacchi bomba su aerei cargo diretti negli Usa, azione rivendicata da Al Qaeda nella penisola arabica, diramazione yemenita/saudita della casa madre. Si è trattato di un attentato fallito ma che, dopo quanto accaduto a Natale, ha riproposto il tema degli attacchi contro l’aviazione civile. In quest’articolo, però, proveremo a spiegare gli sviluppi lungo i primi due fronti. Il flusso È dal biennio 2006-2007 che a partire dagli Stati Uniti e da quasi tutti i Paesi europei (più l’Australia) è iniziata una marcia di avvicinamento di estremisti verso le aree di conflitto jihadiste. Se l’Iraq è rimasto – anche se con numeri notevolmente ridotti nel corso del tempo – la meta per aspiranti mujahedin arabi, Pakistan, Somalia e Yemen hanno attirato un numero crescente di volontari. Gli analisti concordano nell’affermare che non sempre è possibile tracciare un profilo preciso dei “viaggiatori della Jihad”. Certamente ci sono dei tratti comuni. Si tratta di convertiti o di giovani occidentali di origine asiatica/mediorientale/turca. La maggior parte ha scarsa dimestichezza con la pratica militare e si affida all’addestramento una volta raggiunta la regione desiderata. Un numero più ridotto – in particolare negli Stati Uniti e Gran Bretagna – ha pensato ad una preparazione preventiva: uso di armi softair, arti marziali, simulazioni di combattimento nei boschi. Esperienze sommarie che, se fatte insieme ai compagni, rivestono un’importanza per aumentare la coesione e “conoscersi”. In altre parole fanno gruppo. Il fenomeno dei volontari ha tre caratteristiche essenziali 1) I nuclei di militanti si mescolano, si associano, si separano. Ossia c’è una certa frammentazione legata allo spontaneismo e all’opportunità del momento. 2) Possono esserci leader e sottocapi diversi, i militanti ricadono sotto aree di influenza mutabili. Molto dipende dalla contingenza, dal territorio dove si trovano o dalle necessità della fazione alla quale sono associati. E per questo possono anche esserci dei travasi di uomini da un gruppo all’altro. 3) Sono a volte inseriti in network agili, temporanei, che magari ruotano attorno ad una missione o ad un addestramento specifico. Come è emerso in diverse indagini, gli estremisti per arrivare nell’area tribale seguono una rotta consolidata nel tempo. La prima tappa è, di solito, la Turchia, quindi passano in Iran (a volte in modo clandestino o quasi) e da qui in Baluchistan. Altri percorsi li portano in Arabia Saudita o Egitto. Non manca chi tenta la via del Golfo, attraverso lo snodo di Dubai ma lo fa con grande cautela perché teme di essere intercettato dai Servizi di Sicurezza. Questi spostamenti non sarebbero possibili senza l’assistenza dei facilitatori, figure già attive negli anni ‘90 quando i simpatizzanti di Al Qaeda volevano recarsi in Afghanistan. Possiamo distinguerne tre categorie. La prima è quella tradizionale, con l’uomo che fornisce documenti. Si tratta di pedine spendibili che spesso non hanno alcun rapporto vero con organizzazioni eversive. La seconda è più interessante poiché include personaggi in grado di finanziare un viaggio, di fornire “dritte” utili su come comportarsi. In talune situazioni possono anche fornire apparati di comunicazioni “puliti” e sofisticati. I Servizi di Sicurezza americani hanno segnalato l’aumento di questo secondo “tipo” nel Nord Europa e, in misura minore, all’interno degli Stati Uniti. Sono pedine di valore per il network, con solidi legami con formazioni operanti nella zona tribale. La terza è quella di vere “guide” che accolgono i militanti al loro arrivo nel teatro e li assistono nei primi mesi. Funzione da non trascurare: sempre le inchieste e le confessioni di arrestati hanno dimostrato che non sono pochi i casi di “rigetto”. Il giovane incontra difficoltà, si sente isolato in una realtà nuova. E a quel punto decide di abbandonare. Oppure è il gruppo che li respinge ritenendoli non abbastanza temprati o temendo che siano delle spie. Le “colonie” Dall’osservazione dei flussi e dalle segnalazioni raccolte durante questi ultimi anni è possibile fornire alcuni numeri sulle presenze dei volontari occidentali sui diversi scacchieri. La colonia tedesca in Pakistan – anche alla luce dell’allarme di Ottobre – si è dimostrata molto attiva. Secondo le autorità, a partire dalla metà degli anni ‘90, oltre 200 persone si sono