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GNOSIS 3/2009
Etnie, talebani, signori della guerra e campi d'oppio


Afghanistan
si può ancora vincere?





Sun-tzu, Generale e stratega vissuto presumibilmente tra il VI e V secolo a.C. in Cina, ha scritto che in qualsiasi conflitto i termini di riferimento sono due, se stessi e gli altri.
Le conseguenze che ne derivano sono: si conoscono entrambi i termini e allora sarà facile prevalere in ogni circostanza; si conosce solo uno dei due termini, se stessi ma non gli altri, e allora si andrà incontro a successi e/o insuccessi con pari possibilità; non si conosce nessuno dei due termini e allora, indipendentemente dalla consistenza delle proprie forze o dalle situazioni ambientali, si sarà sconfitti.
(Foto Ansa)



Gli 'agguerriti afghani'

Nel 1749 Ahmad Shah Durrani strappò definitivamente Herat e il suo territorio all’Impero persiano creando il moderno Stato afghano. Il primo conflitto con gli inglesi per il controllo di Kabul risale al 1839-1842 con la completa disfatta del contingente britannico. La clamorosa sconfitta è ricordata ancora oggi come esempio della determinazione di quel popolo contro ogni occupazione straniera. La seconda guerra anglo-afghana (1878-1880) terminò con l’accettazione di un protettorato britannico sull’Afghanistan ma solo in politica estera. Durante il XIX secolo il Paese fu pertanto al centro del “Grande gioco” tra Russia e Gran Bretagna per il controllo dell’Asia centrale. Nel 1919, approfittando degli sconvolgimenti internazionali seguiti alla fine del primo conflitto mondiale, l’emiro Amanullah Khan mise in discussione gli accordi esistenti ed attaccò l’impero britannico.
Gli inglesi, stanchi della guerra, rinunciarono ad ogni ingerenza sull’Afghanistan che tornò così completamente indipendente. Amanullah si proclamò re degli afghani, abolendo l’emirato ed avviando un processo riformatore simile a quello di Kemal Ataturk in Turchia. A seguito del fallimento di quest’ambizioso progetto Amanullah fu costretto ad abdicare (1929) lasciando il regno, dopo alcuni anni d’instabilità, a Nadir Khan già suo Capo di Stato Maggiore.
Questi fu assassinato nel 1933 ed al suo posto salì al trono il figlio, Zahir Shah. Nel 1947 ci furono tensioni e scontri con il neonato Pakistan per il riconoscimento dei confini, la “linea Durand”, che separa tuttora il conteso Pashtunistan. La monarchia entrò in crisi alla fine degli anni ’60 a causa di una prolungata carestia che colpì le campagne. Il Governo centrale fece poco o nulla per porvi rimedio consentendo così, nel 1973, all’ex Primo Ministro Muhammad Daud, cugino del re, di proclamare la Repubblica. Daud fu ucciso nel 1978 a seguito di un golpe che portò al potere il Partito comunista guidato da Muhammad Taraki. Questi avviò numerose riforme di stampo marxista che incontrarono l’opposizione di notabili tradizionalisti e capi religiosi e l’estendersi dell’insurrezione popolare già in atto nelle campagne.
Con la morte di Taraki nel 1979, a seguito di un nuovo colpo di mano ordito dal Ministro della difesa Hafizullah Amin sostenuto da Mosca, ebbe inizio la persecuzione dell’opposizione islamica. Alla fine del 1979 i sovietici, sempre più preoccupati dalla crescente instabilità che minacciava di estendere il conflitto religioso alle province islamiche dell’URSS, occuparono l’Afghanistan eliminando l’impopolare Amin e insediando a Kabul il più affidabile Babrak Karmal. Nel 1986 l’insoddisfazione del Cremlino per gli scarsi risultati ottenuti portò alla sua sostituzione con il Capo della polizia politica Muhammad Najibullah. Nonostante tutto ciò il regime non ebbe mai il pieno controllo del Paese e i mujaheddin (combattenti per la libertà) giunsero ad assediare Kabul. Gli scontri con l’Armata Rossa ebbero termine con gli accordi di Ginevra ed il ritiro sovietico dal Paese nel 1989. Il Governo comunista di Najibullah riuscì a sopravvivere fino al 1992, quando cadde sotto i colpi dell’Alleanza del Nord, il raggruppamento dei sette principali movimenti islamici d’opposizione.
Con la proclamazione della Repubblica islamica fu riconosciuta la vittoria della resistenza e del suo principale esponente: Ahmad Shah Massud. A questo evento seguì un periodo caratterizzato da lotte intestine tra i mujaheddin che sfociò nel 1994 in aperta guerra civile con la quasi completa distruzione della capitale. Nel 1996 la fazione degli studenti coranici, i taleban sostenuti dal Pakistan, iniziò la conquista del Paese che portò, nel 1998, ad un regime teocratico basato sulla sharia e guidato dal mullah Omar. Il nuovo emirato durò fino al 2001 quando i mujaheddin, sostenuti da una coalizione a guida USA, riconquistarono Kabul e l’intero Paese.


