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GNOSIS 3/2009
Storia di una lunga marcia

'Declaring Victory' nella lotta alle mafie


Alberto CISTERNA


Foto Ansa
 
Le condizioni economico sociali, con il disfacimento del tessuto e la perdita di ogni coscienza collettiva hanno consentito alla mafia, anzi alle mafie, di crescere e di redistribuire parte della ricchezza che venivano accumulando.
Ne è seguìto il coinvolgimento di settori della popolazione che ottenevano vantaggi economici non indifferenti, approfittando dell’illegalità diffusa e, allo stesso tempo, contribuivano, indirettamente, a consolidare il sistema mafioso. Gretto e conservatore, rileva Alberto Cisterna, il “sistema mafia” nell’azione di contrasto ha fruito anche degli errori derivanti da una visione ideologica che puntava a mutare l’intera società meridionale, anziché demolire le organizzazioni criminali famiglia dopo famiglia, ‘ndrina dopo ‘ndrina.
Al punto che fra mafia e antimafia si era arrivati a una sorta di inconsapevole legittimazione reciproca: più il sistema mafioso veniva descritto come forte e potente, più si giustificava una possente organizzazione antimafia.
Nella situazione attuale, non persuade, secondo Cisterna, l’idea di una strategia della mimetizzazione e dell’inabissamento della mafia.
Anche se la dimensione imperiale di Cosa Nostra, stile anni ‘70 e ‘80, è ormai tramontata. Diceva Giovanni Falcone: “Come tutte le cose umane la mafia ha avuto un inizio e avrà una fine”. E l’autore ne trae la conclusione: se non siamo proprio alla fine della guerra, si può legittimamente cominciare a parlare di “Declaring Victory”, anzi meglio, di vittoria all’orizzonte.



Mai fare una domanda di cui non si conosca l’esatta risposta. È la regola d’oro di ogni processo, la prima istruzione impartita ai giovani pubblici ministeri o agli avvocati in erba in ogni parte del mondo. Accusa e difesa evitino accuratamente di rivolgere ai testimoni domande al buio, troppo rischioso. Chiedersi se la mafia sia stata sconfitta è, per ciò, solo una pessima domanda. Suona quasi una provocazione. Libri, articoli, sentenze, interviste ogni giorno ci ricordano che le mafie esistono. Ma non è questa la domanda che è stata posta. Certo che i mafiosi uccidono, depredano, minacciano, ma il quesito è: hanno vinto o hanno perso? La storia ha conosciuto innumerevoli conflitti, talvolta lunghi e cruenti, in cui le ostilità sono proseguite malgrado fosse del tutto chiaro che una parte avesse perso ogni chance di vittoria.
Dal 1618 al 1648 la Guerra dei Trent’anni ha dilaniato l’Europa centrale provocando enormi distruzioni e la perdita di milioni di vite umane, dissipate in scontri, carestie, malattie e saccheggi. La popolazione di quelle terre diminuì del 15-20% secondo stime demografiche prudenti.
Anche la lotta alla mafia è prossima al suo trentennale. È un calcolo fatto a spanne, ma con una dose di attendibilità. Certo non ci sono proclamazioni solenni, né possiamo indicare una data precisa, la guerra alla mafia come tutti i conflitti moderni è una guerra deformalizzata, irrituale. Non solo sottratta alle tradizionali regole del diritto bellico, ma anche lontana dalla retorica solennità delle parole pronunciate il 20 settembre 2001 da George W. Bush innanzi al Congresso degli Stati Uniti: «On September the 11th, enemies of freedom committed an act of war against our country. Americans have known wars, but for the past 136 years they have been wars on foreign soil, except for one Sunday in 1941» (1) . La vergogna di Pearl Harbor, l’unico giorno di guerra su suolo americano in 136 anni di storia, l’attacco a sorpresa non preceduto dalla tempestiva consegna della dichiarazione di belligeranza da parte dell’Impero del Sol levante.
