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GNOSIS 1/2005
Con i Patriot Acts
verso un nuovo modello di sicurezza


Giorgio REBUFFA

L’analisi dell’evoluzione subita dal sistema giuridico-legale americano, dopo i tragici avvenimenti dell’11 Settembre, induce a ritenere che la violata “insularità” americana e l’accresciuta emotività di quel popolo impongano l’adozione di ulteriori misure atte ad arginare la “guerra senza fronte”.


Molti osservatori sostengono che i cosiddetti Patriot Acts (acronimo per “Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism”) stanno trasformando, e sempre più trasformeranno, il sistema costituzionale statunitense.
Cercheremo di svolgere qualche considerazione su questo punto cercando di evitare sia l’ottimismo che il pessimismo di maniera, che caratterizzano molti commentatori.
Sono utili, anzitutto, due premesse che servono ad inquadrare la discussione nei suoi termini generali.
La prima riguarda la fine della cosiddetta “insularità” americana. Cioè il fatto che la fine dell’inviolabilità assoluta dell’area continentale del territorio degli Stati Uniti d’America, del tutto analoga a quella che caratterizzò il Regno Unito per trecento anni, pone nuovi, forse eccezionali, problemi di sicurezza alla democrazia americana.
Tali problemi di sicurezza toccano il cuore del sistema delle libertà americane: possono investire il controllo della vita privata, possono influire sulle garanzie giuridiche e processuali.


da www.aclu.org


I Patriot Acts sono precisamente un modo di rispondere a tali nuovi problemi di sicurezza, che, vale la pena sottolinearlo, sono diventati non più soltanto problemi di sicurezza internazionale, come erano stati prevalentemente fino a ieri, ma problemi di sicurezza interna.
La seconda premessa riguarda il funzionamento stesso del sistema costituzionale statunitense, un suo dato strutturale, non elastico e non modificabile. Questo carattere peculiare è che esso non funziona, nei suoi massimi livelli, come un sistema totalmente rappresentativo. Ché, anzi, proprio il suo fondamento originario è la diffidenza verso i meccanismi della rappresentanza.
Questa notazione certo non corrisponde alla vulgata corrente del sistema statunitense, ma senza questa lente di lettura è quasi impossibile comprenderne il funzionamento effettivo e i problemi che si affacciano - come già accaduto nella storia americana - in situazioni di guerra e di emergenza.
Non è questa la sede in cui mostrare nel dettaglio questa caratteristica e i suoi modi di funzionamento, d’altronde ben noti all’analisi costituzionale. Vediamone invece alcune implicazioni per il tema che qui interessa.
La diffidenza manifestata dai padri costituenti nei confronti del rischio di “straripamento” degli organi rappresentativi, la consapevolezza dei rischi dell’onnipotenza rappresentativa può essere riassunta in questa celebre citazione de Il Federalista, in cui si fissano i reciproci rapporti tra legislativo e giudiziario, quali poi saranno sviluppati dalla decisione della Corte Suprema Marbury v. Madison: “Le corti sono state designate ad essere un organo intermedio tra il popolo e il corpo legislativo al fine, tra l’altro, di mantenere quest’ultimo nei limiti imposti al suo potere... [esse] sono come i baluardi di una costituzione rigida contro i possibili soprusi legislativi”.