Il quadro di situazione

Con il fallimento della politica estera di Bush, una domanda è sempre più ricorrente nelle cancellerie dell’Alleanza Atlantica e nel Quartier Generale NATO a Bruxelles: si può ancora vincere in Afghanistan? Il dossier afghano è stato tra i temi del G8, prima a Trieste da parte dei Ministri degli Esteri e poi all’Aquila dai Capi di Stato e di Governo, con la definizione di un accordo di principio su un maggior coinvolgimento dei Paesi confinanti per il controllo delle frontiere, per limitare l’esportazione d’oppio (l’Afghanistan è il primo produttore mondiale), per contrastare il fiorente contrabbando d’armi, per garantire la sicurezza e la regolarità delle elezioni presidenziali di agosto. Le speranze degli occidentali sono riposte sulla nuova strategia politico-militare degli Stati Uniti lanciata dal Presidente Obama.
Il nuovo obiettivo perseguito dalla Casa Bianca è quello di rafforzare la sicurezza nel Paese, mantenere sotto controllo l’attività terroristica, cercare di riconquistare la fiducia della popolazione con la ricostruzione di una società civile che consenta uno sviluppo sostenibile. Molte attese sono riposte anche nel nuovo Comandante del Teatro, il Gen. Stanley McChrystal, esperto di Forze Speciali e voluto dallo stesso Obama al posto del Gen. David McKiernan.
A questi è stato imputato un approccio troppo convenzionale nella condotta delle operazioni basato principalmente sul concentramento delle forze in grandi basi, limitata proiezione delle stesse sul territorio ed un uso indiscriminato dell’aviazione che ha causato danni collaterali alla popolazione tali da alienare le simpatie agli USA. Tutto ciò presuppone la volontà americana di dare maggiore dinamicità agli eventi utilizzando le nuove tecniche di combattimento sperimentate in Iraq per venire a capo dell’insorgenza sostenuta da alcuni settori dei Servizi di sicurezza pachistani. L’Inter Service Intelligence(ISI) ha consentito la creazione, nella fascia tribale di confine, di centri d’addestramento e supporto logistico per la guerriglia idonei altresì ad assicurare un sicuro rifugio sia ai leader talebani sia ai vertici di Al Qaeda. Alle missioni “search and destroy” contro l’insorgenza, McChrystal intende affiancare la continua presenza di forze dedicate alla ricostruzione delle strutture sociali del Paese. Il primo test di questo cambio di strategia militare è rappresentato dall’operazione “Colpo di Spada”, avviata il 2 luglio 2009, con l’obiettivo dichiarato di liberare la valle del fiume Helmand, principale zona di coltivazione del papavero da oppio.
L’Amministrazione USA ha considerato il successo, in quella provincia, fondamentale per le sorti della lotta al terrorismo in quanto mirata a privare l’insorgenza di una delle sue principali fonti di finanziamento e dimostrare la validità della nuova politica militare perseguita. I problemi che McChrystal deve affrontare sono però molti: l’asprezza del territorio che limita le operazioni militari, la diffidenza della popolazione stanca di una guerra ormai trentennale, l’instabilità politica, un’insorgenza sfuggente e agguerrita.
La guerriglia afghana è caratterizzata, infatti, dalla contemporanea presenza di talebani, gruppi armati illegali e criminalità organizzata, legati tra loro dall’interesse di scacciare le forze straniere per perseguire poi i propri interessi particolari. Il Comandante americano teme, altresì, un processo troppo rapido di “afghanizzazione del conflitto”, come avvenne in Vietnam.
Il Pentagono prevede, infatti, la creazione di un Esercito nazionale comprendente più di 130mila soldati e di Forze di sicurezza composte da 86 mila agenti di polizia, un obiettivo molto ambizioso per il breve termine. La minaccia più seria è rappresentata comunque dai taleban, che appartengono principalmente ad una sola etnia, i pashtun, maggioritaria in un Paese dove la popolazione è omogenea solo sotto il profilo religioso (84% di sunniti contro il 15% di sciiti).
