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GNOSIS 4/2010
Decadenza economica e nuove opportunità

L’asimmetricità della crisi economica e il suo effetto sull’Italia


Nicola PEDDE

Molto è stato detto e scritto sulla crisi economica dalla fine del 2008, quando esplose negli Stati Uniti espandendosi progressivamente sino ad assumere una dimensione globale. Poco è stato fatto, tuttavia, per spiegare la natura e la diffusione geografica alquanto eterogenea della crisi e dei suoi effetti sulle singole realtà nazionali. Una crisi che interessa certamente il pianeta nella sua dimensione complessiva, sebbene non totalmente e con una localizzazione alquanto disomogenea. Per comprendere meglio questo fenomeno, ne abbiamo discusso con il Prof. Attilio ­Celant, Preside della Facoltà di Economia della “Sapienza” Università di Roma, con il Dott. Marco Giovanniello, Amministratore della società di consulenza finanziaria KIT Consulting, e con il Dott. Uri Dadush, Direttore dell’International Economics Program del Carnegie Endowment for International Peace.




Le banche alla sbarra

Irving Fisher (1867-1947), celebre quanto discusso economista neoclassico americano, aveva ipotizzato un mondo ideale nel quale la finanza, e soprattutto l’attività bancaria, fosse vincolata ad un controvalore fisico tangibile e non virtuale, restituendo di fatto allo Stato la capacità di gestire la politica monetaria ed impedendo alle banche di creare riserve virtuali.
Personalmente interessato dalla poderosa crisi del ‘29, che travolse la sua reputazione accademica e le sue attività imprenditoriali, Fisher finì i suoi giorni nell’oblìo.
Solo nel 1958 l’economista Jack Hirshleifer riprese e rielaborò la teoria dell’interesse e del capitale di Fisher, la sua principale produzione scientifica relativa alla determinazione del differente valore nel tempo di un bene, riabilitando la fama dell’economista scomparso nel 1947 e permettendo di riscoprire i suoi ultimi studi. Tra questi spiccava 100% Money, nel quale l’economista proponeva di obbligare le banche ad un obbligo di riserva del 100% sui crediti concessi, per limitare i rischi di crisi e debellare definitivamente inflazione e deflazione.
Le teorie di Fisher sono tornate progressivamente in auge nel corso del tempo, sino a godere di una nuova ed ampia popolarità a partire dal 2008, sulla spinta della crisi economica mondiale e delle cause che hanno contribuito a generarla.
Ciononostante, è necessario non generalizzare e valutare l’attuale crisi nella sua corretta dimensione, senza cedere a facili – quanto probabilmente improbabili – termini di comparazione con quella del ‘29 e cercando al contrario di comprenderne l’alquanto eterogenea misura e distribuzione a livello globale.
Il sistema bancario è stato da più parti individuato come la sorgente dell’attuale crisi, accusato di aver condotto speculazioni arbitrarie e dissennate, distorcendo le logiche del capitalismo e generando così una crisi unica quanto epocale.
Secondo Uri Dadush l’eccessivo rischio assunto dalle banche, ed una alquanto discutibile pratica nella concessione dei crediti, ha contribuito in modo evidente alla genesi della crisi. In aggiunta, poiché non si può permettere il fallimento delle grandi banche – onde evitare conseguenze catastrofiche – sono stati creati incentivi che hanno ulteriormente incoraggiato le banche ad assumere nuovi e ben più elevati rischi. I governi sono stati poi troppo facilmente persuasi della necessità di alleggerire le normative di settore, sebbene in alcuni casi questo non sia accaduto (come in Canada e in Italia).
Ciononostante, aggiunge Dadush, il comportamento delle banche e la carenza di adeguata regolamentazione sono state solo una parte del problema, che deve essere invece individuato nella sua completezza aggiungendo al quadro l’inappropriata politica monetaria e fiscale che ha generato il clima di euforia che ha preceduto la crisi. A questo deve essere aggiunta l’illusione generata dai successi dell’Euro nei primi dieci anni di circolazione, che avevano convinto molti nelle periferie dell’Europa che i tassi di interesse determinati al livello della Germania sarebbero continuati a lungo.
Il termine crisi in realtà, secondo Attilio Celant, è tanto generico quanto abusato, con il rischio di creare molta confusione sul fenomeno che interessa i mercati e le economie mondiali in questo momento. È senza dubbio vero che il fenomeno di crisi è partito da una matrice essenzialmente finanziaria, ma si è poi articolato e concretizzato in forme assai diverse tra loro.
Non hanno, quindi, risentito della crisi solo i sistemi esposti finanziariamente, ma anche quelli con problemi strutturali. Per molti paesi europei la crisi c’era già, ribadisce Celant, si era già in declino e la spinta propulsiva si era arrestata ormai da tempo. Da almeno 10 o 15 anni, infatti, non si registravano progressi in campo industriale né infrastrutturale. È chiaro, continua sempre Celant, che la crisi ha portato alla luce debolezze che, nel caso del nostro paese, meno esposto sotto il profilo finanziario e bancario, hanno comportato conseguenze meno gravi.
In linea con il pensiero di Dadushdi, anche Celant vede nel sostegno dei governi alle banche (aiutate, e non ricapitalizzate) non già una soluzione al problema quanto piuttosto un espediente tampone, che non ha affatto risolto il problema, ma ne ha anzi in alcuni casi amplificato l’effetto.
Non tutti i governi hanno tuttavia reagito allo stesso modo, così come non c’è stata uniformità nel modo in cui si è deciso di impostare le strategie per contenere gli effetti della crisi.
La crisi è partita negli Stati Uniti, ma la vulnerabilità dell’Europa era maggiore, concorda Dadush. In alcuni paesi europei le speculazioni immobiliari erano anche superiori a quelle degli USA, e l’Europa è molto più dipendente dai prestiti bancari di quanto non lo sia il sistema americano. In aggiunta, il settore manifatturiero rappresenta una consistente componente del sistema economico europeo, e, in questo ambito la crisi ha duramente colpito il settore. Secondo Dadush, poi, la crisi stessa ha messo in luce enormi divergenze competitive all’interno del sistema europeo, così come nella capacità di gestire il debito con le banche.


