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GNOSIS 3/2009
Le risorse idriche ed i rapporti geopolitici

Le guerre per l'acqua


Gianluca ANSALONE


L'impoverimento delle risorse idriche a causa dell'inquinamento, dello sfruttamento sconsiderato, dei cambiamenti climatici, delinea prospettive allarmanti di nuovi conflitti in un futuro non lontano.
Un pericolo già presente in Medio Oriente, per il bacino del Tigri-Eufrate, a causa della disparità di impiego e di sfruttamento da parte della Turchia, rispetto a Siria e Iraq.
Ma disinnescare questi rischi è possibile, rileva Gianluca Ansalone, cominciando a considerare l'acqua un bene che deve avere un mercato, e quindi un prezzo, legato alla quantità disponibile. Ciò comporterebbe non soltanto risparmi idrici in agricoltura, ma anche un dirottamento degli impieghi verso usi domestici e attività produttive industriali.



Premessa

L’acqua è da sempre una risorsa strategica. Da essa dipende la vita degli esseri umani, ma anche la sopravvivenza e lo sviluppo dei commerci, l’incontro tra popoli e culture, l’ascesa o il declino degli Imperi.
Nel prossimo decennio, secondo numerosi rapporti delle più autorevoli Organizzazioni Internazionali e dei centri di ricerca, la causa più probabile dello scoppio di un conflitto tra Stati sarà il controllo dell’acqua. E questo perché, a fronte della crescita costante della popolazione mondiale, soprattutto in aree quali il Sud dell’Asia o il Medio Oriente, le risorse di acqua vanno deteriorandosi, a causa dell’accresciuto inquinamento, del cambiamento climatico su vasta scala, della scarsa attenzione per un efficace risparmio idrico, un fenomeno, quello dello “stress idrico”. che ha un impatto diretto sulla vita delle persone e degli Stati.
Si calcola che circa 1,3 miliardi di persone sul pianeta oggi debbano affrontare difficoltà di accesso all’acqua potabile. Difficoltà che, a volte, sono letali e che determinano una nefasta contabilità: sono 2,3 milioni le vittime dell’utilizzo di acqua contaminata, soprattutto tra i più piccoli.
La crescita demografica riguarda da vicino, soprattutto, le zone già aride o semi-aride del pianeta, nelle quali l’assenza di infrastrutture idriche adeguate o di una politica di allocazione razionale crea una naturale competizione per l’accesso all’acqua. È già ben presente l’allarme per la minaccia di una migrazione planetaria massiccia dovuta alla penuria d’acqua, che potrebbe arrivare ad interessare un miliardo di persone nel prossimo ventennio.