Anche la mafia ha iniziato le ostilità perpetrando l’ignominia dell’attacco a sorpresa, consumando un’eclatante imboscata. La Pearl Harbor mafiosa si materializza a Palermo la sera del 3 settembre 1982, in via Carini, con l’uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quell’evento segna, con ogni probabilità, il principio della guerra combattuta tra mafia e Stato. A rispondere a quell’aggressione non sono però gli uomini del governo, né i vertici degli apparati di polizia o della magistratura, annichiliti dalla violenza di Cosa nostra che, per la prima e ultima volta nella sua storia, colpiva non un siciliano-magistrato o un siciliano-poliziotto o un siciliano-politico, ma il piemontese-carabiniere inviato dal Governo per arginare la violenza-siciliana della mafia. La proclamazione della guerra avviene il 5 settembre 1982 durante il rito funebre, alla presenza dei vertici dello Stato, in una chiesa ammutolita e impaurita. Le formalità dello ius ad bellum le consuma un uomo con i paramenti cardinalizi: «si sta sviluppando, e ne siamo tutti costernati spettatori, una catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, siano privati cittadini che funzionari ed autorità dello Stato medesimo, quanto mai decise invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire. Sovviene e si può applicare una nota frase della letteratura latina, di Sallustio mi pare, nel De bello jugurtino: ’Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur’; «mentre a Roma si pensa sul da fare la città di Sagunto viene espugnata dai nemici». Sua Eccellenza Salvatore Pappalardo, Cardinale della Diocesi di Palermo, pronuncia una frase che nella frazione di pochi attimi entra nel patrimonio morale e civile del Paese e sfonda il muro della belligeranza: la città viene presa d’assalto dai «nemici». Sabato 11 settembre 1982 il Governo prende atto che lo scontro è inevitabile e con un decreto legge inizia la stagione della lotta alle cosche. Il nemico esiste e ha un nome, si chiama mafia. In un varco del Codice penale scritto 50 anni prima da un ministro di Mussolini, si inserisce un nuovo articolo: il 416-bis che punisce le associazioni mafiose. Non è solo la norma che molti inquirenti e uomini della politica avevano invocato per anni al fine di meglio contrastare e punire i mafiosi, ma contiene anche le «regole d’ingaggio» da osservare durante le ostilità, lo jus in bello.
Ogni conflitto per essere efficace esige, innanzitutto, che si individui il nemico e lo si descriva con la massima accuratezza possibile e l’art. 416-bis non si sottrae a questa incombenza: «l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri», «ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», si aggiungerà dieci anni dopo a pochi giorni dalla strage di Capaci e a pochi mesi dall’omicidio dell’onorevole Salvo Lima.
Tralasciamo ogni valutazione giuridica sulla sintassi adoperata nello scrivere il nuovo reato di «associazione di tipo mafioso» e mettiamo da parte anche qualsivoglia considerazione sulle influenze che una certa visione sociologica e antropologica della mafia hanno esercitato nella redazione del testo di legge. Concentriamoci piuttosto sul fatto che l’articolo 416-bis non si limita a punire i mafiosi, ma pretende anche di definire la mafia, di chiarirne gli obiettivi criminali e sociali, di smascherarne il progetto egemone sulla società siciliana e meridionale in genere. Di quest’ultima porzione del Paese reca un’esplicita menzione l’ultima parte di quel testo ove si legge «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso». Lo sbrigativo corollario dedicato a camorra et similia lascia intendere che la preoccupazione principale dello Stato era quella di sfidare l’avversario più temibile e feroce. Il nuovo reato è diretto, innanzitutto, contro Cosa nostra palermitana. Indicare cosa sia la mafia e, quindi, chi siano i mafiosi, è il primo passo contro l’omertà e l’intimidazione, anche quella patita dalle Istituzioni che nei decenni precedenti avevano persino negato che la mafia esistesse.