Una crisi asimmetrica

Secondo Marco Giovanniello, a oltre due anni dal fallimento di Lehman Brothers – che mise la finanza mondiale sull’orlo del baratro scatenando la peggiore crisi economica dalla Grande Depressione – il recupero del PIL è avvenuto nel mondo in maniera assolutamente diseguale.
Per i Paesi dell’Asia Pacifico, il Brasile e molti altri come la Turchia, in cui prima c’era un fortissimo trend di sviluppo, si è trattato di una crisi temporanea e la crescita è semmai stata solo rallentata.
Nei Paesi dell’Europa occidentale dove la bolla finanziaria e immobiliare era al parossismo, come in Irlanda, Islanda e Spagna, la crisi resta molto grave, mentre meglio va nel Regno Unito, probabilmente per l’effetto ammortizzatore di un elevato deficit pubblico che tuttavia ora deve essere eliminato perché non sostenibile nel tempo.
Nell’Europa orientale, continua Giovanniello, la chiave di lettura è data dai preesistenti squilibri macroeconomici. Dove questi erano elevati hanno affossato le economie, mentre dove l’equilibrio era stabile e caratterizzato da un quadro tutto sommato sano, come nel caso della Polonia, non c’è mai stata una reale crisi.
Gli Stati Uniti, invece, dove i forti squilibri del bilancio pubblico e degli scambi con l’estero datano dall’era Reagan e dove la situazione finanziaria delle famiglie è caratterizzata da una costante situazione debitoria, le politiche fiscali e monetarie fortemente espansive, hanno permesso di contenere la crisi, pur a prezzo di un forte aggravamento del debito pubblico.
Ed è quindi concorde Giovanniello nel sostenere che la crisi ha colpito duramente chi aveva grandi squilibri, e che alcuni Paesi hanno potuto attuare politiche anticicliche godendo di credito, in tutti i sensi, sui mercati finanziari internazionali.
Generalizzando il fenomeno, secondo Uri Dadush i paesi in via di sviluppo hanno sofferto meno degli altri della crisi per due ragioni. In primo luogo perché il loro sistema ­finanziario era relativamente meno integrato con quello dei paesi più avanzati, restando a margine di ogni amplificazione dell’effetto di crisi; ed in subordine perché la maggior parte dei paesi in via di sviluppo era caratterizzata da un quadro macroeconomico decisamente migliore di quello dei paesi più avanzati, potendo quindi reggere meglio all’impatto del fenomeno di crisi.
La Cina è un caso estremo e del tutto particolare secondo Dadush, in virtù della sua capacità di controllo sui capitali, del fatto che le banche sono possedute dallo Stato, e per gli straordinariamente forti valori macro economici del paese stesso. Non solo, Dadush ricorda che la Cina è ancora un’economia programmata, dove, quindi, una politica di stimolo anche di ampia portata può generare effetti in tempi rapidissimi.
Tra i paesi più avanzati ci sono, inoltre, importanti differenze. Alcuni sono stati colpiti principalmente attraverso il sistema del commercio, non essendo, secondo Dadush, risultato particolarmente esposto il loro sistema finanziario, ed hanno potuto contare su una ripresa più rapida. Come nel caso dell’Australia, di Israele e del Canada.
Altri sono stati pesantemente colpiti sul fronte del sistema finanziario, ma hanno avuto capacità di ripresa grazie alla propria competitività ed alla contestuale capacità di sfruttare la ripresa del commercio mondiale. Come nel caso della Germania e della Svezia.