stabilite – per periodi variabili – nell’area tribale del Pakistan (Fata). Valutazioni riferite a periodi più recenti stimano in 70 gli estremisti che hanno eseguito uno speciale training e 40 coloro che hanno partecipato attivamente al conflitto afghano. I francesi ne hanno censiti tra i 30 e i 50, divisi tra l’area tribale e lo Yemen. Poche decine i britannici. Una mezza dozzina gli austriaci. Se guardiamo alla Somalia la composizione è ancora più variegata. Un rapporto danese elenca: 25-30 statunitensi, 40 australiani, 100 inglesi, 80 scandinavi. Tra questi ultimi – secondo fonti governative di Stoccolma – circa 30 svedesi. Non meno importanti i dati emersi da due studi. Nel primo (febbraio 2010) si sostiene che su 21 “complotti seri” nel post “11 settembre” è emerso un ruolo significativo di 37 “stranieri” nascosti nella Fata. Altro dossier: su 43 casi di terrorismo “nato in casa” negli Usa quasi una dozzina di militanti si è recata all’estero per indottrinamento e training. In questo contesto, si è tornato a parlare di alcuni centri islamici della regione di Amburgo, compresa la moschea frequentata da Mohammed Atta, il capo del commando “dell’11 settembre”. Pur essendo ancora informazioni sommarie, si può comprendere come la vecchia filiera che ha fatto da base al complotto contro l’America non sia stata sradicata completamente. Indiscrezioni hanno riportato in primo piano la figura di Said Bahaji, comparsa nella preparazione “dell’11 settembre”. Sembra che questo terrorista, insieme ad alcuni complici tedeschi, abbia reclutato un buon numero di giovani poi fatti arrivare in Pakistan. Rispetto ai compagni di altre nazionalità, i tedeschi hanno potuto contare su un network di assistenza ben oliato. I volontari hanno creato un loro gruppo – i “Talebani tedeschi” – e questo li ha resi più compatti, ma hanno anche stretto rapporti con gli islamisti uzbeki, una delle cinghie di trasmissione del neo-terrorismo. Il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (Miu) e l’Unione della Jihad islamica (UJI) hanno accolto gli “stranieri” dandogli un tetto, garantendo l’addestramento militare (come uso di armi da fuoco, Rpg), istruendoli alle tecniche per attacchi suicidi. Un’azione condotta nonostante le due fazioni – alleate di Al Qaeda centrale e dei talebani pachistani – siano da tempo sotto attacco da parte dei velivoli senza pilota statunitensi. In agosto, dopo mesi di smentite, il Miu ha ammesso la morte del mitico Tahir Yuldashev, guida del movimento. Il suo posto è stato preso da Abu Usman Adil. Altro aspetto: gli uzbeki hanno continuato nella loro attività pur dovendo difendere con i denti – e con le armi – la loro enclave nell’area tribale. Con alcuni clan ci sono state delle vere battaglie. I locali non gradiscono certi comportamenti degli uzbeki. Sotto l’occhio attento delle due fazioni i tedeschi sono cresciuti sul piano ideologico e militare. Anche se le relazioni, a volte, si sono rivelate complicate. In una certa fase, un nucleo di tedeschi avrebbe deciso di separarsi dalla UJI per combattere al fianco dei talebani che concedevano loro maggiore autonomia. Ecco perché la presenza di un “facilitatore” più sensibile e attento può contribuire a serrare i ranghi. Alcuni dei tedeschi sono stati impiegati come attentatori suicidi contro le forze della Nato, altri hanno partecipato a missioni sacrificali, ossia assalti molto simili ad azioni kamikaze. “Shahid” poi celebrati con i tradizionali video diffusi anche in Germania. Uno sforzo propagandistico accompagnato da altre clip – rintracciabili su Internet – dove i volontari si rivolgono in tedesco alle possibili reclute. Nel Maggio 2010 sono state diffuse sulla rete le memorie di Eric Breininger, un giovane ucciso in uno scontro con i pachistani e protagonista in video. Legato alla cellula della Saar – un gruppo che progettava attentati contro basi Usa in Germania nel 2007 – Eric ha raccontato il suo percorso, compresi i rapporti difficili con gli ospiti uzbeki, ed ha parlato in termini estasiati delle “perle”, i giovani designati a fare i kamikaze. I volontari – e non solo quelli tedeschi – hanno poi trovato una sponda formidabile in due personaggi chiave. Il primo è Qari Saifullah Akhtar, leader dell’Harkat ul Jihad Al Islami, movimento nato nel Punjab negli anni ‘80. Il secondo è Ilyas Kashmiri, capo della