I talebani hanno come principale obiettivo quello di isolare il Governo centrale, delegittimandolo sia all’interno sia all’esterno, minacciare i suoi sostenitori, ostacolare ogni sforzo di ricostruzione per dimostrarne l’incapacità a garantire sicurezza e condizioni di vita accettabili. Essi sono, altresì, favoriti dalla suddivisione etnica e tribale e dal conflitto tra mondo rurale, tradizionalista e conservatore, e quello delle città aperto al rinnovamento ed alla “modernità”. Parlare di “Nazione” afghana in termini unitari è pertanto improprio in quanto gli afghani sono il frutto di numerose migrazioni ed invasioni di genti che si sono stanziate principalmente nei centri abitati sorti lungo le principali vie di collegamento con l’Iran, l’India e la Cina e nelle aree ricche d’acqua. Kabul, ad esempio, conta ormai 6 milioni di abitanti su una popolazione complessiva di circa 28 e si è sviluppata su un altopiano a 1.800 m. di altitudine lungo le sponde dell’omonimo fiume.
I principali gruppi etnici sono rappresentati dai pashtun (42%), dai tajiki (27%), dagli hazara (10%), dagli uzbeki (8%) più altri gruppi minori (13%). Va osservato, poi, che il termine taleban identifica più sigle di guerriglieri jiahadisti che collaborano tra loro secondo la situazione del momento. I più rappresentativi sono gli “studenti coranici”, sconfitti nel 2001 dagli americani, che fanno riferimento al mullah Omar. Essi hanno la propria base operativa nella città di Qetta, nella provincia pachistana del Beluchistan, e le loro attività sono concentrate essenzialmente nell’Afghanistan meridionale.
Altri importanti gruppi sono la Rete di Haqqani, l’HiG (Hezb-e Islami Gulbuddin) un Partito diretto dall’ex Primo Ministro Gulbuddin Hekmatjar, uno dei capi mujaheddin responsabili della guerra civile. Dopo il 2001 questi si è alleato con il mullah Omar ed ora opera prevalentemente nel Nord Est del Paese.
Dall’HiG è fuoriuscito l’Hezb-e Islami Khalisa. Con lo stesso termine di “talebani” si identificano, poi, anche gruppi jiahdisti pachistani impegnati in una guerra di logoramento contro le Forze regolari di Islamabad. Questi sono rappresentati dal Tnsm (Therik-e Nefaz-e Shariat-e Mohammad), attivo nella valle dello Swat, il Let (Lashkar-e Taiba), che opera nel Punjab e nel Kashmir e il Ttp (Therik-e Taliban Pakistani).
Vi è, poi, Al Qaeda, dove prevale la componente straniera (araba, cecena, uzbeka, sudanese, ecc.), che non ha un ruolo di primo piano nei combattimenti in Afghanistan, ma fornisce supporto finanziario-organizzativo, logistico e di addestramento dalle basi pachistane.
Non va, infine, sottovalutata l’ingerenza di Iran e Pakistan negli affari interni afghani che, pur con motivazioni ed intenti diversi, hanno interesse a mantenere l’instabilità nel Paese alimentando la guerriglia. Islamabad, in particolare, ha sempre sostenuto il movimento degli studenti coranici che nasce e si sviluppa inizialmente a Kandahar, nel Sud dell’Afghanistan, quando questi sono riusciti a riportare l’ordine nel Paese contro i “signori della guerra” (warlords) e la criminalità comune. L’ISI ha sempre considerato il movimento degli studenti coranici la sola forza affidabile in grado di governare uno Stato satellite del Pakistan, da trasformare in retrovia nel caso di conflitto con l’India. Gli iraniani vogliono creare continue difficoltà agli americani in un’area che ritengono di proprio interesse strategico e ribadire la leadership di Teheran su tutti gli sciiti nel mondo islamico.
In tale ottica essi si propongono come “protettori” dell’etnia sciita degli hazara, storicamente discriminata da quelle maggioritarie e sunnite dei pashtun e dei tajiki. I talebani, pertanto, che sono riusciti a emulare almeno in parte il successo dei mujaheddin anti-sovietici assumendo la veste di difensori della fede islamica e di nemici dell’intervento straniero, stanno premendo sulle Forze americane e della NATO nelle province meridionali e intorno a Kabul, mentre cercano di espandersi nel resto del Paese, con l’obiettivo di causare le maggiori perdite possibili agli avversari. Tutto ciò dovrebbe indurre le opinioni pubbliche occidentali a ritirare i propri contingenti militari. Il Governo centrale, abbandonato così al suo destino, cadrebbe inevitabilmente sotto la spinta dei guerriglieri islamici.
Migliori notizie vengono dal rapporto ONU sulla coltivazione annuale d’oppio, presentata il 2 settembre 2009, da cui si rileva che la superficie destinata a papavero si è ridotta del 22%. La produzione è, però, rimasta sostanzialmente invariata per un surplus di prodotto dovuto alle condizioni stagionali, particolarmente favorevoli, che hanno compensato la diminuzione di aree coltivabili. Tale eccesso di produzione ha causato, comunque, la caduta del prezzo di circa un terzo sul mercato locale. Ciò dovrebbe invogliare i contadini, se opportunamente incentivati, a passare ad altre colture quali, ad esempio, lo zafferano e il grano.