I paesi avanzati della periferia europea, invece, hanno sofferto della loro scarsa competitività per la mancata crescita nei commerci o per la combinazione di più fattori, come ad esempio il tragico effetto della bolla speculativa del settore immobiliare in Spagna.
Per ironia della sorte, aggiunge Dadush, gli Stati Uniti hanno saputo reagire meglio alla crisi – nonostante ne siano stati all’origine – per la loro minore dipendenza dal settore manifatturiero e delle costruzioni, per una minore dipendenza dal credito bancario e per un settore privato che ha saputo reagire più rapidamente di ogni altro al manifestarsi della crisi. Quello che preoccupa, invece, è secondo Dadush il sistema istituzionale che puntella l’Euro e l’Europa, che potrebbe rivelarsi inadeguato.


È necessario cambiare rotta

Uri Dadush ritiene che, in termini generali, tutti i paesi economicamente più sviluppati dovrebbero mettere in campo un piano di consolidamento fiscale di medio termine, a cominciare dagli Stati Uniti. Questo deve includere una più ampia base di contribuzione ed una razionalizzazione della spesa, soprattutto quella connessa alla componente delle età più avanzate, come nel caso delle pensioni e della sanità.
I paesi periferici dell’Europa dovranno affrontare le maggiori sfide nel trasformare il mercato del lavoro e della produzione rendendolo più flessibile, e quindi invertendo il trend della loro perdita di competitività rispetto al cuore dell’Europa. Questo, secondo Dadush, richiederà sfortunatamente dei tagli o dei minori incrementi ai salari rispetto alla produzione, con una esposizione ad una maggiore competizione delle professioni protette.
La crisi ha diviso il mondo anche in merito alle previsioni sul futuro. In molti, forse anche sull’onda di una spinta ideologica, hanno ipotizzato con la crisi l’avvio del declino americano, prevedendo la fine del dollaro come moneta di riferimento ed il definitivo consolidarsi di un nuovo sistema multipolare trainato da Cina, India e Brasile.
La Cina, ne è convinto Dadush, dovrà riorientare e progressivamente ristrutturare la propria economia, favorendo maggiormente il consumo nelle regioni interne, al pari del Giappone che dovrà incrementare la competitività nel settore dei servizi ed incrementare i flussi dell’immigrazione per contenere gli effetti del declino della popolazione.
Per quanto affascinanti possano apparire le previsioni, tuttavia, mancano secondo l’economista del Carnegie elementi concreti per giustificarle. Se da un lato non c’è dubbio che il peso dell’America sia diminuito sulla spinta della crisi e che la Cina ed altri attori emergenti abbiano al contrario acquisito un ruolo rilevante, è decisamente troppo presto per decretare la fine dell’America e del suo ruolo speciale. Quella USA, ricorda Dadush, è pur sempre un’economia tre volte più grande di quella cinese, e il dollaro americano costituisce ancora circa il 70% delle riserve monetarie mondiali, mentre il Renminbi non è ancora completamente convertibile. Quello che stiamo osservando, secondo Dadush, è un film al rallentatore; anche se ipotizziamo il finale, ci vorrà parecchio tempo prima di poterlo vedere.