Dalle persone agli Stati


L’affermazione della sovranità sui corsi d’acqua rimane ancora oggi, nel mondo dell’economia globalizzata, l’espressione più forte e autorevole della sovranità statuale, intesa come controllo legittimo di un territorio e dello sfruttamento delle sue risorse. E nessuna risorsa come l’acqua è in grado di alimentare tensioni o di garantire uno sviluppo armonioso tra Paesi e tra comunità di uomini.
La nascita dello Stato moderno, come monopolio legittimo ed organizzato della forza, ha la sua matrice di territorialità e di sovranità nell’ordine che seguì la Guerra dei Trent’Anni e lo snodo politico-diplomatico del Trattato di Westphalia .
Se comunemente con il termine globalizzazione si intende denotare il progressivo logoramento della sovranità statuale, della sua consistenza e della sua matrice territoriale a seguito della interconnessione crescente tra fenomeni e la moltiplicazione di flussi transnazionali, con il Trattato di Westphalia si aprì convenzionalmente l’era moderna degli Stati nazionali. Lo Stato, o meglio gli Stati, sono da quel momento i regolatori supremi della vita economica, sociale e culturale delle comunità, ivi incluse delle loro pratiche confessionali, come misura per prevenire e scongiurare il pericolo di conflitti di matrice religiosa che avevano per un trentennio insanguinato il Continente europeo. Lo Stato è anche l’esclusivo beneficiario del controllo e dello sfruttamento delle risorse naturali, dei suoli e delle aree marittime, sulla base delle rispettive competenze tecniche e territoriali.
Il modello che si afferma a partire dalla metà del XVII secolo è, quindi, un modello di sovranità esclusiva sulle risorse naturali.
A poco più di un cinquantennio da quella data, si ha notizia della convocazione dei primi Tribunali per l’acqua, assise formali riunite come organismi super partes in Olanda, Spagna, Belgio e Scozia per la risoluzione di controversie di frontiera, sulla ripartizione di acque condivise e per la determinazione della sovranità sui corsi fluviali navigabili. Peraltro, un Codice per l’acqua era già stato redatto nell’Egitto dei Faraoni, così come esistevano piccole “Corti d’Arbitrato” locali nell’Impero romano.
L’ecopolitica, ovvero la governance geopolitica e strategica delle risorse naturali, è sempre stata un dossier sensibile e vulnerabile per la gestione del potere degli Imperi. Anche nell’ultimo tra gli imperi territoriali in ordine cronologico, l’Unione Sovietica, si sono registrati numerosi casi di rivolta contro i Soviet locali per la cattiva gestione delle risorse naturali, in particolare quelle d’acqua.
Con la crescente sensibilità ecologica a livello internazionale, a partire dagli anni ’60 del XX secolo, è cresciuta anche la pressione sui Governi per la ricerca di un modello di gestione sostenibile delle risorse naturali e per un loro impiego razionale e coerente con le esigenze di sviluppo economico e di sostentamento umano.
Il “modello Kyoto” rappresenta il superamento della gestione solo nazionale di questa sovranità ed afferma il principio della condivisione degli oneri e delle responsabilità rispetto all’utilizzo delle risorse ambientali e al cosiddetto “stress ecologico”. Come l’ecologia, sono numerosi i comparti nei quali la globalizzazione ha spinto alla cessione della sovranità, al logoramento delle frontiere geografiche e all’avvio di pratiche comuni per la realizzazione di “politiche di scala”.
L’emissione di gas CO2, o “serra”, rappresenta il primo volano di test per una responsabilizzazione dei governi verso la tutela dell’ambiente. In un’ottica pangetica, l’impiego intensivo delle risorse è condizione per una penalizzazione virtuale dei Governi, che si traduce in un mancato investimento per il futuro.
Rispetto a queste dinamiche, l’acqua mantiene invece inalterate le caratteristiche di sovranità concorrente tra Governi e di concorrenza interna rispetto all’impiego delle risorse.
Nei Paesi emergenti, l’agricoltura continua a consumare oltre il 90% dell’acqua disponibile, quota che si riduce al 60% nel mondo occidentale. Ne consegue una disponibilità di un quinto delle risorse per impieghi industriali e un residuo 10% per utilizzo domestico e sanitario.
L’acqua, fonte di vita e di conflitti, è l’ultimo elemento di un sistema-Westphalia che la globalizzazione non riesce a condurre fuori dalla corsa concorrenziale tra Governi.