È la paura il vero obiettivo dell’art. 416-bis, l’oggetto di ogni attenzione. La paura ossessiva e paralizzante, quella che rende le Istituzioni distratte o complici, quella che costringe i siciliani a voltarsi dall’altra parte. Bisogna affrontarla perché sarebbe pericoloso sfuggirle ancora. E occorre farlo in modo chiaro, senza tentennamenti e senza reticenze: l’omertà è la paura di ammettere di aver paura. «Mi vanterò, quindi, ben volentieri delle mie debolezze. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (San Paolo, II lettera ai Corinzi). Occorreva trasformare la debolezza della paura da strumento saldamente in mano ai mafiosi, a prova da utilizzare contro i nuovi “Innominati” nel corso dei processi. Tutte le volte in cui un testimone tacerà o mentirà si avrà un elemento per ritenere che l’imputato è davvero un mafioso, è proprio il silenzio che inizia a raccontare qualcosa di lui e della sua organizzazione. A questo punto tutto può essere disvelato: il metodo, gli scopi, la volontà dominatrice, i mezzi adoperati, le risorse a disposizione. «Decise, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire» aveva tuonato il cardinale Pappalardo e lo Stato verga l’articolo 416-bis ammettendo che la Nazione è pervasa da uomini i quali, non solo mettono a repentaglio la vita e i beni dei cittadini («per commettere delitti») ma, avvalendosi «della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva», minacciano di conquistare «la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici», di accaparrarsi «vantaggi ingiusti», sino a «impedire od ostacolare il libero esercizio del voto».
Le carceri non sono sufficienti per fermare un’armata così agguerrita e feroce, occorre privarla, oltre che degli uomini, anche delle risorse: la confisca sarà l’altro strumento messo in campo in questo conflitto iniziato nel 1982. Come in qualsiasi altra guerra la vittoria è possibile a condizione che si sgretolino i patrimoni che sorreggono lo sforzo bellico dell’avversario, anche la mafia deve veder erose le proprie ricchezze e i capitali accumulati, visto che le cosche non si limitano a infiltrare l’economia legale, ma muovono per occupare la società.
Trent’anni dopo, e oltre innumerevoli morti e atrocità, l’album della storia consegna una vaga somiglianza tra Bernardo Provenzano, l’ultimo capo della mafia imperiale catturato dopo una fuga di oltre 40 anni, e Leonida Il’iè Brežnev, l’ultimo capo dell‘Unione sovietica imperiale. La sorte del comunismo sovietico è ormai assunta a paradigma della dissoluzione che incombe sul potere rimasto privo di legittimazione; v’è da chiedersi se a una medesima parabola sia legato il destino delle mafie. Forse nell’ultimo decennio si è consumata per i clan un’implosione silente, ancora sovrastata dal clamore delle denunce e dall’orrore del ricordo. «Come tutte le cose umane la mafia ha avuto un inizio e avrà una fine». Giovanni Falcone pronunciò questa frase poco tempo prima di essere ucciso. Quelle parole sono divenute uno slogan per tutti i movimenti antimafia e rimangono uno dei luoghi sempre visitati dalla memoria collettiva. Trascorsi tanti anni sembra giunto il momento di chiedersi, oltre ogni emozione e a dispetto di ogni apparenza, se quella profezia si sia avverata.
Può la mafia essere giunta allo sgretolamento del “muro di Berlino”?
Sia chiaro, la fine della mafia non sarebbe la conseguenza di una sconfitta: le organizzazioni non sono state battute completamente dallo Stato e interi territori sono ancora soggiogati dai loro adepti. La cattura in Sicilia di Bernardo Provenzano, di Salvatore Lo Piccolo, suo erede designato, o di Pasquale Condello in Calabria, sono eventi importanti, ma non riguardano la questione che si intende affrontare. Nel discutere della fine della mafia non si vuol enfatizzare questo o quel successo dello Stato ma verificare, piuttosto, se sia giunta al crepuscolo la trama egemone che i boss avevano intessuto su vaste popolazioni del Sud Italia. L’argomento è sdrucciolevole, anzi è necessario incedere per ignes per cui sono indispensabili alcune premesse.
Ultimata in pochi decenni la fase dell’escalation militare e sociale, la funzione e la vocazione mafiosa hanno preteso una completa egemonia su uomini e risorse. Le mafie italiane, a differenza di altre organizzazioni criminali, non sono strutture solamente voraci, ossia orientate esclusivamente verso la percezione di profitti illegali, ma ambiscono alla sottomissione delle aggregazioni sociali di riferimento. Nella lunga campagna di conquista le mafie hanno progressivamente coinvolto gruppi sociali sempre più vasti, rendendoli partecipi della distribuzione delle ricchezze depredate e guadagnandone la leale collaborazione. Laddove è stato necessario hanno praticato una violenza immane, annichilendo ogni resistenza e abbattendo capillarmente ogni ostacolo. In altri casi si sono mossi con grande flessibilità, evitando contrapposizioni brutali e agendo sul versante della cooptazione e della corruzione.