Il caso dell’Italia

L’analisi dell’attuale crisi economica italiana, secondo Giovanniello, impone di riconoscerla come sommatoria di differenti dinamiche, molte delle quali in atto da lungo tempo.
In Italia la crisi immobiliare è stata relativamente importante, le banche non hanno avuto bisogno di reale sostegno pubblico, le famiglie sono mediamente poco indebitate, ma lo Stato deve gestire un enorme debito pubblico accumulato negli anni e si cammina proprio sul filo del rasoio della sostenibilità di quel debito. L’appartenenza all’Euro, continua Giovanniello, permette, pur con qualche batticuore, di rifinanziare il debito a bassi tassi, ma non garantisce di recuperare la perdita di competitività. Da non sottovalutare, poi, il deprezzamento del dollaro, cui sono legate le valute dei Paesi emergenti, che pesa sul commercio con i Paesi extra UE.
Uno dei principali problemi dell’Italia, per Attilio Celant, è da individuarsi nella necessità di una maggiore spinta nella politica industriale e nella progettualità. L’esempio del settore auto è senza dubbio indicativo per il Preside di Economia. Non si tratta di una crisi di settore, né tantomeno il problema è legato al costo del lavoro. Quello che penalizza è la mancanza di progettualità e di innovazione, pur con rare eccezioni.
È sempre più necessario offrire prodotti innovativi e competitivi, senza perdere quote di mercato. Al contrario, modelli come la FIAT 500 – frutto di un poderoso sforzo innovativo – godono di ampio successo in Italia e all’estero. Semplificando all’estremo, interviene Giovanniello, l’Italia non ha problemi a produrre e vendere in alcune nicchie di qualità, dove il prezzo non è un fattore determinante – come nel caso dei prodotti di lusso o della meccanica di alto prestigio – ma potrebbe avere problemi nei confronti dei Paesi di nuova industrializzazione.
Al momento prevale la polarizzazione e il successo arride a chi come la Germania offre il massimo della tecnologia e vende con alti margini oppure a chi vende una tecnologia “accettabile” a prezzi minori.
Un certo numero di Paesi riesce a mantenere costi competitivi pur producendo ormai beni di buon contenuto tecnologico.
Il caso FIAT è sotto gli occhi di tutti, con il successo degli impianti in Polonia, l’investimento in Serbia e i problemi di competitività degli impianti italiani.
Non c’è dubbio che le aziende ed i lavoratori italiani siano in grado di reagire alla crisi al pari degli altri, sostiene Dadush, che tuttavia sottolinea come l’Italia sia frenata da limiti nella competitività e da vincoli non commisurati ad un sistema globale caratterizzato da una intensa competizione internazionale e da rapidi cambiamenti.
L’Italia, dice Giovanniello, dopo la crisi del 1992, ha messo un freno all’esplosione del proprio indebitamento pubblico ma, secondo Attilio Celant, è, però, di fondamentale importanza prendere decisioni urgenti quanto coraggiose proprio in materia di spesa pubblica.
È necessario, secondo Celant, effettuare mirati e ragionati investimenti produttivi per aumentare il PIL, anche a rischio di un incremento del debito, se questo è funzionale alla crescita. Si tratta quindi di effettuare delle scelte coraggiose che non possono essere distinte da un programma per l’abbattimento della spesa pubblica.
In conclusione, l’Italia ha bisogno di guardarsi da fuori, sostiene Marco Giovanniello, di osservare costantemente come si pone nell’evoluzione dell’economia mondiale e misurare, così, costantemente le proprie scelte con quelle degli altri sistemi anch’essi impegnati nel comune sforzo di crescita.



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