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GNOSIS 1/2005
L'emancipazione femminile secondo Bin Laden:
la chiamata delle donne al Jihad


articolo redazionale

Il trattamento riservato alle donne è la cartina al tornasole del conservatorismo dell’Arabia Saudita, dominata dal rigore morale dell’ortodosssia wahabita. Eppure, in questo scenario fitto di contraddizioni politiche e sociali interne, i seguaci di Al Qaeda compiono un’operazione mediatica innovativa, lanciando in rete AL KHANSA, un mensile destinato all’addestramento ideologico e militare delle “mujahidat” (le combattenti), che ricalca analoghe recenti pubblicazioni jihadiste tradizionalmente “al maschile”. Si tratta di una svolta nelle progettualità della rete terroristica internazionale sinora limitata all’esclusivo impiego di uomini nelle “operazioni” militari, a differenza dell’intifada palestinese o dell’estremismo nazionalista ceceno. In questo articolo, ci si chiede quali siano i fattori strategici, mediatici, sociali in gioco e se la chiamata delle donne ad un ruolo attivo nella guerra santa, in caso di necessità, possa essere effettivamente considerata un segnale di emancipazione femminile o piuttosto uno stratagemma tattico per coinvolgere tutte le componenti della Umma nel jihad globale contro gli “invasori” ed i miscredenti.


da rivista "Al Khansa"

Se volete aggiornarvi sugli ultimi modelli di “hijab” (velo del capo) e di “abbaija” (tunica), non lasciatevi ingannare dall’accattivante copertina rosa di Al Khansa. Tra le pagine web di questa neonata rivista femminile in lingua araba, non troverete le consuete rubriche modaiole che affollano i patinati per signora di tutto il mondo, tranne una sezione dedicata al fitness con i consigli sulla dieta e gli allenamenti da seguire per conquistare non certo una linea “da passerella”, ma da martire della guerra santa!
Destinato all’addestramento di ogni aspirante “mujiaheda” (la combattente), il mensile Al Khansa è infatti l’ultimo, sorprendente ritrovato di una strategia mediatica che, con il lancio di proclami, ultimatum e decapitazioni in video, si è mostrata sempre più concorrente rispetto all’opzione terroristica. Uno scenario effervescente che ha segnato la messa in rete anche di “cicli addestrativi” ideati dai seguaci sauditi di Al Qaeda, con la pubblicazione di due quindicinali Sawt al Jihad nell’ottobre 2003 e Al-Battar Military Camp nel gennaio 2004, riservati all’indottrinamento ideologico e militare delle giovani leve maschili di tutta la galassia islamica, comprese le metropoli occidentali.


da rivista "Sawt al Jihad"



da rivista "Al Battar - Military Camp"