La ‘questione Karzai’

Altro problema che gli alleati devono affrontare è rappresentato da quello che doveva essere inizialmente la “soluzione” al problema stesso e cioè Hamid Karzai, eletto Presidente dell’Afghanistan nel 2004 dopo aver svolto il ruolo di Capo dell’Amministrazione Provvisoria alla caduta del regime talebano nel 2001.
Il criticato Presidente, discendente dalla dinastia reale dei Durrani, ha deluso profondamente sia i suoi sponsors americani, per la corruzione dilagante ed i traffici illeciti che coinvolgono anche un fratello e membri del suo staff, sia larghi settori della popolazione afghana sebbene abituata ad ogni tipo di sopruso. Per il Rappresentante Speciale dell’UE a Kabul, Ettore Sequi, sarebbe controproducente per i piani di rilancio del Paese una confusa o contestata riconferma del favorito ma compromesso Presidente Karzai, in quanto potrebbe delegittimare un processo elettorale che le Forze alleate vorrebbero, invece, il più regolare e credibile possibile. Il tentativo dei taleban di boicottare le elezioni in tutti i modi (intimidazioni, attentati, attacchi ai seggi) rientra nella logica dell’insorgenza, così come attuato senza successo nelle presidenziali del 2004 e in quelle per il Parlamento del 2005. Le elezioni rappresentano un momento molto delicato per il futuro del Paese in quanto la sua classe dirigente è chiamata ad avviare finalmente, dopo molte aspettative, il difficile processo di trasformazione ed ammodernamento della società, che consentirebbe uno sganciamento, anche parziale, da Forze NATO ed americane.
Il concetto di modernizzazione non è rifiutato dalla popolazione, anche quella dei più lontani distretti rurali, ma è concepita come una razionalizzazione dell’apparato statale per renderlo più efficiente in modo da migliorare le condizioni di vita generali senza modificare la società tradizionale. Per contro la presenza di Forze straniere, stanziate per lungo tempo sul proprio territorio, rafforza il forte spirito d’indipendenza degli afghani e li mantiene in un continuo sospetto contro di esse. Le emergenze che il Presidente Karzai avrebbe dovuto affrontare, specie dopo la conferenza di Londra del 2006 che ha elargito 10.5 milioni di USD, riguardano i seguenti settori: il ripristino della legalità con la necessità di garantire la sicurezza e la sovranità su tutto il Paese nonché l’adozione di un moderno sistema giudiziario tuttora basato sulla sharia; la riorganizzazione dell’economia e la valorizzazione delle risorse umane esistenti nel Paese in modo da evitare la dipendenza dai proventi della coltivazione e del contrabbando dell’oppio, fonte principale di reddito per il Paese; lo sviluppo istituzionale da completare, cosa non semplice in un Paese che si definisce islamico.
Ciò può avvenire solo mediante la trasformazione da un sistema dove lo Stato è percepito come estraneo alla società ed in cui la fedeltà va al gruppo tribale e clanico, ad un modello democratico che ancora manca nella cultura tradizionale afghana. Questo comporta la reintroduzione nella società locale di concetti quali: il rule of law, il rispetto dei diritti umani, l’avvio di un reale processo di pacificazione, il pluralismo politico, il ruolo effettivo delle donne nella vita del Paese, il superamento dei condizionamenti religiosi, la libertà di stampa. Tutti questi obiettivi sono stati ampiamente mancati. In particolare, sono sempre i warlords e la mafia tajika nel Nord del Paese che si spartiscono, tra gli altri, la maggior parte degli introiti provenienti dai dazi doganali, mentre al Governo centrale vanno solo le briciole.
Sono sempre gli stessi soggetti che controllano le principali risorse naturali ed industriali nazionali: miniere di carbone, rame e salgemma, giacimenti di gas naturale, cave di smeraldi, cotonifici, cementifici e le attività legate alle importazioni di ogni genere di merci, dai prodotti alimentari ai carburanti, provenienti dall’Iran, dal Pakistan e dall’Uzbekistan. Il fatto è che Karzai, da buon pashtun, ha interpretato il suo ruolo di Presidente della Repubblica islamica non come un moderno statista di stampo occidentale, altrimenti sarebbe stato eliminato da tempo, ma come quello di un tradizionale monarca afghano e cioè di garante e custode dell’indipendenza di uno Stato unitario e federale allo stesso tempo.
Le province, infatti, sono affidate a Governatori nominati tra i maggiorenti espressione delle varie etnie, in un precario gioco di equilibri tribali o familiari e di compensazioni claniche e non gestite dai migliori funzionari dell’Apparato statale. Sostenere che Karzai sia il Sindaco di Kabul è esatto e sbagliato nello stesso tempo. Il potere effettivo del re discendeva dal consenso che questi sapeva creare intorno alla sua persona e dei benefici che riusciva ad elargire ai vari notabili e Capi religiosi. In un simile quadro di situazione è normale che vi sia sempre del malcontento e in Afghanistan l’opposizione armata al Governo centrale è sempre stata endemica. Il punto è quanto questa sia diffusa e quanto sia il consenso che il monarca è riuscito a garantirsi con qualsiasi mezzo o prezzo, lecito o no.
Il contrasto ai sovietici nel 1979, ad esempio, non è sorto improvvisamente dal nulla, ma era già in atto e risaliva ai tempi di Zahir Shah, l’ultimo sovrano. È bastato cambiare obiettivo da parte dei mujaheddin e ricevere cospicui aiuti attraverso il Pakistan per dar vita ad una nuova insorgenza, capace di coagulare larghi strati della popolazione, contro gli invasori stranieri. Gli stessi talebani, quando erano al Governo dal 1998 al 2001, non ebbero mai il controllo completo del Paese. Il principale oppositore era il leggendario Comandante tajiko Ahmad Shah Massud, il “leone del Panjshir”, leader dell’Alleanza del Nord, fatto assassinare da Al Qaeda, non a caso, il 9 settembre 2001. Sostenere, pertanto, che “gli afghani non si comprano ma si affittano” è una realtà incontrovertibile, ben nota, ed è l’unico modo di trattativa riconosciuta in tutto il Paese.
Un caso vale per tutti, quello di Rashid Dostum: ex Generale sovietico poi ex esponente comunista di primo piano che, con la sua defezione nel 1992 fece cadere il regime di Najibullah, quindi Capo mujaheddin nell’ambito dell’Alleanza del Nord e tra i principali responsabili della guerra civile.
Sostenitore degli americani nel 2001, è stato nominato Presidente del Comitato dei Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate nel 2004 da Karzai nonostante le accuse di crimini di guerra per gli eccidi perpetrati ai danni dei talebani fatti prigionieri.


