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GNOSIS 3/2009
Alla ricerca della sicurezza perduta
Minacce indefinite e stati di paura


Giuseppe ROMA


Lo stato di insicurezza genera paura diffusa a causa di eventi considerati potenzialmente offensivi. Inoltre, i grandi cambiamenti legati alla globalizzazione rendono sempre più difficilmente prevedibile il futuro delle persone.
È un elemento che va di pari passo con la percezione di un senso di inadeguatezza, a fronte della competizione meritocratica sempre più pressante, anche in funzione dell’età: più si invecchia e più aumentano i timori.
Come se non bastasse, la fine dei blocchi ha consumato molte certezze e, quindi, molti sicuri punti di ancoraggio psicologico, mentre il diluvio di notizie che i media riversano sulle persone comuni, enfatizzando gli eventi negativi, aumentano gli stati d’ansia e le angosce del cittadino comune.
Il Direttore Generale del Censis, Giuseppe Roma, non si limita all’analisi della situazione, ma offre anche possibili vie d’uscita: dalla complementarietà fra scelte individuali e prospettive politiche, al mercato regolato, alla democrazia diffusa, alla libertà coniugata alla responsabilità individuale.
(Foto Ansa)



Lo stato di insicurezza, così diffuso nella nostra società, come è noto, non si riferisce solo a minacce effettive e presenti, ma è fortemente influenzato da percezioni emotive per eventi recepiti come potenzialmente offensivi per l’individuo.
La paura diventa, così, uno dei sentimenti più condivisi a livello planetario e gli strumenti per contrastarla o ridurne gli effetti disgreganti, devono necessariamente partire da una maggiore comprensione dei complessi meccanismi che la fanno diffondere fra persone diverse, per cultura e per tradizioni.
All’origine della presente ondata d’allarme sociale contribuiscono, innanzitutto, i grandi cambiamenti portati, non solo nell’economia, dalla globalizzazione. Il mercato aperto dei circuiti finanziari, lo scambio di merci provenienti da ogni luogo, lo spostamento di grandi flussi di persone in maniera regolata o clandestina, le connessioni contestuali di tipo informativo hanno completamente cambiato l’approccio e la scala entro cui ciascuno giudica le condizioni di sicurezza in cui vive.
La percezione è locale ma ciò che ci sorprende viene da lontano. Pensiamo, ad esempio, all’attuale crisi finanziaria. Come ogni grande crisi, gli effetti negativi non sono circoscrivibili all’impatto che il credit crunch ha sortito sui risparmiatori, o sui dipendenti licenziati dalle banche fallite, sugli investitori o sugli speculatori. È evidente che il passaggio da un’economia dell’euforia, in cui tutto era possibile, ad un’economia dell’austerità e della prudenza, finisce per provocare quasi più panico fra chi non è direttamente interessato rispetto a chi, vivendo dall’interno la catastrofe, ha comunque gli strumenti per comprenderne gli impatti ed eventualmente mettere in atto le contromisure.
L’economia di mercato si basa, infatti, su due principali sentimenti di carattere collettivo: in quello dell’euforia prevale la fiducia nel futuro e la convinzione collettiva della possibilità che la crescita sia infinita. Quando il meccanismo non può più autoalimentarsi e il vortice del denaro si inceppa, interviene l’ansia, il gusto del rischio si trasforma in un sentimento di angoscia.
La libertà del mercato pone in maggiore evidenza la sua natura incerta e precaria. È proprio il mercato che, nella mondializzazione, moltiplica i suoi modelli, perde ogni standardizzazione e, quindi, diventa imprevedibile. In passato, quando l’economia e la società vivevano in confini molto limitati, l’insicurezza derivava fondamentalmente dalla rottura di regole e modelli consolidati di comportamento; l’essere fuori dai comportamenti ordinari, trasgredire le regole, cercare di trarre dei vantaggi in maniera poco trasparente, in una parola la devianza dalle regole, veniva ritenuta causa di una convivenza insicura.
Il mercato della globalizzazione non definisce uno standard ottimale buono in ogni situazione, per cui la trasgressione non è più solo difformità da un modello statico e consolidato, in quanto il modello stesso è fluido. Nella globalizzazione vince la grande offerta di opportunità, sia di tipo economico che di tipo relazionale, svincolata dai limiti, in qualche modo protettivi, dei mercati bloccati.
Lo stesso assetto geopolitico ha una forte variabilità e consegna a ciascun operatore il compito di adeguare, volta a volta, le scelte più congruenti con i continui cambiamenti dello scenario strategico.