Brigata 313, anello di congiunzione tra qaedisti, separatisti indiani e apparati pachistani. Entrambi hanno trasformato i loro gruppi in agenzie per il terrore. Agiscono nella regione ma hanno in mente obiettivi ambiziosi, dall’Europa agli Stati Uniti. Kashmiri, in una rara intervista, ha spiegato con estrema franchezza chi sia: non mi considerate come il solito ideologo chiacchierone – è la sintesi – ma sono un capo militare. Il capo della Brigata 313 ha dimostrato la sua abilità nel piano che ha portato un gruppo di fuoco Lashkar ad attaccare i grandi alberghi di Mumbai. Per gli indiani Kashmiri ha coordinato una parte della preparazione. L’uomo è temuto non solo per la sua audacia ma anche perché viene ritenuto tra i pochi in grado di assemblare nuclei di provenienza diversa per una missione ad hoc. Mette insieme europei, locali e qaedisti veri. Poi, a seconda delle necessità, sceglie a chi affidare il compito di condurre l’atto finale. Gli americani sono certi che Kashmiri disponga di suoi uomini di fiducia in Europa: non è solo un’ipotesi ma un dato confermato da intercettazioni telefoniche. Vivono indisturbati, dispongono di risorse e sono attivabili in qualsiasi momento. Lo dicono le informazioni raccolte con gli interrogatori di alcuni arrestati, a cominciare da David Headley, il pachistano-americano coinvolto sia in un progetto di attentato in Danimarca sia nell’operazione Mumbai. Se osserviamo il modus operandi del commando che ha agito in India è evidente come fosse bene informato sugli edifici da colpire, le strade da seguire, la tattica per arrivare dal mare senza essere visto. Merito della ricognizione condotta da alcuni “scout”, compreso Headley. Un lavoro svolto con video, sopralluoghi e studi con Google Earth. Molto curate le comunicazioni tra gli assalitori e il loro referente. Un altro aspetto da tenere in evidenza è la tattica preferita da Kashmiri e gruppi affini, come i Lashkar e Taiba. I mujahedin sono pronti ad immolarsi e sono preparati, durante il training, a questo. Però l’azione kamikaze è davvero l’atto finale. Il vero obiettivo è la presa d’ostaggi per prolungare l’emergenza e sfruttare l’assedio a fini propagandistici. I terroristi, in questo quadro, si muovono imitando gesti e comportamenti da forze speciali. Dopo il massacro di Mumbai è emerso che il commando aveva seguìto un corso speciale per poter resistere ore. Avevano munizioni, apparati di comunicazione per seguire le notizie e cibo. Indiscrezioni di fonte tedesca sostengono che il possibile piano terroristico in Europa di cui tanto si è parlato prevedeva proprio una presa d’ostaggi in alberghi o edifici pubblici. In cambio avrebbero chiesto la liberazione di Khaled Sheikh Mohammed, la mente “dell’11 settembre”, e di altri prigionieri detenuti a Guantanamo. Ecco perché per la Brigata 313 e altre formazioni è indispensabile avere degli occidentali tra le loro file, ancora meglio se hanno passaporti “puliti” e parlano la lingua del paese bersaglio dell’attacco. Essendo partiti per primi, gli estremisti dell’area asiatica sono in vantaggio sui loro “colleghi” yemeniti e somali. Ma anche in queste due regioni – come abbiamo visto – la presenza dei “bianchi” è in ascesa. Nello Yemen sono stati arrestati almeno 4 americani, è stata fermata un’australiana e sono stati espulsi diversi francesi. Non tutti sono terroristi a tempo pieno, però gravitano nell’area dell’integralismo violento. Hanno raggiunto Sanaa con il pretesto di frequentare corsi di studio – dalla lingua alla religione – per poi stabilire contatti con personaggi molto vicini ad Al Qaeda nella penisola arabica. La loro presenza è cresciuta grazie anche al proselitismo dell’imam Anwar Al Awlaki. Origine yemenite, nato in New Mexico, si è ritagliato uno spazio nella propaganda jihadista attraverso Internet e Youtube. Forse, con troppa approssimazione, lo si ritiene uno degli ideologi del movimento islamista. Piuttosto è un punto di riferimento per i volontari e per coloro che sono rimasti in Occidente. Il fallito attentato sul jet Northwest ha però dimostrato che un discepolo dell’imam – il nigeriano Faruk Abdulmutallab – è stato prestato all’organizzazione madre per l’attacco. Avendo a disposizione membri da Francia o Gran Bretagna, è probabile che i qaedisti se ne serviranno. Nella vicina Somalia, i militanti venuti dall’Ovest