Non tutto è perduto

Il Segretario Generale della NATO Jaap de Hoop Sheffer, prima di lasciare l’incarico nel luglio 2009, ha dichiarato che “…è importante che questa sia sempre più una missione NATO e che non diventi un’operazione solo americana…. Avremo successo se manterremo l’Afghanistan dalla nostra parte e se convinceremo la gente in Occidente che siamo lì per presidiare la prima linea del terrorismo…”. I Ministri degli Esteri di Francia e Gran Bretagna, prima delle elezioni presidenziali afghane, hanno sostenuto la necessità di avviare colloqui con l’elemento più moderato dei taleban per iniziare un serio negoziato di pace basato sulla riconciliazione nazionale. Per rispondere, quindi, alla domanda iniziale si può asserire che non tutto sembra perduto se le elezioni esprimeranno un Presidente credibile e se saranno rivisti i termini della missione militare dopo le elezioni. La presenza occidentale deve servire a garantire quella sicurezza necessaria per sviluppare un’efficace governance nazionale e locale, in quanto è sul vuoto di potere che si basa la forza delle milizie talebane.
Le elezioni presidenziali sono, quindi, una tappa di un lungo e difficile percorso e non il punto d’arrivo del processo in atto. Terminare la missione prima del tempo significherebbe abbandonare l’Afghanistan al proprio destino e il riformarsi di un’area di instabilità nella regione.
La nuova Amministrazione statunitense non ha escluso la possibilità di arrivare ad una soluzione politica del conflitto, non volendo sostenere lo sforzo bellico per un periodo indefinito senza individuare un’exit strategy che preveda il confronto con quella parte dell’insorgenza disponibile a trattare con il Governo centrale di Kabul, separandola dagli irriducibili jahadisti. L’obiettivo è quello di non dare tregua a questi ultimi per impedire nuovamente l’instaurarsi in Afghanistan di un regime confessionale che offra asilo ai terroristi di Al Qaeda. Per conseguire un accordo che ponga fine agli scontri è necessario, pertanto, che il Governo centrale riesca a creare le condizioni politiche affinché i “talebani moderati” si convincano della necessità di sedersi seriamente ad un tavolo delle trattative. Il punto è individuare chi sono costoro.
L’esperienza irachena ha dimostrato che il modo più efficace per togliere il sostegno all’insorgenza è quello di attivare una strategia anti-guerriglia che permetta il controllo governativo del territorio e riacquistare la fiducia delle popolazioni locali assicurando così alle Forze di sicurezza il sostegno necessario per eliminare la stessa. Al fine di ricostruire il Paese gli occidentali dovrebbero poi incoraggiare la formazione di un Governo più rappresentativo ed autorevole di quelli che si sono alternati fino ad ora, che si contemperi con la tradizione locale fatta di consigli tribali su cui si fonda il consenso di gran parte della popolazione. Non si può fare a meno, poi, di separare la crisi dell’Afghanistan da quella del Pakistan, la cosiddetta “questione dell’AFPAK” come è definita al Pentagono. Una vittoria dell’insorgenza in Afghanistan indebolirebbe ulteriormente Islamabad.
Molti dei gruppi che combattono nel Pashtunistan, territorio a cavallo della frontiera tra i due Paesi dove vivono in prevalenza le tribù pashtun (14 milioni in Afghanistan, 29 in Pakistan), aspirano a rovesciare il Presidente pachistano Zardai non meno di quello eletto a Kabul e la vittoria su un lato del confine finirebbe col favorire gli sforzi sull’altro versante. Viceversa, la stabilizzazione dell’Afghanistan potrebbe costituire uno stimolo per il debole Governo pachistano a riprendere il controllo sui propri distretti di frontiera oltre che sulla vitale valle dello Swat. In ogni caso gli eventi in Afghanistan non seguiranno gli sviluppi che l’Occidente auspica senza gestire il Paese per molto tempo ancora come sostengono i più qualificati esperti di questioni afghane.