In queste righe è enunciato un vero e proprio principio fondatore, con il quale si istituisce quella che potremmo chiamare una “riserva d’area” operante a livello delle istituzioni costituzionali. Tutto ciò può essere riassunto, per il tema che qui interessa, in modo semplice (e semplificato): il potere esecutivo è - in parte con le assemblee rappresentative, che hanno però nel sistema americano competenze e attribuzioni un po’ diverse da quelle che hanno nell’Europa continentale e nella stessa Gran Bretagna - il soggetto di imputazione ed il responsabile della sicurezza nazionale. Ma la tutela dei diritti e della sfera individuale, anche in relazione alle disposizioni sulla sicurezza assunte dall’Esecutivo, spetta in via esclusiva al potere giudiziario. E’ quest’ultimo che in tema di tutela ha la parola definitiva. Questo che, ripetiamo, è aspetto fondante del sistema costituzionale americano spiega il grande ruolo del potere giudiziario. E’ un ruolo che determina peraltro acuti problemi sulle decisioni del potere esecutivo; problemi superiori a quelli che potrebbe porre l’attività del Congresso, in fondo dominato dalle stesse logiche politiche di ricerca del consenso. E certo superiori per la Casa Bianca di quanti ne abbia il potere esecutivo di qualunque altra democrazia occidentale, Inghilterra compresa. Si potrebbe sintetizzare questo punto, dicendo che il rapporto tra il presidente e il congresso è un rapporto di concorrenza in vista dell’apporzionamento di competenze e di poteri, mentre quello tra presidente e giudiziario è un rapporto di conflitto che ha come oggetto l’interpretazione dei limiti costituzionali: è il giudiziario a fissare tali limiti, anche in materia di decisioni relative alla sicurezza nazionale.
Il Presidente è, per usare un linguaggio tradizionale, la “guida politica della nazione”. Il che vuol dire che egli è responsabile in primo luogo di fronte ai suoi elettori e non, come in Europa Inghilterra inclusa, di fronte all’assemblea eletta. Ma, soprattutto, significa che egli è il titolare primo dell’indirizzo politico. E in primo luogo della sicurezza nazionale, i cui Servizi ricadono nella sua esclusiva competenza.
Proprio usando questa qualifica di “Commander in Chief” (come è scritto nella Costituzione), e sfruttando bene anche le implicazioni emotive connesse a tale ruolo, che George W. Bush ha vinto il suo secondo mandato.
Questo ruolo ha però creato, non da oggi, seri problemi a molti presidenti degli Stati Uniti. Queste difficoltà si sono manifestate in tempi anche lontani ed a presidenti sia democratici sia repubblicani e naturalmente su tutti gli aspetti della gestione militare di una grande potenza. Solo negli anni settanta, dopo le aspre polemiche sulla “guerra segreta” di Richard Nixon - bombardamenti che questi proprio in quanto Chief Commander aveva ordinato su Laos e Cambogia senza preventiva autorizzazione del Congresso - e dopo che Arthur Schlesinger aveva coniato la definizione di “presidenza imperiale”, il Congresso adottò, nel novembre del 1973, il War Power Act. Con tale normativa si addivenne ad una sorta di regolamento di competenza nei rapporti tra Presidente e Congresso in tema di operazioni militari. Regolamento di competenza che, per sintetizzare anche in questo caso molto schematicamente, determina una cooperazione obbligata tra Presidente e Congresso, anche e soprattutto in caso di interventi militari al di fuori di una formale dichiarazione di guerra. Con il War Power Act il Congresso rafforzava il diritto ad essere informato e consultato ed il Presidente otteneva una certa libertà d’azione.
Questa normativa ha però risolto solo una parte, certo decisiva, del problema. Altre questioni restano aperte. Questioni connesse soprattutto a due aspetti: quello della sicurezza e della prevenzione. E quello della detenzione e delle garanzie processuali dei sospettati di terrorismo.
Possiamo partire da una constatazione ovvia: l’undici settembre ha modificato la natura stessa del problema della sicurezza; e non solo negli Stati Uniti.
In primo luogo, come si è accennato, perché si è chiusa l’età della sicurezza insulare: per la prima volta il territorio continentale è stato oggetto di un attacco riuscito. Pearl Harbour era fuori dal territorio metropolitano ed il rischio di un attacco sottomarino da parte della Germania nella seconda guerra mondiale venne ampiamente prevenuto, e comunque non si verificò.