Non a caso, quando il mondo era diviso in blocchi e le minacce erano ben definite, il problema della sicurezza era gestibile per grandi sistemi e toccava poco il singolo individuo, cui bastava la fedeltà al suo “blocco” per poter vivere in una condizione rassicurante.
La dimensione globale consegna, quindi, maggiori responsabilità al singolo individuo, sulle cui spalle si concentrano compiti, scelte, difese un tempo mediati da organismi intermedi, da una maggiore protezione pubblica e statale, da condizioni oggettive (la grande fabbrica, il grande ufficio, le città di piccole dimensioni, ecc.) che oggi si sono fortemente indebolite.
Per cui l’individuo è perennemente esposto a un senso di inadeguatezza, per incomprensione o per incapacità di interpretare il continuo divenire delle logiche globali.
E così la paura di non essere all’altezza delle sfide dei nostri giorni, di non saper rispondere alla competizione meritocratica, fa spesso ricadere le reazioni individuali nell’irrazionalità e nella sfera emotiva.
La globalizzazione, inoltre, produce un effetto indiretto, in quanto induce gli Stati a ridurre i livelli di protezione sociale.
Il welfare è in crisi anche in Europa, che su di esso ha basato le forme più avanzate di solidarietà e di crescita sociale. Quando la difesa della moneta e dei parametri macro-economici fa rallentare l’espansione della spesa pubblica, viene meno la possibilità di rispondere alle crescenti domande di una società che vive più a lungo, pratica un modello di consumi sofisticato, in cui il progresso scientifico induce un continuo intervento per preservare e migliorare lo stato di salute.
Le liberalizzazioni e i tagli alla spesa pubblica creano una maggiore apertura alla sfera privata, una maggiore libertà individuale ma, al tempo stesso, incertezza e rischio, che finiscono per spaventare la gran massa dei cittadini abituati a una architettura più statica dell’organizzazione sociale.
Quindi, la globalizzazione riduce lo spazio per la dimensione aggregativa e intermedia della società e indirizza sul singolo il peso di scelte e responsabilità, fino a poco tempo fa sostenute dalla sfera pubblica.
È evidente che il forte dinamismo dei nostri giorni finisce per penalizzare i comportamenti connotati da passività e bassa comprensione degli eventi compensando i deficit cognitivi nella fuga verso gli eccessi emotivi.
Inoltre, lo sgretolamento dello spirito comunitario e il gigantismo urbano che caratterizza ormai la gran parte dei Paesi avanzati, coinvolge ormai anche l’Italia e rischia di togliere al singolo quei riferimenti comunitari che, nel passato, hanno funzionato da contrappeso nei passaggi storici in cui si è manifestato un cambiamento di paradigma.
Le trasformazioni strutturali vengono ulteriormente amplificati dal fluire delle notizie in tempo reale e dalla “vertigine ipnotica” provocata dai media, che trasmettono alla gran massa dell’opinione pubblica, in maniera ripetuta e con forte evidenza, gli eventi prodotti dalla violenza e dal crimine, frutto di comportamenti devianti e immotivati, o prodotti da un uso distorto del potere anti-democratico.
La comunicazione, anche non volendo, legittima il panico e il clima di incertezza in quanto amplifica gli eventi negativi e, quindi, proietta su ciascuno di noi tali eventi come qualcosa che “potrebbe succedere“ e non come qualcosa che “è già successo”.
L’informazione non evidenzia qualcosa di terribile nell’attualità, ma evoca “qualcosa di orribile” minacciata anche per il futuro.
Come saggiamente propone Hillman, “la paura proietta conseguenze che potrebbero facilmente accadere e tuttavia potrebbero, al contrario, essere completamente immaginarie”.
Le considerazioni esposte non devono indurre a pensare che le insicurezze derivino da una manipolazione del potere, della psiche o dei media. In realtà sappiamo come si siano creati, nella società contemporanea, meccanismi violenti, in gran parte irrazionali e non legati a interessi specifici, che inquinano la convivenza civile.
Lo stato delle nostre città, quanto a sicurezza, provoca disagio diffuso, e, soprattutto, non offre soluzioni continuative e definitive, anche quando le istituzioni intendano porvi rimedio con particolare impegno.
Le città hanno modificato la loro consistenza. Anche in Italia, soprattutto nelle regioni più ricche del Centro Nord, stiamo lentamente sovrapponendo, alla tradizionale struttura di medie città e piccoli paesi, grandi contenitori territoriali in cui mal resiste l’antica identità storica e, invece, prevale la diffusione senza confini e senza ordine dei luoghi di residenza e la concentrazione di nuove polarità metropolitane in luoghi periferici, che addensano posti di lavoro e grandi flussi di consumatori.