Geopolitica dell’acqua

Al mondo esistono numerosi bacini idrici condivisi, ovvero corsi d’acqua dolce che hanno origine all’interno dei confini geografici di un Paese e che sviluppano il loro percorso o terminano all’interno dei confini di un altro Stato. La contiguità o la prospicienza rispetto a tali bacini sono criteri riconosciuti dal diritto internazionale, che codifica il richiamo alla buona condotta di impiego da parte dei cosiddetti “rivieraschi di alto corso”, Paesi nel cui territorio ha origine un bacino o un fiume internazionale.
Il numero di bacini internazionali è cresciuto nel corso degli anni, come conseguenza soprattutto della polverizzazione dell’ex Unione Sovietica e della ex Jugoslavia. Nel 1978 se ne contavano 214; oggi ne esistono 243. Le implicazioni di tale interdipendenza si realizzano già in rapporto al numero di Paesi che vantano diritti su questi bacini, ben 145, pari al 90% della popolazione mondiale. Più di 30 Paesi al mondo si trovano in bacini idrici transfrontalieri (transboundary basins).
La capacità di reclamare o esercitare diritti sui fiumi transfrontalieri da parte dei rivieraschi è direttamente proporzionale a tre fattori:
- la posizione geografica: per la quale gli Stati di alto corso possono influenzare con le loro modalità di impiego delle risorse la portata o la qualità dell’acqua nelle disponibilità degli altri rivieraschi;
- la politica di impiego dell’acqua: la cattiva gestione o il cattivo impiego delle risorse possono deteriorare la qualità dell’intero bacino in maniera più che proporzionale rispetto all’effettiva quota di sfruttamento da parte di uno dei rivieraschi;
- la naturale variabilità: per la quale le ricadute di fattori esogeni naturali (porosità delle falde, piovosità, stratificazione…) o non (inquinamento, scarichi…) possono determinare cambiamenti duraturi sui corsi d’acqua.
La conflittualità che deriva dalla sovrapposizione, dall’intreccio o dalla commistione di questi tre fattori si è già dimostrata essere particolarmente virulenta e rischia di essere dirompente nell’immediato futuro.
Un tipico esempio di conflittualità indotta dal fattore geografico è quello del bacino del Tigri-Eufrate, caratterizzato da una palese disparità di impiego e di sfruttamento da parte della Turchia, rispetto agli altri due rivieraschi, Siria e Iraq. A volte il fattore geografico, da solo, non è sufficiente a determinare il coefficiente strategico di controllo sulle risorse idriche di un Paese. È il caso dell’Egitto, che grazie al sistema di dighe di Assuan è in grado di gestire il flusso del Nilo in maniera più che proporzionale rispetto alla propria posizione geografica, alla foce dello storico fiume; gli altri rivieraschi, dal Sudan ai Paesi della regione dei Grandi Laghi, non hanno sistemi e tecnologie di sbarramento, sfruttamento intensivo o deviazione delle acque.
La cattiva gestione delle acque da parte di uno dei rivieraschi può comportare il deterioramento della qualità dell’intero bacino, con ricadute sull’impiego o sulle capacità di sfruttamento degli altri Paesi. Si pensi al sistema del lago Aral, per il quale la comunità internazionale ha lanciato numerosi allarmi riguardo ad una progressiva recessione delle acque e al crescente inquinamento. Ma anche al bacino del Mekong in Asia o al Danubio, ormai tra i fiumi internazionali più inquinati al mondo.
Infine, la variabilità dei fattori naturali ha un impatto diretto sulla capacità di portata dei bacini e sulla conseguente capacità di impiego delle acque da parte dei Governi. È il caso del fiume Zambesi in Africa, del Giordano in Medio Oriente o del sistema del Rio de la Plata in Sud America.


L’acqua nel Vicino e Medio Oriente

Tra le regioni che subiranno presto gli effetti di un elevato stress idrico, il Medio Oriente spicca per pericolosità e per le implicazioni strategiche che una guerra per l’acqua potrebbe avere. Di più, in Medio Oriente l’acqua è essa stessa un fattore strategico, in grado di scatenare una competizione già elevata, a causa di dinamiche geopolitiche, religiose, militari.
Il sistema del Tigri-Eufrate, il Giordano e il Nilo sono casi storici e nodi strategici di una spiccata conflittualità idro-geopolitica che, come ebbe ad ammonire l’ex Segretario Generale dell’ONU Boutros Boutros- Ghali, possono condurre ad una guerra aperta. Non è un caso che questi tre bacini si trovino nel Vicino e Medio Oriente, dove le dispute legate all’acqua si intrecciano con uno scenario di forte instabilità regionale. L’acqua è a volte al centro di queste tensioni, a volte ne subisce gli schemi di ricatto e di veto incrociato tra le parti.
La situazione idrica in Medio Oriente è andata deteriorandosi negli ultimi decenni, a causa dell’alto tasso di crescita della popolazione. La moltiplicazione dei bisogni ha determinato una crescente competizione tra settori economici in termini di accesso alle risorse, alimentando la conflittualità sociale ed interstatale (1) .
Dando per scontata la divisione del mondo in Stati-nazione e quindi in aree di giurisdizione esclusiva, è possibile definire tre diversi livelli di inefficiente distribuzione dell’acqua: quello globale, quello regionale e quello domestico (2) .
Il livello globale della distribuzione dipende evidentemente dalle differenti zone climatiche della terra.
La cattiva distribuzione a livello regionale è un tratto comune di quelle zone aride o semi-aride del pianeta in cui le risorse d’acqua sono concentrate nei territori di uno o più Stati.
Il livello domestico riguarda l’allocazione interna delle risorse idriche, spesso problematica o inefficiente per la mancanza di know-how tecnico o per errate scelte politiche.
In Medio Oriente, questi tre livelli di inefficienza convivono. E ciò che complica ancor di più la situazione è il fatto che i più importanti corsi d’acqua superficiali attraversano il territorio di più di uno Stato.
Le politiche idriche vanno di solito in funzione del livello di sviluppo economico. Nei Paesi più avanzati del pianeta tali politiche hanno subìto negli ultimi anni una profonda evoluzione, passando da una gestione quantitativa dell’acqua ad una qualitativa (3) . In Medio Oriente e in generale nelle regioni aride o semi-aride del mondo, una gestione più accorta delle risorse d’acqua stenta ad affermarsi in ragione dell’urgenza dei bisogni e delle molteplici pressioni cui il settore idrico è sottoposto.
In questi Paesi l’acqua appartiene allo Stato, che si occupa del trattamento e della distribuzione attraverso organismi pubblici.