Malgrado ciò è indubitabile che nel perimetro arretrato e depresso delle società meridionali le organizzazioni mafiose abbiano innescato un formidabile, quanto scellerato, processo di innovazione sociale. Se si potessero seguire in parallelo la vita del mafioso di un piccolo paese di Calabria e quella del suo coetaneo emigrato in Lombardia o in Germania negli anni ‘50 e ‘60 dovremmo annotare una diversità che non è fatta solo di sangue e denaro. La distinzione riguarderebbe in modo più incisivo il contesto di modernità entro il quale il boss è riuscito a inserire se stesso, i propri congiunti e gli affiliati, malgrado un apparente immobilismo territoriale. Ad esempio il business delle droghe tra America e Europa ha costituito per la mafia non solo l’occasione per enormi profitti, ma anche lo spunto per una raffinata emancipazione sociale e culturale fondata sulla conoscenza e sull’utilizzo dei sistemi bancari, delle prassi mercantili, delle reti di trasporto, delle lingue e via seguitando. Una medesima linea evolutiva si coglie nell’ingerenza mafiosa verso i flussi del denaro pubblico destinati alla sanità, all’agricoltura o agli appalti. Anche in questi settori i clan hanno acquisito una straordinaria competenza nell’intrecciare rapporti con i centri decisionali della politica, delle amministrazioni pubbliche o dell’imprenditoria legale. Strati sociali totalmente emarginati dai consueti circuiti dello sviluppo politico, sociale ed economico hanno guadagnato, attraverso l’esercizio della violenza, un’evidenza e un ruolo altrimenti inaccessibili. I mafiosi hanno raggiunto obiettivi che sarebbe stato possibile conseguire attraverso percorsi molto più lenti e probabilmente più selettivi in relazione alle compagini sociali coinvolte. Non v’è stata alcuna cooptazione da parte della borghesia meridionale, in massima parte guardinga e sospettosa, gli uomini dei clan l’hanno semplicemente espugnata, imponendo la loro ingombrante presenza. Al Sud v’è stata l’esplosione di porzioni consistenti di ceti subalterni, improvvisamente inserite nella rete dei beneficiari della nuova ricchezza per effetto dei vincoli familiari o di fiducia che li legavano ai boss. Alle clientele della borghesia politica meridionale, le mafie hanno risposto con i clan, con le famiglie, hanno assimilato il metodo dell’occupazione del potere e lo hanno replicato con estrema efficacia e durezza.
La metamorfosi sociale che, a partire dalla miseria dei piccoli centri del Sud (da Corleone a San Luca), è giunta alla condivisione del potere con le oligarchie locali e nazionali consegna un trend di espansione difficilmente replicabile in altri scenari.
Man mano che le organizzazioni mafiose acquisivano un ruolo di influenza negli affari della politica e dell’economia, consistenti gruppi sociali riconoscevano nel metodo mafioso l’attitudine a realizzare un’efficiente allocazione delle risorse e una razionale distribuzione del potere. Il fallimento delle politiche di sostegno economico al Mezzogiorno e la deriva inefficiente della Pubblica Amministrazione hanno convogliato per decenni verso le mafie il consenso reale di segmenti significativi della popolazione e delle élite meridionali. In molte regioni del Sud i clan, per effetto della spietata efficienza operativa che li connotava, sono stati in grado di approntare un sistema di regolazione in cui confluivano: le istanze di protezione di un’imprenditoria incapace di reggere la concorrenza dei mercati; le necessità di strati popolari bisognosi di assistenza economica e di mediazione con le classi dirigenti; le ansie del ceto politico di guadagnare consensi elettorali in presenza di una forte frammentazione della rappresentanza partitica.