In secondo luogo - ed è forse la cosa più importante - l’orizzonte stesso della sicurezza si è rinnovato, a tal punto da far parlare qualche protagonista di “nuova sicurezza”. Il terrorista, il “sabotatore” nel linguaggio più arcaico, non è più soltanto un nemico esterno, ma ha - o può avere - una base “interna”. Si badi: non una base logistica, cosa che vi è sempre stata, ma una base politica e di consenso militante in modo da spezzare e frammentare i confini stessi delle comunità nazionali e territoriali. Questo è l’aspetto che l’opinione pubblica europea tende più a dimenticare.
A questi problemi di “nuova sicurezza” ha cercato di rispondere il primo dei Patriot Acts nel 2001.
Sotto la comune espressione di Patriot Acts si includono due diversi e specifici provvedimenti. Il primo, varato definitivamente come tale il 25 ottobre 2001, è un provvedimento del Congresso, adottato su impulso dell’Esecutivo e si intitola, un po’ enfaticamente, “Uniting and Strengthening America Act”, più comunemente Usa Patriot Act. Il secondo, più recente, si intitola Homeland Security Act ed ha colpito l’opinione pubblica europea perché per la prima volta negli Stati Uniti viene istituito, a livello federale, uno Homeland Security Department, una struttura, cioè, che si può chiamare, senza tradire troppo il significato in lingua inglese, Ministero degli Interni, a cui sono attribuite le competenze e gli strumenti tipici di tali organi in tutta l’Europa continentale e in Inghilterra. Non tanto l’ordine pubblico, che in un sistema federale è competenza principalmente dei singoli Stati, quanto la sicurezza interna, nel senso di intelligence e prevenzione, oltreché di controllo dei confini.
Va ricordato che accanto a questi due provvedimenti principali vi è una costellazione di norme più specifiche, come ad esempio quella restrittiva sull’immigrazione o sulla sicurezza degli aeroporti, che nell’insieme costituiscono un sistema normativo dello stato d’eccezione, espressione più corretta di quella logora di “legislazione dell’emergenza”.
Come la locuzione che abbiamo usato fa intendere, “l’eccezionalità” consiste in una serie di deroghe, più o meno transitorie, all’ordinarietà costituzionale. E’ una “eccezionalità” che, di conseguenza, genera tensioni e conflitti tra i soggetti che concorrono alla definizione e alla ridefinizione della Costituzione e della sua applicazione. Nel caso specifico, come già accennato e come diremo meglio, il conflitto, per la natura del processo costituzionale statunitense, ha come protagonisti la presidenza e il potere giudiziario.
La conseguenza più importante del Patriot Act non è, a veder bene, una qualche restrizione delle libertà individuali attraverso una ridefinizione dei diritti costituzionalmente tutelati, ma - come spesso è accaduto nella storia delle istituzioni statunitensi - una restrizione delle garanzie processuali, aprendo la strada a quello che, forse con qualche esagerazione, è stato chiamato “un nuovo sistema di giustizia”, ipotesi che ha sollevato opinioni critiche anche molto aspre, accanto a consensi entusiasti.
Ma andiamo con ordine, dando conto dei contenuti normativi principali dei Patriot Acts.
Il primo dei due provvedimenti, quello approvato sotto l’urto degli attentati dell’11 settembre, è un atto normativo a molte facce (in Italia si chiamerebbe una “legge omnibus”), diviso in dieci sezioni, ciascuna delle quali disciplina materie anche molto diverse. Si va da un forte allentamento del rigore nella ricerca delle prove e da una migliore definizione di ciò che significa l’intercettazione, soprattutto quando è estesa ai mezzi elettronici (“wire, oral and electronic comunications”); al riciclaggio ed alla lotta al finanziamento internazionale del terrorismo, chiarificando e precisando la normativa preesistente contenuta sul segreto bancario e sul movimento di capitali. Quindi si estendono le possibilità di intercettare, registrare ed utilizzare le intercettazioni telefoniche senza autorizzazione preventiva del potere giudiziario.