Con Al Khansa, il ruolo attivo della donna nella guerra santa irrompe invece prepotentemente sul palcoscenico di Internet per una complessa interazione di fattori: pianificazione militare tesa a coinvolgere tutte le componenti della Umma (comunità) nel jihad globale contro i miscredenti, desiderio di emancipazione femminile, contraddizioni politiche e sociali all’interno della società saudita.
Questa apertura editoriale era comunque già nell’aria, se, nel marzo del 2004, il n.13 di Sawt al Jihad preannunciava la nascita di un periodico di addestramento ‘al femminile’ simile ad Al-Battar Military Camp ed incitava le donne arabe a “cercare una morte onorevole” come le martiri palestinesi e le vedove nere del Caucaso.
Dietro un’operazione così innovativa nei confronti dell’universo femminile, c’è l’emiro Abdul Aziz Al-Moqrin, luogotenente di Al Qaeda in Arabia Saudita che, però, non riesce a vederne la realizzazione. Ucciso dalla polizia di Riad, il 18 giugno 2004, Al Moqrin, al pari del suo “collega” Al Zarkawi in Iraq, era noto al grande pubblico dei media per aver dato il via alla macabra spettacolarizzazione della decapitazione di ostaggi occidentali, come l’ingegnere aeronautico americano Paul Marshall Johnson.
Pubblicata il 20 agosto 2004, dal “Women’s Information Office nella Penisola Arabica”, Al Khansa ha rispettato la consuetudine dei movimenti islamisti radicali nell’adottare un nome che facesse riferimento al patrimonio religioso e storico dell’Islam, come valore fondante. La pubblicazione è, infatti, dedicata a Tumader bint Amru una leggendaria poetessa del VII secolo, soprannominata “Al-Khansa” per il suo piccolo naso e la sua bellezza. Seguace di Maometto, Al-Khansa fu tra le prime donne beduine a convertirsi all’Islam, partecipando in prima persona, nel 636, alla vittoriosa battaglia di Al Qadisiah (Iraq) sull’esercito persiano, nella quale caddero i suoi quattro figli. Piuttosto che disperarsi per la loro morte, la coraggiosa poetessa pronunciò una frase che ne avrebbe fatto il simbolo storico della donna-guerriero e, nello stesso tempo, di tutte le madri dei martiri: “Ringrazio Dio per avermi onorato della loro morte. Prego il Signore di unirmi a loro nel luogo della sua misericordia”.
La rivista, di oltre 20 pagine, scritta ‘a più mani’, da articolisti di entrambi i sessi, non senza una vena di paternalismo, rappresenta una sorta di vademecum per le aspiranti “mujahidat”, che vengono indottrinate sul ruolo e le mansioni della donna nell’ambito della comunità islamica (dall’educazione familiare ai campi di battaglia) e, nello stesso tempo, addestrate militarmente. Si tratta di lezioni dimostrative tese a forgiare il fisico e lo spirito della combattente, con l’aggiunta di esercizi di ginnastica respiratoria per dominare le passioni.
Sulle orme di un’altra seguace di Maometto, Rafidah Al-Ansari, la prima donna ad organizzare un ospedale da campo, c’e anche una sezione dedicata al pronto soccorso ed alla preparazione del kit d’emergenza, nel quale non devono mancare il miele naturale e l’insostituibile acqua della fonte di zemzem alla Mecca che scaturirebbe direttamente dal Paradiso!