La nuova identità di questi contenitori territoriali, che comprendono grandi città, anonime periferie residenziali, vecchi borghi, città di provincia e distretti industriali, si stempera mentre divengono l’unica amalgama i flussi quotidiani di pendolarismo, riguardanti anche in Italia quasi metà di tutti gli occupati.
In questi contenitori metropolitani si affollano grandi masse che hanno perso l’identificazione con i luoghi, con i valori e le tradizioni comuni.
Le metropoli diventano, quindi, sistemi di relazioni prevalentemente funzionali e sempre meno valoriali, inducono nei residenti una perdita di radicamento e nei nuovi arrivati un forte senso di spaesamento.
L’insicurezza metropolitana si manifesta, anche se con una contenuta crescita dei crimini, poiché la presenza della criminalità in ambito urbano – specie se organizzata o mafiosa – provoca danni alla qualità della convivenza, ben oltre i suoi effetti di vittimizzazione. La metropoli accresce la sua attrattività esaltando la sua principale caratteristica di essere luogo dell’incontro casuale, dell’imprevisto, della prossimità fisica di persone, gruppi, etnie diverse. L’accresciuto senso di insicurezza deriva da un cambiamento del modo in cui si ha paura. È l’individualizzazione delle paure a rendere ancora più angosciante la percezione del rischio derivante dalla criminalità urbana. L’ansia va gestita da soli, mentre in passato le grandi paure (povertà, disoccupazione, malattia, guerra nucleare) erano collettive.
La sicurezza diviene uno dei paradigmi per organizzare la vita quotidiana delle città. La vivibilità dipende anche dal livello di non accettazione degli atti anti-civici (gang, vandalismi, sporcizia, incuria degli spazi pubblici, spaccio), dalla presenza di capitale sociale (reti e relazioni comunitarie) e del capitale istituzionale (esercizio della forza, ma anche rispetto delle regole, formazione dei cittadini, fattori simbolici).
Gli interventi di controllo del territorio da parte dei responsabili professionali (Forze dell’ordine/operatori pubblici) sono fondamentali e riguardano:
- protezione territoriale, ossia la messa in sicurezza dei quartieri con il presidio delle Istituzioni;
- la visibilità allargata e la tele sorveglianza per il controllo a distanza;
- la riqualificazione dello spazio pubblico come riconquista permanente a funzioni di uso collettivo.
Tuttavia, senza un ruolo attivo dei cittadini, senza una condivisione di valori civici, senza sviluppare reti solidali, senza l’aiuto reciproco e una vita sociale di quartiere, le metropoli non ritroveranno maggiore sicurezza.
È necessario, in conclusione, interrogarsi, più in generale, sulle possibili uscite verso uno stato di più ordinaria e serena vita collettiva. Lo Stato deve diffondere convinzioni che superino le diffuse reazioni emotive; deve, in definitiva, delegittimare la paura. Vi può essere la tentazione di cavalcare i timori al fine di presentarsi come l’unico e vero protettore del cittadino. Non è un caso che le indagini di opinione segnalino come scambio ben accetto dai cittadini, l’avere maggiore sicurezza in cambio della limitazione alle libertà individuali.
In effetti, una tale tendenza può rivelarsi un boomerang, in quanto la messa sotto controllo dei numerosi fenomeni che creano panico non può avvenire al di fuori del coinvolgimento dei cittadini stessi.
Come è successo in occasione della grande crisi finanziaria, la rassicurazione viene dalla capacità di esercitare un controllo sui meccanismi fondativi, sulla trasparenza dei rapporti, sulle regole di convivenza. Se gli Stati non avessero immediatamente diffuso speranze e fiducia nella possibilità di limitare gli effetti negativi della crisi finanziaria, i rischi di una catastrofe economica sarebbero stati molto maggiori.
Quindi, ogni possibile uscita implica una complementarietà fra scelte individuali e prospettiva politica. Il superamento delle angosce, segnalate da una recente indagine Censis in dieci metropoli globali vede, quali più frequenti reazioni personali, l’imporsi di un atteggiamento positivo nella vita, il ricorso alla fede ma, anche, la ricerca di una gradevolezza nel proprio quotidiano.
Al tempo stesso l’incertezza, quella riverberata dalla grande comunicazione, o quella imposta da una violenza immotivata, può trovare uno sbocco positivo solo confermando i pilastri della democrazia e della libertà, del mercato regolato e della responsabilità individuale. Sono i valori positivi da contrapporre a chi, di fronte alla complessità del presente, rinuncia, anche con il terrorismo o con il suicidio, alla vita di questo mondo, ai suoi rischi, alle sue sfide, e non è in grado di sostituire credibili speranze.



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