Ma la parte considerata più invasiva dell’Act, che ha sollevato i più complessi problemi costituzionali, è quella relativa alle garanzie processuali. In particolare quella relativa ai “foreign suspects”; la possibilità, da parte dell’Esecutivo, di far giudicare da tribunali militari e a porte chiuse, i sospetti terroristi catturati. Detto in modo piano il problema giuridico e costituzionale è il seguente: fino a che punto sono estendibili i limiti della carcerazione preventiva e “di sicurezza” e fino a che punto sono restringibili le garanzie processuali?
E’ necessaria, a questo punto, una precisazione sul sistema delle fonti, ossia sui postulati di legalità costituzionale in base ai quali i provvedimenti sono stati adottati.
Il postulato è l’esistenza dello stato di guerra e dell’emergenza nazionale. Formalmente la dichiarazione di emergenza è stata emessa dal presidente Bush il 14 settembre 2001 (Declaration of National Emergency by Reason of Certain Terrorist Attacks). Questa dichiarazione fu emanata sulla base di una risoluzione congiunta del Congresso che lo autorizzava “ad utilizzare tutte le forze adeguate e necessarie contro tutte quelle nazioni, organizzazioni o persone” che il Presidente stesso, in quanto Chief Commander, considerasse implicate in azioni terroristiche. La facoltà del Presidente di dichiarare lo stato di emergenza nazionale si fonda a sua volta sulla già citata War Power Resolution del 1973. Sullo stesso fondamento giuridico il presidente Bush poté, nel novembre 2001, emanare il Military Order con il quale si certificava - per così dire - che la nazione si trovava in “uno stato di conflitto armato che richiede l’uso delle forze armate statunitensi”.
Questo è il quadro all’interno del quale venne emanato il Patriot Act del 2001.
Dopo l’inizio delle operazioni militari in Afghanistan e, soprattutto, in Iraq la situazione è ovviamente percepita dalle autorità politiche e dall’opinione pubblica statunitense come sempre più acuta. E ciò porta all’adozione del secondo Patriot Act, cui accenniamo brevemente. E’ sufficiente dire che lo Homeland Security Act prende misure antiterrorismo ed antisabotaggio ben più incisive di quelle che furono avviate nel 1947 allo scoppio della guerra fredda. Infatti, come già detto, oltre l’istituzione di uno Home Department, che è principalmente la riorganizzazione di una serie di Agenzie e Servizi già esistenti – riorganizzazione, per la verità, più voluta dal Congresso che dal Presidente - si prevedono grandi schedature di sospetti terroristi, esattamente come era avvenuto in Europa negli anni settanta (in Germania e in Gran Bretagna) alle prese con i suoi terroristi.
Si pongono a questo punto due problemi.
Il primo è specificamente giuridico e riguarda i profili costituzionali dei provvedimenti di cui discutiamo, in particolare se siano siano stati violati i confini della legalità costituzionale.
Il secondo è quello di definire il tipo di conflitto di fronte al quale ci troviamo e quali sono le trasformazioni delle democrazie liberali dinanzi a tale cambiamento di scenario.
Sul primo aspetto va ricordato che il campo delle garanzie processuali è fin dagli anni sessanta del novecento, oggetto di contrapposizione tra potere esecutivo e potere giudiziario.
Infatti, oltre ad una rigorosa definizione del “due process of law”, è in quegli anni che la Corte Suprema emana diverse sentenze (tra cui le più importanti sono Berger v. New York e Katz v. United States, entrambe del 1967) in cui si stabilisce che la tutela del quarto emendamento della Costituzione, che vieta le perquisizioni illegali, si estende anche alle intercettazioni.


foto ansa

Il superamento di tali precedenti, oggi, viene argomentato sulla base della cosiddetta “wartime exemption”: cioè sul fatto che gli Stati Uniti si sono dichiarati in stato di guerra; stato di guerra che è il presupposto del secondo Patriot Act, soprattutto nella parte in cui vengono facilitate le procedure di indagine e di controllo elettronico.