Considerazioni post elettorali

Hamid Karzai è riuscito nel suo intento di farsi rieleggere al primo turno anche se permane il sospetto di brogli diffusi che avrebbero inquinato, e non poco, la tornata elettorale. La legge afghana prevede la nomina diretta del Presidente se il candidato raggiunge il 50% più uno dei voti. In caso di mancato conseguimento del quorum si va al ballottaggio dove basta la maggioranza semplice. Nonostante le divergenze tra la Commissione indipendente elettorale e quella incaricata di esaminare i ricorsi sembra difficile che si arriverà all’annullamento del voto, in quanto le prossime elezioni si dovrebbero svolgere in primavera.
In questa situazione di stallo, sia gli americani sia l’UE auspicherebbero un “passo indietro” da parte di Karzai, ma la situazione del Paese non consente un vuoto di potere così lungo e la comunità internazionale non si accollerà di certo gli oneri di spesa per un’altra votazione. È molto probabile pertanto che gli alleati occidentali si accontenteranno di un formale riconteggio dei molti voti dubbi e alla fine si arriverà alla proclamazione ufficiale di Karzai quale nuovo Presidente.
Questi, infatti, ha saputo stringere importanti, anche se discutibili, alleanze con i più influenti signori della guerra e ciò gli ha consentito di prevalere sul principale avversario, l’ex Ministro degli esteri Abdullah Abdullah (cugino di Massud). In ogni caso il Presidente, anche se confermato, dovrà riguadagnarsi la fiducia dell’Occidente in quanto la sua nomina rischia di rimanere un problema per tutti nonostante la logica locale che “solo un pashtun può governare con successo”. Karzai si è guadagnato, presumibilmente, i voti di altre etnie facendo promesse “elettorali” molto generose come la legge ad hoc sul diritto di famiglia per gli sciiti hazara, promulgata pochi giorni prima del voto, che penalizza fortemente le donne.
Per il tajiko Abdullah la sconfitta elettorale comporterà la perdita delle posizioni di rilievo che la sua etnia detiene nell’ambito del Governo e della Pubblica Amministrazione, specie nei ministeri chiave della Difesa e degli Interni, dove i tajiki sono predominanti. Karzai, infatti, ha ben chiaro che il primo passo per avviare colloqui con i “talebani moderati”, indispensabile per frenare l’insorgenza dilagante, sarà di ridiscutere con gli occidentali la presenza e le attività delle loro truppe. Questo vuol dire che egli deve garantirsi la completa fedeltà delle Forze di sicurezza, ora sotto il controllo di uomini legati alla memoria di Massud (ed al clan tajiko).
Per questa ragione si potrebbe innescare una pericolosa “sindrome iraniana”, vale a dire la non accettazione del risultato elettorale da parte dei candidati sconfitti con l’accusa di brogli, difficilmente contestabile, che renderebbe la situazione esplosiva vista la presenza, ancora consistente, di arsenali nascosti e gruppi armati irregolari a base etnica. Questo favorirebbe irrimediabilmente l’insorgenza e l’aprirsi di altri scenari, dagli esiti difficilmente prevedibili, con le Forze americane e della NATO nel mezzo.
Difficilmente si arriverà ad una situazione del genere, anche se non si può escluderlo.
È più probabile che ci sarà un accordo di compromesso che consentirà di non umiliare i tajiki, con l’assegnazione di un incarico istituzionale ad hoc ad Abdullah. Il Presidente Obama ha dichiarato che l’Amministrazione USA non ha un candidato di riferimento, che è pronta a collaborare con chiunque sia stato eletto ma ancora non ha deciso nulla sull’invio di ulteriori truppe indispensabili per perseguire la strategia militare del Gen. McChrystal. In ogni caso la giornata più importante per gli afghani, quella delle elezioni del 20 agosto 2009, è terminata meglio del previsto in quanto non vi è stato il temuto crollo dei votanti per disaffezione, per paura o per delusione nel sistema democratico anche se l’affluenza non ha superato il 40% degli aventi diritto (nel 2004 aveva votato il 60% circa) e concentrato principalmente nelle aree urbane, dove il dispositivo di sicurezza messo in campo era più efficacie.