si sono divisi tra un ruolo attivo sul fronte di guerra – diversi hanno indossato le cinture esplosive – e quello della propaganda. Un buon esempio è quello di Omar Hammani, un convertito dell’Alabama, trasformatosi in una specie di “rock star” jihadista sul web. Infine un risvolto emerso in modo piuttosto netto negli Stati Uniti. Il movimento somalo Shabab (ma anche il Lashkar indiano e l’Hezbollah libanese) ha potuto contare sull’appoggio esterno. Persone che vivono da tempo in America, cittadini a pieno titolo e guerriglieri part-time, la cui unica missione è inviare denaro, equipaggiamento e – quando è possibile – armi ai loro complici. Non sono in grado – o non se la sentono – di partire per il fronte e allora compensano con i rifornimenti. L’Iraq In quest’analisi abbiamo lasciato volutamente fuori l’Iraq in quanto in quest’area i volontari vengono soprattutto dai Paesi arabi. Pertanto ci limiteremo ad un rapido punto sul flusso che ha conosciuto fasi alterne. Molto alto fino al 2007, poi ridottosi per i migliori controlli alle frontiere e le ripetute retate lanciate negli Stati d’origine (Marocco e Algeria). Nel picco più alto vi sarebbero stati quasi 5 mila volontari, in quello più basso poche centinaia. Secondo un’analisi algerina (febbraio 2009) il 20% veniva dall’Algeria, il 18% dalla Siria, il 17% dallo Yemen, il 15% dal Sudan, il 13% dall’Egitto, il 12% dall’Arabia Saudita. Altri studi hanno invece indicato in libici, marocchini e sauditi le componenti più importanti. A giugno del 2010, fonti ufficiali americane e irachene avevano confermato una sostanziale diminuzione. Ma dopo l’estate, con la ripresa degli attentati in grande stile da parte dei qaedisti, è probabile che il loro numero sia di nuovo aumentato. Il pericolo Se negli anni ‘90 l’Europa e il Medio Oriente avevano seguito con preoccupazione il “ritorno dei veterani dell’Afghanistan” – intesi come i mujahedin andati a combattere insieme agli afghani contro i russi – oggi si teme il “ritorno dei bianchi”. Ovviamente non c’è paragone tra la prima e la seconda migrazione eversiva – allora erano migliaia – ma questo non deve indurre a ridurre l’impatto di giovani fortemente indottrinati che acquistano, dopo il soggiorno in aree critiche, anche una competenza tecnica. Una preparazione che finora è apparsa insufficiente – e dobbiamo rallegrarcene – che tuttavia rischia di evolversi rapidamente. Con un’annotazione importante: i volontari, oltre a saper usare mitra e granate, studiano come fabbricare bombe con prodotti civili. Questo permette di superare difficoltà logistiche e concede maggiore autonomia agli elementi inviati in Occidente. Aqim - Il fronte del deserto Per i Servizi francesi e americani, oltre ai tre focolai “classici” – Afpak, Yemen e Somalia –, una potenziale fonte di minaccia è rappresentata da Al Qaeda nella terra del Maghreb (Aqim). Una valutazione condivisa anche dagli apparati di sicurezza europei, sia pure con gradazioni diverse. Del resto la fazione non è certo un’entità nuova, visto che ha operato, con altre denominazioni, in Algeria e nel Vecchio Continente. Prima come Gruppo islamico armato (Gia), quindi come Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento. In Italia Polizia, Intelligence e Magistratura possono vantare una certa esperienza sul dossier algerino, in virtù di numerose indagini condotte ben prima dell’11 settembre 2001. Arresti, condanne e documentazioni hanno permesso di sviluppare un ottimo background. Dunque quella dell’Aqim è il ritorno di un vecchio avversario. E per certi aspetti indebolito rispetto agli anni ‘90, ma che tende a rialzare la sfida – specie contro la Francia e nella regione del Sahel – intensificando i rapporti con una nebulosa che nasconde brigantaggio, predoni del deserto e contrabbandieri di ogni tipo. Su questo reticolo a metà strada tra il terrorismo e il crimine, gli estremisti hanno poggiato oggi la loro principale attività: i sequestri di persona. Con i rapimenti di turisti, tecnici e viaggiatori europei Aqim ha accumulato un vero tesoro. Non meno di 28 milioni di euro realizzati con i riscatti. In un documento presentato all’ONU dal consigliere per la lotta al terrore della presidenza algerina, Kamel Rezag Bara, si precisano alcune delle somme pagate dai Paesi vittime del ricatto: - Spagna: 8 milioni di euro per tre ostaggi; - Italia: 