Il bacino del Tigri-Eufrate

Nel caso dei bacini idrici internazionali, la conflittualità (latente o manifesta) è inevitabile nella misura in cui gli Stati rivieraschi di corso superiore intraprendono azioni capaci di inficiare lo sfruttamento delle acque da parte degli altri rivieraschi. Tale conflittualità è spesso esasperata dal fatto che non esiste alcun meccanismo istituzionale di consultazione o coordinamento, né alcun corpus giuridico che regoli la spartizione o l’utilizzo delle risorse idriche comuni a più paesi (4) .
Tale assenza di coordinamento (soprattutto in Medio Oriente) è imputabile innanzitutto alla mancanza di fiducia politica reciproca; in questa situazione è chiaro che l’acqua funziona da deterrente politico.
I principali bacini idrici della regione (il Giordano, il Tigri - Eufrate e il Nilo) rappresentano le diverse facce della stessa guerra dell’acqua. In tutti e tre i casi un solo Stato ha assunto il ruolo di attore egemone: Israele, la Turchia e l’Egitto, rispettivamente, operano nella convinzione che i loro bisogni e i loro diritti di Stati più uguali degli altri diano loro la precedenza rispetto agli altri rivieraschi.
Il bacino idrico del Tigri - Eufrate interessa fondamentalmente quattro Paesi: la Turchia, la Siria, l’Iraq e l’Iran (5) . La competizione per lo sfruttamento delle risorse idriche riguarda però soltanto i primi tre attori.
Negli ultimi dieci anni, la turbolenza geopolitica che ha interessato la Siria e, soprattutto, l’Iraq ha di fatto lasciato campo libero alla Turchia e ai suoi piani di egemonia idrica sul sistema dei due fiumi.
Il progetto più importante finora elaborato è il progetto turco GAP (Guneydogu Anadolu Projesi) che riguarda lo sviluppo agricolo e industriale della regione sud-est della Turchia, attraverso la costruzione di dighe e di bacini idrici artificiali. La Turchia, in qualità di rivierasco di corso superiore sta esercitando ciò che i politici di Ankara hanno sempre affermato essere “il diritto sovrano di sfruttare le risorse idriche nel proprio territorio” (6) , un diritto che storicamente gli altri rivieraschi hanno contestato.
Il progetto GAP prevede la costruzione di 22 dighe, 19 stazioni di generazione idroelettrica ed un network di irrigazione che dovrebbe dare copertura ad un’area di 1,7 milioni di ettari. Il costo totale previsto è di 32 miliardi di dollari.
Il progetto investe un’area complessiva di 75.000 km quadrati, quasi il 9.5% della superficie totale del Paese. Circa 6 milioni di persone vivono in quell’area, di cui soltanto il 9% è costituito da Turchi, mentre la parte restante è composta soprattutto da Curdi e da altre minoranze. A programma terminato, l’area irrigabile passerà dall’attuale 2,9% della superficie totale al 22,8%.