foto ansa

Sembra che il mito di quelle antenate debba rivivere, dopo 1400 anni, nel ritratto della nuova eroina, una “donna-paladino”, sospesa tra tradizione e rinnovamento, capace di tutelare la famiglia e la comunità tanto dalle aggressioni esterne, quanto dalla degenerazione dei costumi che si insinua all’interno della società dominata dalla “corrotta” famiglia reale dei Saud.
Al bando dunque ogni frivolezza, al bando i movimenti femministi e il recente “Dialogo Nazionale” sui diritti e gli obblighi delle donne in Arabia Saudita, promosso dal principe ereditario Abdullah ibn Abd al-Aziz ed accusato di occidentalizzazione ed empietà, al bando la promiscuità nelle televisioni arabe, come il network televisivo saudita Al-Ekhbariya, dove la presenza di annunciatrici senza burqa davanti alle telecamere viene considerata una forma di prostituzione. Nessuna debolezza è concessa alla novella Al Khansa, impegnata com’è, tra il focolare domestico e la militanza, ad allevare, “sin dal proprio ventre”, i futuri combattenti, a sostenerli, a finanziarne la lotta e, se non bastasse, a scendere direttamente in campo al grido di “stringiamoci intorno ai nostri uomini. Alziamoci, con il velo, armi in mano, con i nostri bambini in braccio”.
Si tratta comunque di una strada tutta in salita, considerata la serie di “ostacoli” che la “jihadista praticante” dovrà superare nel suo cammino a causa di alcuni limiti legati alla sua “ridotta cultura religiosa”, all’“attaccamento alla vita terrena” ed alla “scarsa preparazione psicologica, militare e fisica”.
A queste naturali difficoltà la rivista risponde con un programma ad hoc, suggerendo un vero e proprio decalogo comportamentale. Ne viene fuori un profilo quasi ascetico dell’aspirante “mujiaheda” che recita il Corano imparato a memoria, si accontenta dello stretto necessario, mandando al rogo condizionatori d’aria e televisione, offre il proprio denaro per la causa, è un’instancabile predicatrice, sa sparare e “portare le munizioni in spalla”, pratica spesso il digiuno per raggiungere una forma fisica adeguata alla lotta ed è consapevole che il jihad è un dovere, per assolvere il quale non occorre il “permesso del marito o del tutore”.
E qui viene introdotto, senza equivoci, il concetto di parità tra uomo e donna, che rappresenta l’aspetto rivoluzionario di Al Khansa, l’ossatura sulla quale la corrente di pensiero più oltranzista del wahabismo saudita intende costruire una rete globale di donne combattenti, per rinfoltire le fila della militanza jihadista con buona pace per le paure dell’Occidente.
Per giustificare la femminilizzazione del jihad, la rivista ricorre al “diritto di necessità” in base al quale, se il territorio musulmano è profanato dall’esercito straniero, la guerra santa diventa un obbligo individuale, una responsabilità comune tanto per gli uomini, quanto per le donne, le quali possono accorrere in armi, in piena autonomia, senza permesso o scorte.
Si tratta di un automatismo ideologico, che mette d’accordo, secondo gli autori, le quattro scuole giuridiche ortodosse dell’Islam sunnita (“i quattro imam”) ed ha come illustre padrino lo sceicco egiziano Yussuf Al Qaradawi, una delle personalità religiose più influenti del mondo islamico attuale, il quale, già con una fatwa del maggio 2003, aveva legittimato le aspiranti kamikaze in funzione del prevalente interesse alla Guerra Santa, liberandole dal dovere del pudore e dell’invisibilità pubblica. In definitiva, in nome del “diritto di necessità”, i terroristi forzano la tradizione islamica: per la causa tutto diventa lecito.
C’è da chiedersi a questo punto se, paradossalmente, il fanatismo ed il culto della morte possano condurre in qualche maniera alla liberazione della donna musulmana. Senza giungere a conclusioni affrettate, il riconoscimento della parità tra sessi in funzione del jihad rappresenta, in ogni caso, un’evoluzione ideologica destinata a lasciare traccia in una società come quella saudita, dominata dall’estremo rigore morale dell’ortodossia wahabita, dove, senza il permesso scritto di un tutore (mahram), la donna non può né viaggiare, né studiare all’estero e le è persino vietato guidare, in base ad una legge del 1980.
In questo scenario, il terrorismo saudita legato ad Al Qaeda indica alle donne la via per raggiungere una libertà che sarebbe in ogni altro modo negata: opporre al dominio degli uomini il dominio della religione, una religione che, quanto più è accesa, tanto più dà potere alle donne, come osserva Carmen Bin Laden, ex cognata dello sceicco saudita, ne “Il velo strappato” il suo libro-testimonianza sulla famiglia Bin Laden.
Ma, in realtà, ciò che sembra prevalere nell’appello di Al Khansa è l’opportunismo tattico che segna un salto di qualità nelle progettualità della rete del terrore, sinora limitata all’impiego di uomini nelle operazioni “militari”, a differenza dell’intifada palestinese o dell’estremismo nazionalista ceceno che hanno utilizzato per le operazioni di martirio madri di famiglia ed adolescenti (a partire da quell’icona di Sana Mhaydaleh, la sedicenne che, nel 1985, si fece saltare in Libano ad un posto di blocco israeliano).
Del resto non saranno sfuggite agli strateghi del terrorismo le naturali doti della “mujiaheda” di destare meno sospetti nelle attività di infiltrazione, nel corso di una perquisizione o nell’esecuzione di attentati. Non sarà nemmeno sfuggito, sul piano mediatico, che la figura della donna-kamikaze, come quello della donna-bottino, mentre si allunga l’elenco delle donne occidentali rapite in Medioriente, potenziano gli effetti di una guerra sempre più psicologica contro gli “invasori” ed i miscredenti.



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