3,6 milioni di euro per 2 ostaggi (i coniugi Cicala); - Australia: 2,5 milioni di euro per 2 ostaggi; - Canada: 2 milioni per 2 ostaggi; - Svizzera e Germania: 2 milioni di euro per 3 ostaggi. Una fortuna che è stata usata, in parte, per finanziare le proprie operazioni, oppure per veri investimenti di natura economica. Legittima, come l’acquisto di immobili e attività commerciali nei paesi africani. Illegale, con lo sviluppo del contrabbando. La situazione militare Al Qaeda nella terra del Maghreb nasce “ufficialmente” l’11 settembre 2006 quando Ayman Al Zawahiri benedice la fusione annunciata dal leader Abdelmalek Droukdel, conosciuto anche come Abu Musab Abd al Wadoud. La svolta è dettata dalle evidenti difficoltà del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento. Con un nuovo nome, Droukdel cerca di lanciare un nuovo prodotto. È un’operazione di marketing per aumentare le quotazioni al ribasso del gruppo e presentarsi come un punto di riferimento per i militanti del Nord Africa e dell’area del Sahel. A non tutti i “colonnelli” piace la svolta. Nascono contrasti, qualcuno abbandona la lotta, altri cercano di assumere una propria linea autonoma. La nascita della Aqim è accompagnata anche da un nuovo modus operandi, attraverso l’impiego di kamikaze e autobomba in gran numero. La fazione cerca, con le scarse risorse, di combinare azioni di guerriglia – come gli attacchi ai convogli – con gesti di terrorismo puro. Imitando altre fazioni qaediste, gli algerini prendono di mira i due nemici classici. Quello vicino, ossia l’Algeria in tutte le sue rappresentazioni e istituzioni. Quello lontano, i paesi che appoggiano il governo. Il primo bersaglio è relativamente facile da raggiungere, il secondo è più problematico: e l’Aqim, nonostante molte minacce, colpisce gli stranieri che intercetta nei suoi territori. Manca – in modo evidente – qualsiasi azione al di fuori dell’ambito regionale nonostante le ripetute minacce. Una “lacuna” che non è detto possa essere presto colmata. Nel 2007 c’è la strage di 4 turisti francesi in Mauritania, accompagnata da attacchi contro obiettivi poco protetti in Algeria. Poi, nel febbraio 2008, allargano di nuovo il raggio colpendo l’Ambasciata di Israele in Mauritania, nell’estate 2009 attaccano la rappresentanza francese – sempre nella capitale mauritana – ed uccidono un americano. Queste ultime azioni sono attribuite ad una figura leggendaria tra i ribelli. Quella di Mokhtar Belkmoktar. Noto come “Malboro” per i suoi legami con il contrabbando, famoso per essere “l’inafferrabile”, è al comando di una kataeb (falange) di 100-150 uomini. Le incursioni nel paese africano sono guardate con sospetto da Al Wadoud che prova a contenerlo. Dando più spazio e potere a Hamid Essoufi, alias Abu Zeid, vice di Yahya Djouadi, comandante della Kataeb Tarek Bin Zaayd, che ha competenza sul sud. Citiamo questi personaggi perché le divisioni e i contrasti – alimentati da personalismi o gelosie – incidono sulle attività dell’organizzazione così come nel delicato dossier dei sequestri. A partire dall’estate 2008, Abu Zeid cerca di accrescere il suo peso nella regione compresa tra Mali, Niger e Mauritania con una serie di iniziative militari e prese di ostaggi (un britannico e un francese saranno uccisi in modo brutale). L’emiro cerca così di fare cassa e nel contempo vuole affermare la sua autorità. Per gli analisti della regione, gli attacchi di Aqim sono comunque al ribasso. I ripetuti scontri con truppe dei paesi africani – assistite da francesi e americani – riduce i margini di manovra. Viene sottolineato che le diverse colonne sono costrette ad operare vicino ai loro rifugi. Cala anche la potenza degli ordigni usati negli attentati. Uno studio dell’istituto di ricerca texano “Stratfor” conferma questa tendenza anche durante il 2010: nei primi sei mesi di quest’anno si sono registrati 31 attacchi contro i 72 del 2009. Sul territorio algerino, in seguito ad una forte interdizione, Aqim è stata costretta a ripiegare nei tradizionali “feudi” a est di Algeri e nel cosiddetto triangolo della morte, costituito dalle località di Bouira, Boumerdes, Tizi Ouzou. In sintesi, gli osservatori ritengono che la capacità militare nelle zone classiche sia diminuita, così come la forza di condurre iniziative spettacolari. Il marchio Qaeda non si è tradotto in