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GNOSIS 3/2009
LA CULTURA

RECENSIONI

Il giornalista va alla guerra


di Alain Charbonnier

 
Raccontare la guerra in un mondo che cambia rapidamente è mestiere difficile, anche per il giornalista più navigato che, del “dare testimonianza”, ne ha fatto una professione.
Se poi il virtuale prevale sul reale, allora la “testimonianza” non conta più ed è sempre più complicato distinguere il vero dal falso, la notizia dalla fiction, l’avvenimento dallo spettacolo. Grande giornalista e grande narratore, con il suo “I Reporter di guerra” Mimmo Candito fonde insieme il racconto e le istruzioni per districarsi nell’”infotainement”, una mistura di informazione e spettacolo che oggi è diventato il reportage dai fronti di guerra.


Collana i Saggi - Baldini Castoldi Dalai Editore - 2009 (Pagg.698)



Raccontare la guerra è mestiere difficile. I libri di storia narrano di guerre e di battaglie in modo asettico, con la debita contabilità dei morti dall’una e dall’altra parte. Quasi mai, esistono rare eccezioni, si soffermano a considerare gli aspetti umani dell’immane carneficina. Maratona, Canne, Zama, Agincourt, Gerusalemme, Rocroi, Lepanto, Vienna, Austerlitz e Waterloo sono nomi di battaglie celebri, narrate nelle memorie e nei commentari dei condottieri, in qualche testimonianza lasciata dai combattenti acculturati, da scrivani che ascoltarono e trascrissero le narrazioni. Ci volle il conflitto Russo-Turco, nella seconda metà dell’800, con la spedizione in Crimea, per far scoprire ai giornali e ai giornalisti un nuovo mestiere: il reporter di guerra.
I Reporter di guerra”, collana I Saggi, Baldini Castoldi Dalai editore, è il titolo della edizione aggiornata e arricchita di un libro di Mimmo Candito, inviato speciale de La Stampa, docente di “Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico” all’Università di Torino. Seicentonovantotto pagine ricche di racconti, aneddoti, retroscena, storie, scoop clamorosi e mancati, imprese e misfatti degli “inviati” sui fronti di guerra. Si apre con l’Afghanistan e si chiude con l’Iraq, il lungo percorso che abbraccia 140 anni di conflitti in ogni parte del mondo raccontati dai giornalisti, anche quando non li hanno visti. In un secolo e mezzo tante cose sono cambiate: l’“arte della guerra” come sistema del comunicare. Così agli scannatoi degli assalti, alle trincee e alle barriere di filo spinato, durati fino alla metà degli anni cinquanta dello scorso secolo, si è, mano a mano, sostituita una guerra “tecnologica” fatta di coordinate matematiche, linguaggio binario, schermi verdognoli sui quali ballano numeri e figure. Ambienti asettici nei quali non ci sono emozioni, commozioni, perché le lacrime e il sangue sono sempre quelli degli altri.
Mimmo Candito, che ha fatto del “dare testimonianza” uno stile di vita, una professione, ha vissuto e vive l’evoluzione dell’informazione in tempo di guerra. Dal giorno in cui i “nuovi figurini”, come sir Garnet Wolseley definì i giornalisti inglesi inviati in Crimea, per la prima volta al seguito di un corpo di spedizione, agli “embedded” dei giorni nostri, ne è passata di acqua sotto i ponti. Con una differenza: gli inviati in Crimea videro molto di più degli “embedded” mandati con gli americani in Iraq. Di conseguenza, non è venuto meno il dovere di “dare testimonianza”, è semplicemente venuta meno la testimonianza. “Schiacciato da nuove egemonie – scrive Mimmo Candito – emarginato da gerarchie espressive che penalizzano il percorso della conoscenza e della riflessione, reso incerto da nuove tecnologie che gli forniscono aiuti preziosi di ricerca e di investigazione, ma tendono sempre più ad allontanarlo da un rapporto diretto con la “realtà” che deve o (dovrebbe) raccontare, il reporter, ma in assoluto il giornalismo, che sia di guerra o d’una delle sue altre forme di manifestazione, vive con la consapevolezza della sconfitta il suo necessitato rapporto con la lettura del mondo”.
Se Churchill diceva che in tempo di guerra la verità è troppo preziosa, per cui deve essere nascosta da una cortina di bugie, oggi manipolazioni e disinformazioni sono diventate una scienza. E le prime vittime, consapevoli o meno, sono proprio i giornalisti.
Così centinaia di troupe televisive, migliaia di reporter, con gli strumenti più avanzati della comunicazione satellitare, assaltano i teatri di guerra e alla fine il risultato che ne deriva può tradursi così: “ho visto poco, ho capito ancora meno”, come ha scritto un giovane corrispondente del New York Times.