In questa fase intermedia, se vogliamo pre-imperiale, ha agito una vera e propria deregulation mafiosa, protesa all’accaparramento di ogni fonte di ricchezza a discapito di qualunque regola e con il sacrificio quotidiano della legalità. È un compendio troppo eclettico e impreciso, ma comunque introduce un punto della discussione.
All’apogeo del suo ciclo vitale la mafia costituisce a ogni effetto un “sistema totalitario” in un’accezione analoga a quella solitamente adoperata per descrivere il nazismo o lo stalinismo e, come tale, agisce da ossessiva custode dello status quo, refrattaria verso ogni innovazione che possa alterare l’assetto sociale. La pulsione conservatrice costringe le mafie a una continua operazione di contenimento e contrasto dei fattori di modernizzazione della società e le incita contro ogni innovazione capace di squilibrare il controllo. La Cupola di Cosa nostra o i summit della ‘ndrangheta in Aspromonte, analogamente a quanto avviene in altri segmenti politici e economici della società civile non sono nient’altro che lo strumento necessario al controllo dello status quo, celebrano la forza delle mafie e le rassicurano sulla loro invincibilità.
Le mafie, secondo lo schema classico individuato da Eric Hobsbawn e Terence Ranger, non si limitano a esercitare un grande potere, ma hanno «inventato una tradizione» che le possa in qualche modo giustificare e perpetuare. L’idea che nelle pieghe nascoste e intime della società meridionale alberghi un sentimento mafioso, in bilico tra ribellismo e sopraffazione che la mafia incarna e organizza è in gran parte il nocciolo duro di questa tradizione, inventata di sana pianta dai clan e modellata su giuramenti, riti, gradi e cerimonie. Il più grande errore che si sia potuto compiere in questo scenario è stato quello di confondere l’apparenza mafiosa con la realtà della mafia, convincersi che la tradizione non fosse astutamente inventata e alimentata, ma affondasse le proprie radici in un “altrove” oscuro e insondabile in cui mafiosi “si nasce” e non si diventa. Così la lotta ai clan improvvisamente perde i suoi connotati bellici, smarrisce la dimensione, vincente per lo Stato, dello scontro diretto e suggerisce l’idea che la sconfitta della mafia esiga una completa palingenesi sociale, un mutamento profondo delle strutture del potere tout court inteso. La conservazione mafiosa viene confusa con l’ambiguo immobilismo politico del Sud sino al punto in cui la visione dell’una si sovrappone all’altro, costruendo un unico, immaginario, blocco di potere. Questa visione assume i toni di una premessa insormontabile e, quindi, assoluta in ogni strategia di contrasto alla mafia.
Sun Tsu lo aveva detto qualche secolo prima «ricorda: vincere le battaglie e raggiungere i propri obbiettivi militari, ma trascurare di sfruttarne i risultati, è un fatto molto negativo, e può essere definito “una disastrosa trascuratezza”». È esattamente quanto una parte, e non sempre quella più impegnata e coraggiosa, del fronte antimafia ha fatto tracciando senza linea di continuità una saldatura strategica tra mafia e potere che invece era solo occasionale e per lo più strumentale. I successi contro le mafie sono andati smarriti per effetto di una visione ideologica molto più ampia e complessa che, anziché puntare a disarticolare la mafia clan per clan e ‘ndrina per ‘ndrina, denunciava la necessità di mutare l’intera società meridionale con l’avvento di nuove élite politiche e culturali. A dire il vero non è chiaro se questo errore di focalità sia stato involontariamente suggerito dalla forza della “tradizione inventata” ovvero se taluno abbia furbescamente intravisto nella lotta alla mafia e nelle sue prime prospettive di successo negli anni ’80 la via per ribaltare le sinergie clientelari che governavano il Mezzogiorno d’Italia. Comunque l’operazione rimane una «disastrosa trascuratezza»: piuttosto che spezzare le fila del dialogo e dell’intesa tra mafia e potere le ha rinsaldate, ha alimentato il timore di persecuzioni politico-giudiziarie; così l’antimafia è divenuta ad un tempo l’obiettivo della mafia, di una parte consistente della politica e di specchiati e integerrimi intellettuali. Un fuoco concentrato cui per una lunga fase è stato impossibile resistere e per taluno finanche sopravvivere.