un’espansione della guerriglia e neppure in una crescita delle reclute. Significativo anche un minor ricorso ad autobomba e kamikaze. Questa tattica non è stata gradita da molti dirigenti mentre la pressione delle Forze dell’ordine si è fatta più efficace. Stretti a nord, i militanti hanno cercato di rifarsi a sud con gli ostaggi e i traffici clandestini tipici della regione. Come abbiamo sottolineato in precedenza, uno sviluppo tattico – e in parte strategico – che ha portato alla faida tra Abu Zeid e Belmoktar. Fonti francesi sostengono a questo proposito che il secondo, deciso a proteggere il suo regno, avrebbe offerto il suo braccio ad Al Qaeda centrale in anticipo sui suoi capi. Una fuga in avanti contrastata dall’entrata in scena di Abu Zeid che, per dimostrare di essere ancora più feroce e determinato, si è assunto la responsabilità di uccidere alcuni ostaggi in coordinamento con i dirigenti qaedisti in Pakistan. Prima è toccato al britannico Edwin Dyer (maggio 2009), quindi al francese Michel Germaneau (luglio 2010), trucidato in risposta ad un raid franco-mauritano. Su questo secondo caso informazioni rimbalzate dalla Francia sostengono che Germaneau era in mano a una “colonna” legata a Belkmoktar ma che avrebbe seguito poi gli ordini di Abu Zeid. In un libro appena uscito si sostiene invece che l’ostaggio sarebbe deceduto per un infarto. Ancora Abu Zeid ha coordinato un agguato costato la vita ad ufficiale maliano. Morte che lo Stato africano ha cercato di vendicare prendendosela però con i militanti di Belmoktar, inseguiti e braccati per giorni. Il network Pur in un quadro così instabile, gli estremisti di Aqim sono riusciti a continuare nell’operazione ostaggi, con la cattura, in settembre, di cinque tecnici francesi, un togolese e un malgascio in Niger. Un’azione spettacolare con i militanti capaci di superare le misure di sicurezza attorno agli impianti nucleari dell’Areva e di portarsi via i dipendenti. Un’inchiesta interna ha accertato che le misure di sicurezza che proteggevano l’impianto nucleare dell’Areva non erano adeguati. Il 10 Ottobre i terroristi, secondo notizie diffuse da Al Jazeera, avrebbero posto le condizioni per il rilascio: abolizione della legge sul velo, liberazione di alcuni prigionieri e 7 milioni di euro. Un colpo attribuito ad Abu Zeid, sempre più preso dal suo ruolo di jihadista globale e ispirato da quanto combinato da Abu Musab Al Zarkawi in Iraq. Per gli specialisti del Sahel, dalla parte di Aqim ci sono diversi punti di vantaggio. - Logistica: usa veicoli 4x4 resistenti, si affida a guide locali che conoscono alla perfezione il deserto, ha creato depositi di carburante nel deserto inserendo le coordinate sui Gps, ha una grande mobilità. Una volta catturati degli ostaggi li trasferisce per migliaia di chilometri, di solito nel massiccio montuoso del Timetrine (Nord del Mali). - Alleanze: gli islamisti algerini hanno allacciato stretti rapporti con i clan tribali attraverso favori e matrimoni di interesse (la poligamia aiuta). Infatti, Belmoktar e Abi Zeid hanno sposato donne del posto. Cresce il numero di africani nelle file di Aqim (quasi 400 tra mauritani e maliani). Più complicato il rapporto con i tuareg, anche se alcuni sono stati ingaggiati come scout e autisti delle jeep. - Manovalanza: alcuni sequestri sono condotti da locali – è il caso di quelli avvenuti in Mauritania – che poi cedono le vittime ai terroristi. Ciò permette ad Abu Zeid di evitare ai suoi uomini rischi inutili. - Interesse: il dossier degli ostaggi – come in Iraq o nel Libano degli anni ‘80 – ha favorito le iniziative dei mediatori. Persone in Niger e Mali specializzatesi nella trattativa. Sono un aiuto ma è evidente che hanno il loro ritorno economico. Significativo il ruolo del Burkina Faso: ospita unità speciali francesi ma è ritenuto uno snodo per gli affari poco chiari. - Tradizione: Belmoktar, anche se in difficoltà, possiede una rete storica di complicità, è un maestro dei traffici (sigarette, uomini, droga). Un network che gli ha assicurato in passato una certa autonomia politica e militare. Abu Zeid ha bruciato le tappe ed ha costruito la sua. - Debolezza: solo adesso Niger, Mauritania e Mali hanno iniziato a contrastare in modo più efficace i terroristi, in virtù dell’assistenza occidentale. Ma gli apparati sono insufficienti per sorvegliare