L’invisibilità della guerra reale, raccontata però in modo virtuale da videoclip, accuratamente ripuliti e montati, e da una messe di comunicati, distribuiti a getto continuo dai comandi, fanno sì che alla fine il giornalista abbia l’impressione di aver visto tutto, mentre in realtà non ha visto e non sa nulla.
È così che la guerra diventa spettacolo, come scrive Howard Kurtz, mediologo del Washington Post: “A partire dal Vietnam, i pianificatori americani badano bene che una guerra non venga scatenata se prima non si è provveduto a preparare una struttura d’assorbimento di tutte le possibili richieste dei media”. “L’irrompere della televisione nel racconto della guerra – scrive Candito – ha modificato i contorni del nostro lavoro. La drammatizzazione è diventata lo specifico del racconto giornalistico, perché questo è lo specifico della comunicazione televisiva. La realtà ne viene sempre più rappresentata, ormai la sua presentazione non interessa. Assistiamo, oggi, alla messa in scena della cronaca, non più a una cronaca, e ne siamo tutti spettatori”.
Dal “dare testimonianza”, oggi il reporter di guerra rischia di diventare “strumento dell’azione militare”, con il coinvolgimento in un processo produttivo dell’informazione basato sulla fabbricazione del consenso.
“In Jugoslavia – scrive ancora Candito – accanto ai militari hanno operato grandi agenzie pubblicitarie americane; e nel Golfo, la macchina informativa del Pentagono aveva un obiettivo: cancellare la memoria del Vietnam e i morti e i feriti portati fin dentro il salotto di casa dal televisore”.
Recrimina Mimmo Candito: “Un tempo ci si poteva scontrare con il direttore per difendere il valore di una notizia (mi è accaduto per il massacro di Sabra e Chatila) che appariva schiacciata da presunzioni ideologiche, o valutata con trascuratezza. Quelle memorie oggi sono archeologia. Oggi le notizie sono anzitutto merce, e i direttori cedono alle mode del mercato, talvolta senza nemmeno tentare di contrastarle; molti si fanno subito conformisti. Però ancor più conformista si mostra la gran massa dei loro redattori, ormai massa anonima di lavoratori dell’informazione”. Chiosa Ryszard Kapuscinsky, grande inviato e uno dei più originali reporter di guerra: “Una volta il giornalismo era una missione, non una carriera”. Si potrebbe avere l’impressione che il libro di Mimmo Candito alla fine si riduca a una “memoria dei tempi andati”. Tutt’altro. Le storie che racconta, gli spunti di riflessione che propone, gli interrogativi che suscita sono di grande attualità. Capire i retroscena di certi reportage comparsi sui grandi giornali, mandati in onda dalle reti televisive di tutto il mondo, significa discernere fra informazione manipolata e informazione quanto più possibile aderente alla realtà, raccontata da chi c’era e ha visto e per esserci e vedere ha rischiato di farsi ammazzare, quando la vita non se l’è giocata davvero.
“O la guerra la vedi con i tuoi occhi, oppure è meglio che te ne vai a casa”. È la lapidaria consegna di un grande giornalista, Ettore Mo, inviato speciale del Corriere della Sera, che di guerre ne ha viste e raccontate anche troppe.
In tempi di comunicazione “in tempo reale”, con il telefono cellulare e satellitare che trasforma tutti in catturatori di immagini, con Internet che consente di arrivare in rete due secondi dopo che un fatto è stato registrato, con i giornali e le televisioni on line sempre affamati di aggiornamenti, sbiadisce la figura del giornalista come “mediatore” fra la notizia, il fatto, e il lettore o il telespettatore. Il suo ruolo viene meno nel momento stesso in cui la tecnologia trasforma tutti in potenziali giornalisti, al tempo stesso fornitori e fruitori della notizia.
Non trascura questo aspetto Mimmo Candito, dopo aver raccontato di Max David e Luigi Barzini, di Ettore Mo ed Egisto Corradi, di Maria Grazia Cutuli e Ilaria Alpi, cadute sul fronte dell’informazione, come Robert Capa e Rory Peck. “Siamo in chiusura di partita – scrive – La deregulation della comunicazione non accetta i ritmi produttivi della stampa scritta: oggi il metodo di lavoro basato sulla ricostruzione accurata dei fatti – che era lo “specifico” dei giornali – è stato accantonato e declassato. Ormai la futilità del messaggio – e la sua rapidità – prevale decisamente sulla qualità dei contenuti”.
Si sta attuando, avverte Candito, una scissione fra mondo reale, mondo virtuale e la fantasia, anzi l’illusione della realtà, va imponendosi sulla realtà.
Un libro di storie raccontate, ma anche un testo di lavoro per i nuovi giornalisti e per chiunque si trovi ad operare nell’informazione, nel senso più ampio del termine, “intelligence” compresa. Una guida attraverso i labirinti e le trappole che fondono insieme l’apparire e l’essere.



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