Come si dirà meglio più avanti, la questione è stabilire fino a che punto possa arrivare la possibilità di delegare implicitamente (dandogli cioè una delega in bianco) il Presidente di provvedere all’emergenza. Per esempio per quanto riguarda l’istituzione di tribunali militari per giudicare i sospettati di terrorismo.
Vengono a questo proposito citati diversi precedenti (alcuni risalenti addirittura al periodo della guerra civile, alla presidenza di Abramo Lincoln). Tra questi il più importante risale alla seconda guerra mondiale, quando, nel 1942, otto sabotatori nazisti, di cui uno cittadino americano, furono giudicati e condannati da un Secret Military Tribunal, istituito per l’occasione dal presidente Roosevelt.
La seconda questione riguarda i limiti all’entrata nel territorio degli Stati Uniti. Qui vi è un precedente recente, di poco anteriore gli eventi dell’11 settembre. Il caso va citato anche perché esso è stato fatto oggetto di un film di successo (Terminal). Il caso è questo. Un cittadino lituano fermato all’arrivo in un aeroporto statunitense venne detenuto senza la possibilità di impugnare la decisione davanti ad un giudice. La Corte Suprema nel giugno del 2001, nel caso Zadvydas v. Davis, stabilì il principio che la clausola di garanzia del quinto emendamento, si debba estendere a tutte le “persone” e non sia riservata ai soli cittadini degli Stati Uniti. Questo perché, con le parole della Corte “la clausola del Due Process of Law fissata dal quinto emendamento, riferendosi espressamente alla persona e non al cittadino, tutela chiunque si trovi, legalmente o illegalmente, sul territorio americano”.
Questo è precisamente il punto affermato da tre recentissime sentenze della Corte Suprema che hanno in qualche modo incrinato una parte del Patriot Act del 2001.
La fattispecie è nota e riguarda i cosiddetti “prigionieri di Guantanamo”.
Per la precisione non si tratta di sentenze in senso pieno, di decisioni che risolvono una controversia dopo un processo, ma di writ, cioè di un’ordinanza, adottata su istanza di un soggetto al fine di ottenere una decisione relativa a fatti processuali.
Nei casi di specie i soggetti richiedenti erano detenuti a Guantanamo, per essere precisi, (i parenti di tali detenuti che erano stati privati delle loro capacità processuali), due cittadini americani ed un cittadino inglese. Due dei soggetti erano stati catturati durante azioni di guerra in Afghanistan. Il terzo, un cittadino ispanoamericano convertitosi all’Islam, era gravemente sospettato di far parte della rete terroristica di Al-Qaeda.
Le decisioni rese note a fine giugno del 2004 giunsero dopo un complesso iter legale che aveva già visto coinvolti altri organi federali. Si tratta dei casi Hamdi v. Rumsfeld, Rumsfeld v. Padilla e Rasuli v. Bush.
Pur trattandosi di decisioni distinte è possibile riassumere i quesiti complessivi di fronte alla Corte. E’ costituzionalmente consentita una detenzione indefinita di soggetti catturati in un teatro di guerra? Vi sono limiti anche al War Power del Presidente degli Stati Uniti? Inoltre: esiste la possibilità di garantire la sicurezza nazionale, anche in stato di guerra, mantenendo i limiti sanciti dalla legalità costituzionale? Infine: quali sono le condizioni nuove che giustificano l’approntamento di strumenti eccezionali per quel tipo speciale di guerra che è la guerra al terrorismo? Come è chiaro quest’ultimo quesito non è propriamente di carattere giuridico-costituzionale, ma politico e ci serve come conclusione di questo discorso.
La più importante di queste decisioni è Hamdi v. Rumsfeld, in cui l’opinione di maggioranza è dovuta al giudice Sandra Dea O’Connor.