Gli afghani, nonostante tutto, annettono molta importanza alla nomina del Capo dello Stato in quanto figura di riferimento per le varie tribù più che nell’istituto del Parlamento. In tale ottica va interpretato il sostanziale fallimento delle minacce talebane nei confronti degli elettori. Diversamente che in Iraq, gli insorgenti afghani non hanno il culto del martirio e delle stragi fini a sé stesse in quanto non intendono alienarsi le simpatie della popolazione, pur senza disdegnare l’uso dei kamikaze per fini tattici, di richiamo mediatico o simbolico. Gli attacchi rilevati in quella fatidica giornata sono da imputare, pertanto, a pochi fanatici fondamentalisti o a qaedisti stranieri oppure a faide locali, che non mancano mai in questo Paese. Gli attentati del 26 agosto a Kandahar, con quaranta vittime circa fra i civili, e quello del 17 settembre a Kabul contro un convoglio italiano con la morte di sei nostri paracadutisti e di una quindicina di civili sembrano, pertanto, anomali nel quadro generale dell’insorgenza ma non isolati nella sua “storia”.
Questi attacchi sembrano essere più una sfida della guerriglia nei confronti dell’apparato di sicurezza afghano ed occidentale nel dopo voto, quando le maglie si sono irrimediabilmente allentate, per dimostrare la capacità dei talebani di colpire ovunque e, forse, per punire gli elettori delle due città “simbolo” per gli studenti coranici. Il fatto che questi ultimi non sono riusciti a fermare le elezioni è positivo ma non risolve i problemi immediati dell’Afghanistan. A Kabul si attende, quindi, con una certa impazienza, la conferma della vittoria di Karzai al primo turno per affrontare la crisi in atto in quanto corruzione, malgoverno e scarsa sicurezza richiedono decisioni rapide senza vuoti di potere.
Per il rilancio del processo di pace nel Paese mancano però proposte concrete, innovative e coraggiose. Al momento si registrano solo le dichiarazioni rilasciate dal Ministro britannico alla Difesa prima del voto: “Nelle ultime settimane il dibattito sull’Afghanistan si è concentrato sulle tecniche e sulle risorse messe in campo … il Generale McChrystal, Comandante in capo, ha spiegato però che il successo non si misura con i talebani uccisi ma col numero di afghani protetti. Per sconfiggere la guerriglia è indispensabile legittimare la politica locale. Ecco perché è estremamente importante dimostrare che il voto di agosto è credibile. Le decisioni del prossimo Governo di Kabul saranno risolutive.
Tre sono le grandi sfide che dovrà affrontare il nuovo esecutivo: dividere la guerriglia attraverso la riconciliazione e la reintegrazione degli ex talebani, dare sicurezza e sostegno alla popolazione e sviluppare un dialogo costruttivo con le nazioni vicine. Per cominciare l’Afghanistan necessita di una strategia politica per smantellare la base di potere della guerriglia. Gli afghani hanno bisogno di Governatori e Capi distretto efficienti e di un’Amministrazione locale che sappia tener conto delle strutture tribali e della propria storia”.
Nel caso in cui gli alleati occidentali vorranno seguire queste indicazioni, tenendo conto che difficilmente Karzai potrà trattare con il mullah Omar e Gulbuddin Hekmatjar, ma con i capi tribù sì, e affronterà il nodo sicurezza-ricostruzione-benessere, che interessa alla popolazione, allora le speranze di vincere potranno farsi più concrete. In conclusione, non vi sono ancora indicazioni precise sull’esito finale del conflitto in tempi rapidi, ma in Afghanistan non bisogna mai avere fretta cosa questa che sembra contrastare con la volontà degli europei in particolare. La richiesta di Gran Bretagna, Francia e Germania al Segretario generale delle Nazioni Unite di indire una Conferenza internazionale per individuare nuovi obiettivi di sviluppo, come se quelli esistenti non fossero già abbastanza chiari, sembra più finalizzata ad individuare un’exit strategy piuttosto che definire impegni per il lungo periodo come la situazione dell’Afghanistan richiede.