Sarebbe complesso e forse disagevole spiegare l’equilibrio raggiunto, il sottile gioco di specchi in cui l’antimafia più militante e radicale e la mafia si continuano a riflettere. Si disputa una partita che è insieme psicologica, culturale e politica; essa coinvolge il ruolo degli apparati di repressione della mafia, il loro peso istituzionale, la moral suasion che sono in grado di esercitare sui luoghi della politica e della pubblica opinione, i vantaggi professionali e di immagine connessi ad una militanza. Brutalmente è in gioco una reciproca legittimazione: solo una mafia forte e invincibile giustifica un’antimafia parimenti possente e influente. Come nella logica dei blocchi contrapposti, si preferisce un’interminabile “guerra fredda”, tutto sommato a bassa intensità, a un conflitto cruento, ma forse risolutivo. Nel suo testo più intimo e doloroso Carl Schmitt ammoniva ad adoperare cautela nell’indicare il proprio avversario poiché «definendo il tuo nemico definisci te stesso» (Ex captivitate salus, trad. it., 1987). Con maggior prossimità all’argomento e ragionando della pratica delle estorsioni e dei mezzi per contrastarla, scrive Salvatore Lupo: «Dal punto di vista pratico, è evidente assai complesso rompere questa rete di sudditanza prima che le Forze dell’ordine riescano ad abbassare la soglia dell’impunità. A mutare la diffusa percezione dell’invincibilità di questa cosiddetta mostruosa piovra, percezione esagerata ad arte dagli stessi mafiosi con l’inconsapevole appoggio dei media e, in qualche caso, degli stessi avversari della mafia» (L’Unità del 31 marzo 2008).
Se questa è stata la dinamica evolutiva, per intendere fino in fondo le ragioni del declino dei clan occorre, senza alcuna reticenza, disfarsi dell’alibi di un Mezzogiorno depredato e succube, della visione ideologica secondo cui le popolazioni meridionali vivrebbero in una condizione di democrazia apparente che cela un mondo dominato dalla diarchia cospiratrice di mafia e élite corrotte.
La tradizione “inventata” dalla mafia, e avvalorata da una miope antimafia, ha costruito una gigantesca suggestione che ha alimentato nella stessa mafia la convinzione di agire come un’invincibile forza d’occupazione. Folgorato dai successi della blitzkrieg, la guerra-lampo degli anni ’80, il potere mafioso ha agito come se potesse profittare di risorse umane, morali e economiche pressoché inesauribili. In realtà il disfacimento di parti non secondarie del tessuto sociale, la perdita di ogni coscienza collettiva, corrodeva l’habitat che aveva consentito al fenomeno mafioso di alimentarsi e consolidarsi: l’ecosistema sociale non poteva reggere a lungo la selvaggia razzia posta in essere non più da una esigua porzione di malfattori, ma con il concorso di interi segmenti della popolazione che profittavano del declino della legalità.
Si faccia il caso dell’abusivismo edilizio nelle regioni meridionali, con milioni di metri quadrati di case costruite ovunque in spregio a ogni regola urbanistica e di decoro, con l’occupazione di aree pubbliche, di zone verdi o di coste. Popolazione, mafia, politica e imprenditoria hanno stipulato attraverso questo saccheggio, iniziato negli anni ‘70 e proseguito per due decenni a ritmi sostenuti, un mirabile patto sociale e criminale. I ceti più diseredati ponevano rimedio alle proprie elementari necessità abitative; l’imprenditoria legale e quella mafiosa costruivano gli immobili nel silenzio delle amministrazioni pubbliche locali che, a loro volta, dall’inerzia conseguivano un convinto sostegno elettorale. Il controllo mafioso del territorio era lo strumento ideale per consentire che nessuno vedesse e nessuno si adoperasse per arginare lo scempio irrimediabile del Meridione. Ancora si potrebbero citare le vicende dell’emergenza-rifiuti in Campania: l’accordo collusivo tra politica e camorra è durato anni con la devastazione di migliaia di ettari di terreno, di fiumi, di colline. Anche in questo caso è stata determinante la connivenza delle popolazioni locali che traevano vantaggi economici o clientelari dal business ed è durata fino al totale inceppamento del meccanismo e al degrado irreversibile dell’ambiente.
«Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant», ammoniva Tacito. La mafia al pari di ogni struttura imperiale tende a dissipare ingenti risorse economiche, sociali e morali. La liquefazione di ogni percezione del bene comune, la dismissione di ogni intoppo legale e culturale in grado di ostacolare la volontà di dominio delle mafie potevano perpetuarsi a condizione che il ciclo della crescita criminale fosse illimitato. Tuttavia l’originario patrimonio morale e civile delle popolazioni meridionali aveva rappresentato, al pari delle risorse ambientali e finanziarie, un fattore decisivo per l’escalation mafiosa, per il costituirsi di un potere “verticale”. In terre in cui porzioni significative della popolazione maturano il convincimento di una permanente impunità delle azioni illegali e di una correlativa inefficacia dell’azione dello Stato, i clan agiscono con crescente difficoltà. Non a caso nelle intercettazioni ambientali operate a Palermo nel 2007 i boss si lamentano degli effetti del recente indulto e della recrudescenza della piccola delinquenza di quartiere che mette a repentaglio i loro affari e il loro prestigio. A parlare sono Giuseppe Bisesi e Giuseppe Libreri, un emergente di appena 31 anni e il capo della famiglia mafiosa di Termini Imerese: «Il problema dei ladri c’è stato sempre, non solo qua, in tutte le parti. Ora con quest’indulto che hanno dato... siamo rovinati. A Palermo c’è una situazione: farmacie, supermercati che non dormono tranquilli. Ma che scherziamo! È andata a finire a bordello».
Nel momento in cui il metodo mafioso viene percepito come sistema efficace per influire sull’economia, sul lavoro, sull’impresa o sulla politica i detentori del privilegio smarriscono il monopolio della forza e perdono il vantaggio competitivo. Paradossalmente non si può dire che i boss non abbiano percepito i rischi di una diffusa degenerazione del tessuto sociale. Al pari di uomini delle istituzioni e della chiesa, di intellettuali sensibili e di imprenditori avveduti, anche questa singolare e perversa categoria di “operatori sociali” ha misurato la difficoltà di agire in una collettività disaggregata e spogliata. Non è un caso che Bernardo Provenzano o Salvatore Lo Piccolo fossero seriamente immersi nella lettura di testi sacri o nella redazione dei decaloghi del “perfetto mafioso”. Essi si muovevano nella convinzione che il sistema criminale potesse reggere a condizione che non ne venisse alterata la natura più profonda di potere “dall’alto”, imperiale appunto. Il frequente ritrovamento nei covi dei boss, come nelle spoglie abitazioni degli affiliati, di pagine che recano vergate a mano le formule di iniziazione, il perpetuarsi nelle carceri dei riti di attribuzione dei “gradi” tra accoliti sono il segno evidente di una cultura criminale che non vuole recedere e che, anzi, pretende di rappresentare un fattore di coesione “verticale” per vasti strati sociali. È l’immagine di Giuseppe Salvatore Riina, figlio del capo di Cosa nostra, che il 28 febbraio 2008, appena scarcerato, ritorna a Corleone e si presenta presso la caserma dei Carabinieri per conoscerne il comandante e per farsi “riconoscere”. L’impero ha i suoi riti e non intende dismetterli per ragioni profonde che intuitivamente ciascuno comprende. La desertificazione morale, economica e ambientale delle enclave mafiose si è, quindi, compiuta per il concorso di numerosi fattori e ha generato un inquieto crogiolo sociale che ha travolto la credibilità dei ceti dirigenti, ivi inclusa quella dell’establishment delinquenziale. Sotto questo profilo la crisi di fiducia che attanaglia i boss della mafia ha radici comuni a quella insofferenza che ha intaccato l’autorevolezza delle élite di potere del Mezzogiorno. Con la differenza che mentre la politica è in grado, attraverso opzioni di tecnica elettorale o semplificazioni dei procedimenti decisionali, di avviare una fase nuova nell’amministrazione del bene comune, le mafie si trovano del tutto sprovviste di alternative rispetto alle strategie di governance sociale sinora praticate. In astratto per sottomettere e suscitare terrore potrebbero