Il Nilo

Il Nilo e l’insieme dei suoi affluenti sono condivisi da nove Paesi con diversi livelli di sviluppo sociale ed economico e che avanzano pretese spesso incompatibili sul fiume (7) .
L’Egitto e il Sudan sono i principali consumatori delle acque del Nilo (8) . L’Egitto non contribuisce alla portata del fiume non disponendo di nessuna sorgente d’acqua, ma essendo il Paese con la più ampia popolazione nella regione, ne sfrutta in assoluto la quota più rilevante.
Il Paese è anche l’entità politicamente più forte economicamente e militarmente. La sostenibilità economica di lungo periodo dell’Egitto dipende strettamente dalla gestione cooperativa delle acque del Nilo, ma tale processo di convergenza è frenato dalla guerra civile in Sudan e dalla instabilità nel Corno d’Africa (9) .
Il Nilo è formato da due tributari principali: il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro. Le sorgenti del Nilo Bianco si trovano nelle alture orientali del Burundi. Le sorgenti del Nilo Azzurro invece sono nella regione del lago Tana, nel nord-est dell’Etiopia. I due fiumi convergono nella capitale sudanese Khartoum. Il più importante affluente del Nilo nel tratto inferiore del suo corso è il fiume Atbara; dopo la confluenza con l’Atbara, il Nilo non riceve più acqua e scorre direttamente in Egitto per poi sfociare nel Mediterraneo.
La crescita della popolazione, i consumi energetici, l’espansione dell’agricoltura, creeranno degli stress enormi nei prossimi anni sulla disponibilità di acqua, con l’aggravante che alcuni rivieraschi del Nilo sono tra i Paesi più poveri al mondo. Inoltre, la maggioranza di tali Paesi è sconvolta da guerre civili o scontri di frontiera. In quest’area, più che in altre, la gestione ottimale dell’acqua passa necessariamente attraverso una stabilizzazione della situazione politica.
Al di là della condivisione delle acque del Nilo, poco accomuna questi Paesi. L’estrema eterogeneità, accoppiata al bisogno egiziano di sicurezza, ha reso fino a questo momento piuttosto difficoltose le trattative per giungere ad un accordo di cooperazione.
La Gran Bretagna, in qualità di potenza coloniale, cercò per prima di tutelare i diritti storici egiziani e la priorità del Cairo nell’utilizzo delle acque del Nilo. Il Trattato anglo–italiano del 1891 sulla spartizione delle sfere di influenza in Africa orientale, prevedeva che nessun tipo di progetto dovesse essere implementato nell’area del fiume Atbara che in qualche modo potesse modificare il corso e la portata del Nilo. Nel Trattato anglo–etiope del 1902, Addis Abeba accettava di non intraprendere progetti idraulici sul Nilo Azzurro, sul lago Tana o sul fiume Sobat.
In uno scambio di note con il governo di Sua Maestà, datato 1925, le autorità italiane accettarono di non intraprendere alcun progetto sui corsi superiori del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro, riconoscendo la sovranità sui due fiumi dell’Egitto e del Sudan anglo – egiziano. In un accordo del 1906, l’amministrazione del Congo belga si impegnò a non inficiare l’integrità del Lago Albert senza il consenso del Sudan.
L’accordo sulle acque del Nilo del 1929 tra l’Egitto e la Gran Bretagna (10) assicurava al Cairo una portata costante nel periodo gennaio – luglio e, soprattutto, attribuiva al governo egiziano un potere di veto e di monitoraggio su tutti i possibili progetti pianificati dagli altri rivieraschi.
L’accordo più rilevante per la spartizione del Nilo resta quello del 1959, sulla base del quale la portata del fiume deve essere di 84 km cubi ad Assuan; la diga omonima, sulla base del trattato, sarebbe stata completata al più presto (dopo lo stop della crisi di tre anni prima), mentre il Sudan avrebbe potuto costruire una diga a Roseires. In quell’occasione venne anche istituita una Commissione Tecnica Interparlamentare tra i due Paesi (11) .
Un’altra Commissione tecnica, questa volta più allargata, venne istituita da tutti i Paesi rivieraschi (tranne l’Etiopia) nel 1967. Nel 1978, Tanzania, Ruanda e Burundi dettero vita alla Organizzazione per lo Sviluppo del Bacino di Kagera, a cui si associò anche l’Uganda nel 1981.
Il cosiddetto gruppo di “Undugu” (parola che in Swahili significa “fratellanza”), che una volta ancora includeva tutti gli stati rivieraschi tranne l’Etiopia, venne costituito nel 1983 sotto gli auspici dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA), incontrandosi regolarmente e scambiandosi informazioni sull’idrologia delle diverse aree e sulla possibilità di connettere le varie griglie elettriche.