Il ruolo dell'Italia

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato, con la risoluzione n.1386 del 2001, lo schieramento in Afghanistan di una International Security Assistance Force (ISAF) per aiutare le autorità locali a garantire un "ambiente sicuro" nel processo di ricostruzione e democratizzazione del Paese così come emerso dai precedenti accordi di Bonn. L'Italia partecipa a questa missione con circa 2800 unità.
Quello italiano rappresenta, pertanto, il quarto contingente per consistenza numerica tra quelli presenti in Teatro operativo ed è dislocato tra Kabul ed Herat dove abbiamo la responsabilità del Regional Command West (RCW), che incide su quattro province del Paese.
Il compito dei nostri soldati è quello di garantire la sicurezza, favorire la ricostruzione e agevolare la governance. Sono presenti altresì una trentina di carabinieri nella missione EUPOL (European Police)-Afghanistan, iniziativa europea dedicata all'addestramento della Polizia afghana ed un nucleo della Guardia di Finanza, sempre ad Herat, per l'addestramento della Border Police (guardie di frontiera) e del personale addetto alle dogane. In particolare la sicurezza viene ricercata con attività di controllo e di pattugliamento del territorio in coordinamento o a supporto dell'Esercito e della Polizia afghane nonché con l'addestramento a favore delle stesse unità.
La ricostruzione viene condotta dai cosiddetti PRT (Provincial reconstraction team) in stretto collegamento con la Cooperazione italiana del Ministero degli Esteri. Si tratta di sviluppare progetti in diversificati settori a favore della popolazione, su richiesta delle Autorità locali, che comprendono, ad esempio, il ripristino o la realizza-zione di tratti della viabilità minore e della rete irrigua, la potabilizzazione dell'acqua, lo scavo di nuovi pozzi o la riattivazione di reti idriche e fognarie, la ricostruzione di edifici scolastici e pubblici, lo sviluppo di progetti volti a migliorare le condizioni igenico-sanitarie generali, di alfabetizzazione e di microeconomia locale, la distribuzione di aiuti di svariato genere. Il processo di Governabilità locale (governance) passa attraverso il sostegno assicurato alle Autorità affinché possano estendere la propria attività istituzionale dai capoluoghi di provincia alle aree più lontane delle stesse.
Un altro impegno in questo delicato settore è poi rappresentato dall'assistenza fornita nella sicurezza del processo elettorale che ha visto il rischieramento di ulteriori 500 uomini in Afghanistan, che rientreranno in Patria al termine dell'esigenza.
Tutto questo è costato al nostro contingente, nel tempo, la vita di 21 militari, gli ultimi sei caduti nell'attentato del 17 settembre 2009 a Kabul, mentre svolgevano un'attività di scorta dall'aeroporto di KAIA alla loro base di Camp Invicta. Si tratta di un sacrificio doloroso che le nostre Forze armate pagano silenziosamente alla comunità internazionale per garantire la ricostruzione di un Paese martoriato, l'Afghanistan, che senza questo intervento ricadrebbe nell'oscurantismo di una società cristallizzata, quella talebana, che nega i più elementari diritti a larghi strati della sua stessa popolazione, come le donne e le minoranze sciite, nel nome di una travisata ed esasperata interpretazione religiosa.
Onore dunque e riconoscenza perenne a tutti coloro che hanno donato disinteressatamente la propria vita per aiutare i più deboli ad uscire dallo stato di indigenza e di difficoltà quotidiana in cui si trovano a vivere non per propria colpa o scelta.


Scuola di Herat: Distribuzione di
materiale didattico
 


Rapporto ICOS: mappa dei Talebani
presenti in Afghanistan
 


foto Ansa
 


foto Ansa
 



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