un’area immensa. L’ideologia In una nota dei Servizi Segreti francesi del 22 settembre si afferma che è in crescita nella regione il sentimento anti-francese e non solo per l’antico passato coloniale. I terroristi, nell’analisi degli 007, si aggrappano a tre punti: gli attacchi degli eserciti locali appoggiati da Parigi; la presenza militare francese in Afghanistan; la contestata legge sul velo. È interessante notare come i militanti si allineino alla propaganda di Al Qaeda centrale. Osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri sono intervenuti più volte esortando a colpire la Francia. E la storia del velo è una delle colpe citate nei messaggi. Vale la pena di citare, come testimonianza diretta, le dichiarazioni di un ostaggio francese, Pierre Camatte, finito nelle mani dei terroristi nell’inverno 2010. L’uomo ha raccontato che Abu Zeid, esprimendosi attraverso un interprete, gli ha parlato poco di Osama o del colonialismo, ma insistito molto “sulle leggi contro i musulmani”. L’Aqim – o una parte del movimento – ha cercato di ottenere nuove investiture religiose. In settembre, il Mukhabarat giordano ha fermato Mohammed Al Maqdisi, predicatore e padre spirituale (poi ripudiato) di Al Zarkawi. Sembra che l’imam abbia avuto contatti con gli estremisti algerini che sollecitavano una fatwa che autorizzasse la lotta armata in risposta al parere contrario di altri dottori della legge. Al Maqdisi ha una grande influenza nell’arena qaedista, anche se è esposto alle pressioni delle autorità di Amman e ciò lo porta, a volte, a correggere i suoi verdetti religiosi. Il grande agitarsi dell’Aqim – a giudizio di alcuni osservatori – tradisce la volontà di crescere comunque, di attirare l’attenzione, di farsi pubblicità in modo spesso non coordinato. Del resto il contrasto che oppone i sottocapi non permette di presentarsi in modo compatto. Le contromisure Se Aqim non è un blocco monolitico, lo stesso si può dire delle forze che tentano di sbarrarle il passo. La lotta contro gli estremisti ha due poli: il primo – scontato – è quello algerino, il secondo è la Francia. Due Paesi che si contendono la gestione dell’attività di contenimento in modo parallelo e spesso concorrenziale. Algeri rivendica il diritto di leadership e non gradisce le intrusioni occidentali. Vuole e chiede aiuti militari consistenti, però non tollera che siano gli stranieri a poggiare gli scarponi nel deserto. Parigi vuole impartire delle linee guida e ottenere la copertura per colpi di mano delle forze speciali schierate in Africa. La Francia, alla fine di settembre, disponeva di un’ottantina di membri dei corpi d’elite (Cos) basati nel Niger e di tre aerei da ricognizione. Con l’appoggio dell’Intelligence, i francesi hanno partecipato ad un raid (22 luglio) sferrato dai mauritani in Mali. Incursione che – secondo una versione – avrebbe portato ad una risposta spietata dei terroristi: hanno ucciso l’ostaggio Germaneau. Il dispositivo di Parigi ha lasciato spazio anche agli Stati Uniti che, nel corso di questi anni, hanno varato un programma d’aiuti – 500 milioni di dollari distribuiti in 5 anni – legato alla sicurezza in favore dei paesi della regione. Le Special Forces, ad esempio, si sono occupate dell’addestramento dei reparti del Mali ed è probabile che abbiano fornito informazioni raccolte dai satelliti spia. Una presenza che tuttavia deve essere la meno visibile possibile proprio per non suscitare sensibilità e dare l’impressione di un profilo basso. Una prova delle divisioni che rallentano la risposta anti-Aqim è emersa dopo l’estate con due vertici separati. L’Algeria ha promosso la creazione di un Comando dove scambiare informazioni a Tamanrasset, coinvolgendo Mauritania, Niger e Mali. Iniziativa lodevole che tuttavia attende sviluppi concreti sul campo. In ottobre a Bamako c’è stato un summit con i rappresentanti del G8, Ciad, Mauritania, Niger, Burkina Faso, Mali e Marocco. Assente proprio l’Algeria che non gradisce l’inclusione dei marocchini, avversari regionali e l’intervento occidentale è giudicato alla stregua di una grave interferenza. Se vogliamo un paradosso potremmo dire che Aqim e l’Algeria concordino almeno su un tema: la Francia deve stare fuori dalla regione. A questi dissidi si aggiunge la particolarità del teatro. I governi sono preoccupati, vogliono reagire ma al tempo stesso