Il Giordano

Il bacino del Giordano è una valle che si estende dal Monte Hermon a nord, fino al Mar Morto a sud. L’area complessiva del bacino interessa Israele, Siria, Giordania, Libano e Cisgiordania.
Il Giordano ha le sue sorgenti alle pendici del Monte Hermon da cui si originano tre rami: il Dan, l’Hasbani e il Banias che hanno il loro punto di confluenza a circa 25 km a nord del lago Tiberiade. Il fiume scorre nella parte settentrionale di Israele, attraversa il lago Huleh e, subito dopo, il lago Tiberiade.
Anche lo Yarmouk fa parte di questo bacino idrico; esso segna il confine tra la Siria e la Giordania per circa 40 km e in seguito quello tra Israele e la Giordania.
La Cisgiordania ospita soprattutto tre bacini di acqua sotterranea (i cosiddetti Mountain Aquifers) di grande importanza geopolitica, e contesi tra Israele (che attualmente ne sfrutta buona parte del rendimento idrico attraverso un sistema di pozzi) e l’Autorità Palestinese. I bacini si trovano esattamente sotto le colline della Giudea e della Samaria, mentre i pozzi di accumulazione si trovano proprio sulla Green Line tra Israele e Cisgiordania.
In seguito ai negoziati di Madrid del 1991, si dette vita ad un Working Group multilaterale sulle questioni relative all’acqua. Il Forum è tuttora in vita, ma ha una scarsa o nulla capacità di incidenza. Fanno parte del forum anche gli USA, la Francia, la Norvegia, la Germania, il Giappone, la Banca Mondiale e molte ONG.
A livello bilaterale, l’evento più importante di questi ultimi anni in materia di risorse idriche è rappresentato dall’accordo di Pace tra Israele e Giordania del 26 ottobre 1994. All’art.6 si parla esplicitamente della volontà dei due Paesi di cooperare in materia di gestione idrica, con progetti comuni e interventi per migliorare la qualità delle acque.
Per poter convergere verso le previsioni del Trattato, la Giordania ha completato la costruzione di un acquedotto (il King Abdallah Canal) dal lago Tiberiade ad Amman; l’acquedotto ha una capacità di 90 milioni di metri cubi l’anno.
La Dichiarazione di Principi (DOP), di solito individuata come accordo “Oslo I”, venne firmata dall’OLP e da Israele il 3 settembre del 1993. In questo accordo, si parlava anche di acqua e di pacifica condivisione delle risorse a disposizione. Da un punto di vista giuridico, la difficoltà più grossa risiedeva nel fatto che, sulla base delle Regole di Helsinki e della Convenzione delle Nazioni Unite del 1997, i Palestinesi dovrebbero essere riconosciuti come rivieraschi del bacino del Giordano; uno status però che non è mai stato riconosciuto dagli Israeliani.
Prima ancora della nascita dello Stato ebraico, nel 1944, il piano Lowdermilk, appoggiato dall’Organizzazione Sionista Mondiale, prevedeva lo sfruttamento delle acque del Giordano e del Litani per irrigare i terreni dei primi coloni ebrei in Palestina.
Il piano elaborato nel 1952 dalla UNRWA (United Nations Relief and Work Agency) aveva come referenti Siria e Giordania: esso proponeva la costruzione di una prima diga sullo Yarmouk e di un’altra diga per dirottare le acque dello stesso fiume nelle valli giordane attraverso il canale East Ghor. Nel 1953, Siria e Giordania conclusero un accordo per la spartizione delle acque dello Yarmouk, accordo osteggiato da Israele.
Lo sforzo più concreto per trovare una posizione comune venne compiuto tra il 1953 e il 1955 dall’ambasciatore americano Eric Johnston, braccio destro del Segretario di Stato Foster Dulles e uomo di fiducia del Presidente Eisenhower. Il Piano Johnston prevedeva una ripartizione in quote di utilizzo per i Paesi che avevano accesso al lago Tiberiade. Alcune dighe sarebbero state costruite sia sull’Hasbani, che sul Dan e sul Banias per irrigare la Galilea israeliana, sia a Maqarin, per servire i bisogni idrici della Giordania. L’obiettivo della mediazione di Johnston era quello di rendere l’utilizzo delle acque equo, economico ed efficiente. Il Piano venne accettato in linea di massima dalle delegazioni tecniche delle parti in causa, ma non venne poi ratificato né dal governo israeliano né dal Consiglio della Lega Araba. Alla base della bocciatura ci furono essenzialmente ragioni politiche: la maggioranza dei Paesi della Lega non riconosceva, infatti, l’esistenza di Israele.
Il piano Johnston fallì. I Paesi arabi avevano capito che la road map di aggiustamento delle risorse idriche doveva avere una natura squisitamente politica, ma erano preoccupati dal fatto che gli Stati Uniti avessero promesso ad Israele garanzie assolute di frontiera se avesse accettato il Piano e fatto quindi alcune concessioni alla Giordania in termini di fornitura d’acqua. Acqua contro territorio e riconoscimento politico, quindi.
Negli anni ’60 furono gli ingegneri a prendere il sopravvento sui politici. La Giordania completò il cosiddetto canale King Abdallah, mentre Israele portò a termine l’ambizioso progetto di un acquedotto nazionale (il National Water Carrier, ultimato nel 1964); entrambi i Paesi ricevettero forti aiuti finanziari da Washington.
Nel 1967 la situazione divenne particolarmente complessa: la Siria, sostenuta da Nasser, adottò un Piano di Diversione delle Acque, il cui obiettivo era quello di dirottare le acque dell’Hasbani e del Banias fino al corso principale dello Yarmouk, riducendo di conseguenza la portata del Giordano del 35%. Le prime installazioni nell’area della deviazione vennero fatte saltare dai servizi segreti israeliani nell’aprile 1967, appena due mesi prima dello scoppio della Guerra dei Sei Giorni.