far ricorso alla violenza in modo massiccio, ad esempio perpetrando altre stragi eclatanti, ma la mafia, al pari dei regimi dell’Est al tramonto, è consapevole di non avere ormai alcuna legittimazione politica per ricorrere alla forza. Così come i Vopos non aprirono il fuoco sui giovani che abbattevano il muro di Berlino, così le rivolte dei commercianti e degli imprenditori di Palermo non subiranno alcuna vendetta o reazione. I gruppi sociali, anche quelli che con la mafia cooperano, troverebbero intollerabile l’uso della violenza indiscriminata e si distanzierebbero ulteriormente dalle organizzazioni. È un vicolo cieco l’ultima chance della mafia condannata, nell’impotenza del proprio arsenale militare, a veder svanire l’imperium conquistato nelle comunità del Sud Italia. L’alterazione inflitta alla società meridionale ha prodotto un tessuto sociale in bilico tra la metastasi e la rigenerazione. Alcuni fattori incontrollati hanno incrinato e spezzato l’egemonia mafiosa: la dismissione anche nei raggruppamenti sociali più arretrati dei vincoli di cieca sudditanza e omertà ha isolato i boss, oggetto di propalazioni anonime, di invidie sociali, di insofferenza per una ricchezza percepita alla fine come ingiusta; la speranza tra gli imprenditori di una crescita sostenuta da innovazione tecnologica e da qualità della produzione, anziché da scarsi e infetti contributi pubblici; la contrazione drastica dei trasferimenti statali per effetto delle politiche di contenimento del budget; il crollo di credibilità del feudalesimo politico hanno indotto le classi sociali che avevano partecipato al patto di rappresentanza in favore della mafia a ritenere che il congegno sia divenuto inefficiente e costoso. La funzione regolatrice dei clan viene percepita come una disfunzione. Una congerie di regole divenuta incapace di riallocare le risorse e di costruire mediazioni efficaci nella competizione sociale e economica e idonea soltanto a incrementare il potere e la ricchezza dei boss e dei loro cortigiani. Naturalmente come tutte le organizzazioni complesse, anche quella mafiosa non rinuncia a attuare politiche volte a contrastare il declino che percepisce. L’affidarsi a un soft power con la contrazione della violenza esercitata e, ad esempio, con il contenimento del racket estorsivo, segnala un atteggiamento cedevole, incline a accettare un ruolo d’influenza in luogo dell’egemonia finora esercitata. Una lobby pericolosa e sanguinaria, ma relegata a un ruolo marginale in una società che non le riconosce prestigio decisionale e non intravede progetti da condividere.
Non persuade, così, l’idea di una «mafia invisibile» incline a ricorrere, in questa fase storica, a una strategia di mimetizzazione e inabissamento. Questa opzione contraddice l’evidenza normativa e sociale della mafia che per esistere come potere necessita di una continua visibilità e riconoscibilità. È lo stesso articolo 416-bis che evocando il canone dell’omertà, dell’assoggettamento, delle mafie similari oggetto addirittura di una vera e propria “denominazione sociale” impedisce di ritenere l’arretramento della visibilità sociale della mafia come una libera opzione dei clan. I latitanti hanno dismesso da oltre un decennio di aggirarsi tranquilli per le città e le contrade. La sequela fotografica degli arresti, dei covi mostra situazioni logore, ai limiti dello sfascio, prive di dignità, anfratti, bunker interrati, tombini, vecchi casolari, intercapedini con una brandina e qualche cibo. Cosa ha da spartire tutto ciò con la dimensione imperiale, con l’immagine tronfia di Totò Riina che nel 1993 passeggiava in macchina per le strade di Palermo?
La battaglia sarà ancora lunga ma, come auspicava J. Fallows con riferimento a Al Qaeda, è tempo di «declaring victory»e rendere noto il fallimento del progetto mafioso.


(1) «L’undici settembre i nemici della libertà hanno commesso un atto di guerra contro il nostro Paese. Gli americani hanno conosciuto guerre, ma negli ultimi 136 anni sono state in territorio straniero, fatta eccezione per una domenica, nel 1941».

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