intendono procedere con grande prudenza. La guerra all’estremismo s’intreccia con i problemi tradizionali dello scacchiere, dove muovono gruppi ribelli, predoni e bande tribali. Sui sequestri l’Algeria è chiaramente contraria al pagamento dei riscatti mentre il Mali non li esclude “per ragioni umanitarie”. C’è poi l’area grigia dei trafficanti. In particolare quelli legati alla droga. In Mali continuano ad arrivare dal Sud America aerei pieni di coca che viene presa in carico dalle gang africane. La “merce” poi prosegue alla volta nel nord Africa. Una rotta terrestre che sarebbe protetta in alcuni casi dai qaedisti che incassano una sorta di “tassa rivoluzionaria”. Per alcuni analisti il legame terroristi-stupefacenti è ampio, altri ritengono che sia ridotto, o quantomeno simile a quello con altro tipo di contrabbando. In fondo se Belmoktar viene chiamato “Malboro” qualcosa vorrà dire. In questo ambito va aperta una finestra sui tuareg, i signori del deserto. Alcuni sono entrati in Aqim – c’è la voce che uno di loro sia diventato “emiro” – molti hanno animato una ribellione storica, altri ancora si sono impegnati nella lotta contro gli islamisti. È il caso di Ibrahim Ag Bahanga, personaggio dal profilo ambiguo. Il 14 ottobre, alla testa di un gruppo di insorti tuareg, ha attaccato un convoglio che trasportava cocaina verso nord. Successivamente si è offerto di collaborare con le autorità nella caccia ai terroristi. Il governo di Bamako ha reagito con freddezza mettendo in dubbio le reali intenzioni di Bahanga. Un segnale di come la diffidenza su protagonisti e progetti sia molto diffusa. Conclusione La tendenza dei gruppi terroristici a reclutare elementi occidentali racchiude senza dubbio sfide molteplici per i Servizi di Sicurezza. È una realtà non facilmente inquadrabile. Perché i terroristi possono agire sia come cellula sia come “lupi solitari”. L’interazione con formazioni dell’area pachistana o somala li fa uscire da quello che potrebbe essere un ambiente ristretto. Quante volte un militante avrebbe voluto passare all’azione ma non sapeva come fare. Ora ha complici che lo possono aiutare in modo fattivo nel lanciare un attacco. Non è neppure facile tenere d’occhio la filiera. Una volta che un volontario raggiunge il suo “fronte” c’è una buona possibilità di perderlo. Senza voler fare i profeti di sventure, va però detto che il pericolo di un attacco portato da occidentali è estremamente concreto. Guardiamo ancora al passato. L’11 settembre è stato preparato da elementi che vivevano, in parte, in Occidente e sono poi andati in Afghanistan a prepararsi. Tuttavia il pendolo degli aspiranti mujahedin verso Pakistan o Yemen rappresenta un’occasione propizia per poter infiltrare le organizzazioni. Il setaccio è meno rigoroso e la voglia di attirare i “bianchi” apre spazi dove infilarsi. Ne sono consapevoli anche i terroristi professionisti che spesso lasciano nel limbo i nuovi arrivati e a volte li tengono lontani nel timore che siano poco affidabili. Se, in questi mesi, sono emersi così tanti dati sui piani in gestazione vuol dire che le Intelligence non sono completamente “cieche”. Se poi esiste una collaborazione fattiva con le autorità dei Paesi a rischio, i risultati aumentano. La soffiata dei sauditi sul complotto dei pacchi bomba ne è il più chiaro esempio. Ha un doppio volto anche la minaccia che viene dal deserto. L’Aqim si è messa in testa di punire l’Occidente e in particolare la Francia. Ha la voglia, ha la determinazione e gode persino della benedizione dei vertici tradizionali di Al Qaeda. Tuttavia, se lasciamo da parte la questione ostaggi, non è riuscita a dare seguito ai suoi proclami. Merito della sorveglianza degli apparati di sicurezza in Europa – il coordinamento sembra funzionare – e di una probabile debolezza della fazione. È questa la linea da seguire, trovando però una maggiore collaborazione con gli stati del Sahel. La contaminazione crimine-terrore può essere usata per raccogliere maggiori informazioni. Se è un vantaggio per Aqim avere rapporti con i predoni, può esserlo anche per l’Intelligence perché può agganciare dei banditi e tramutarli in “talpe”. I casi dei sequestri sono per fortuna pochi, però quando si versano nelle tasche dei rapitori somme colossali ci si espone a rischi futuri. Con tutto quel denaro, purtroppo, si può fare molto. |