Soluzione politica o tecnica per scongiurare le guerre dell’acqua?

Il Medio Oriente, la cui popolazione sta crescendo a tassi vertiginosi, conoscerà ben presto un’assoluta penuria d’acqua se i metodi usati in agricoltura e le attuali carenze nella gestione delle risorse non vengono alterati (12) .
Al momento, i governi dei Paesi interessati non sembrano capaci di attuare una svolta significativa in questo senso: ciò sia a causa delle resistenze della società nel vedere prezzata l’acqua, sia per l’impopolarità che una tale misura avrebbe a livello politico, trascinando con sé il sostegno della popolazione ai governi (13) . A queste condizioni, l’unica soluzione per questi Stati è trovare nuove fonti d’acqua.
Oggi la ricerca scientifica è in grado di sfruttare la tecnologia per alleviare le carenze idriche sia con metodi convenzionali sia con soluzioni non convenzionali (14) .
Tra questi la costruzione di impianti di dissalazione, procedimenti di cloud seeding o il trasferimento di acqua attraverso sistemi di canalizzazione o acquedotti (15) .
Il problema delle risorse idriche può anche essere affrontato con un approccio economico, che guarda all’acqua come ad un bene che deve avere un mercato, e quindi un prezzo legato alla quantità disponibile. Ciò comporterebbe non solo il risparmio in agricoltura, ma anche un dirottamento degli impieghi verso gli usi domestici e le attività produttive industriali.
Una corretta gestione dell’acqua ha bisogno di un intervento congiunto tanto sul piano dell’offerta (dissalazione, importazione dell’acqua, riciclaggio delle acque usate) quanto su quello della domanda (risparmio delle risorse, differenziazione negli utilizzi). I governi mediorientali devono porre al vertice dell’agenda politica la questione della riallocazione delle risorse idriche dall’agricoltura (che consuma in alcuni casi fino al 90% dell’acqua disponibile contribuendo in maniera sempre più esigua al PIL nazionale) ai settori industriali e di impiego domestico. Ciò consentirebbe un investimento economicamente proficuo delle risorse d’acqua con potenziali vantaggi per lo sviluppo e la crescita sociale.
Una gestione razionale delle risorse idriche (legata alla domanda) consta di tre aspetti fondamentali (16) :
- gestire la competizione tra le domande che provengono dai diversi gruppi sociali per attuare una politica di allocazione percepita come equa;
- facilitare l’ingresso e l’applicazione di nuove tecnologie (cosa che favorisce l’efficienza nell’utilizzo dell’acqua);
- promuovere i cambiamenti politici e socio–economici, che consentono di raggiungere una maggiore efficienza allocativa.


(1) Per inquadrare il problema forniremo alcuni dati: l’acqua copre circa il 70% della superficie mondiale. Il 97% di quest’acqua è inutilizzabile perché salata; del rimanente 3% soltanto lo 0,4% è effettivamente disponibile, poiché il resto si trova nei ghiacciai, nell’atmosfera o nel sottosuolo a profondità irraggiungibili. E della quota utilizzabile, meno dell’1% si trova in Medio Oriente. Cfr. World Bank, World Development Report, New York, Oxford University Press, 1997.
(2) Cfr. H. I. Shuval, La Guerre de l’Eau: Une Approche pour Résoudre les Conflits Liés à l’Approvisionnement en Eau, Les Cahiers de l’Orient, in: www.sfiedi.fr/cahiers/Cah506.html
(3) Cfr. E. Ferragina (a cura di), L’Acqua nei Paesi Mediterranei - Problemi di Gestione di una Risorsa Scarsa, Bologna, Il Mulino, 1998.
(4) Cfr. J. A. Allan, Water, Peace and the Middle East: Negotiating Resources in the Jordan Basin, Londra, Tauris Publishers, 1996.
(5) Tecnicamente, anche l’Arabia Saudita farebbe parte del bacino, ma essa non ha alcun accesso naturale ai corsi dei due fiumi.
(6) Cfr. Ministero degli Affari Esteri turco, The Turkish National Policy for Utilizing the Waters of the Euphrates - Tigris Basin
(7) I Paesi in questione sono: Egitto, Sudan, Uganda, Kenya, Tanzania, Ruanda, Burundi e Congo - Kinshasa (ex Zaire).
(8) La popolazione egiziana, nel 2010, sarà di 70 milioni e già adesso il Cairo è una delle capitali più popolose al mondo. Cfr. FAO, Water Resources of the Near East Region: A Review, Roma, FAO, Aquastat, 1997.
(9) L’unico accordo relativo al Nilo attualmente in vigore è il Trattato bilaterale del 1959 concluso tra Egitto e Sudan.
(10) Che rappresentava il Sudan, il Kenya e il Tanganika.
(11) P. P. Howell e J. A. Allan, The Nile, Sharing a Scarce Resource, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.
(12) Si veda inoltre FAO, Aquistat, op. cit.
(13) Cfr. T. F. Homer-Dixon, Environmental Scarcities and Violent Conflict: Evidence from Cases, International Security, vol. 19, no.1, 1994.
(14) Tra queste ultime figurano sistemi di intrappolamento dell’acqua, più funzionali metodi di risparmio in agricoltura, etc. Cfr. Soffer, op. cit., pag. 236.
(15) Come accade oggi per il petrolio.
(16) Cfr. L. Ohlsson, Environment, Scarcity and Conflict: a Study of Malthusian Concerns, Goteborg, Goteborg University, 1999, pag. 189.

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