Yasir Esam Hamdi era un cittadino americano di 24 anni, catturato in Afghanistan nel 2001 dalla cosiddetta Alleanza del Nord, mentre combatteva insieme ai Talebani e quindi consegnato all’esercito americano. Trasferito a Guantanamo, venne successivamente rinchiuso in una prigione militare in Virginia e successivamente in una base della marina in South Carolina. Qui rimase per due anni “incommunicado”: termine gergale per significare che non ha avuto contatti con alcun tipo di difensore.
Il padre del detenuto presentò una habeas corpus petition, un ‘istanza volta a chiedere che i soggetti che effettuano la detenzione giustifichino davanti ad una Corte le ragioni della detenzione stessa. In prima istanza una corte federale dichiarò insufficienti a giustificare la detenzione le argomentazioni dei funzionari del Dipartimento della Difesa. Successivamente la Court of Appeal del Quarto Circuito rovesciò la precedente decisione affermando che il Presidente degli Stati Uniti, proprio in quanto Chief Commander, ha la facoltà di dichiarare ogni soggetto catturato in “teatro militare” come “nemico combattente”.
Era chiaro a questo punto il quesito posto alla Corte Suprema: quali siano i confini entro cui si devono muovere le dichiarazioni e le definizioni del Presidente relative allo stato di guerra.
Va ricordato che l’importanza della definizione presidenziale di “nemico combattente” va collocata nel quadro del diritto internazionale. Precisamente alla luce della definizione rigida dello status di “prigioniero di guerra” posta dalla Convenzione di Ginevra del 1949, che fissando le condizioni per essere definiti Prisoner of War (POW), crea una categoria di “unlawful fighters”.
L’argomentazione della Corte,riassunta nelle parole della O’Connor, è rigorosa. Posto che l’obiettivo della lotta al terrorismo è quello di “preservare i valori in cui combattiamo” e posto che, da tempo immemorabile, sostiene la Corte, chi detiene prigionieri di guerra li deve mantenere in prigionia fino alla cessazione completa delle ostilità, nei confronti del terrorismo tale stato di guerra non è cessato. Tuttavia, continua l’argomentazione, il Presidente non ha un diritto di detenzione illimitato. E non ha neppure quello che potremmo chiamare - ma è espressione nostra - un “diritto di definizione” illimitato, nel senso che la qualifica di “nemico combattente” deve rispondere a parametri oggettivi. E che, infine, ma non è cosa di minore importanza, le garanzie del due process si estendono a tutti i soggetti che si trovano nel territorio posto sotto la giurisdizione della Costituzione degli Stati Uniti. E inoltre, sebbene non ricorrano le condizioni per attribuire ai soggetti in questione lo status di PWO, anche ad essi vanno tuttavia garantite le minime condizioni processuali.
La decisione della Corte è stata definita da qualcuno come “interlocutoria”, e certamente lo è. Ma è altrettanto certo che questo è il modo in cui procede il bilanciamento tra valori costituzionali imprescindibili ed esigenze di sicurezza, altrettanto imprescindibili.
D’altra parte in un lungo Report, curato da Richard Clarke, già coordinatore della lotta al terrorismo con Clinton e con Bush, e severo censore delle “distrazioni” dell’amministrazione statunitense nei confronti del rischio degli attentati, conclude con l’affermazione che “è indispensabile incrementare le capacità di sicurezza proteggendo le libertà civili”.
E’ certo, come ha osservato recentemente Angelo Panebianco, che esiste un “quasi irrisolvibile dilemma tra ragion di Stato e democrazia” e che lo stato di guerra endemico in cui ci troviamo mette in primo piano la ragion di Stato.
Così come è vero che i nuovi caratteri della guerra, la “guerra-ombra”, la sua “privatizzazione” stando all’espressione, forse troppo recisa, di Mary Kaldor, esercitano un’enorme pressione sulle istituzioni liberali.
Gli Stati Uniti si trovano di fronte a condizioni assolutamente nuove: la fine della propria insularità e la fine delle tradizionali condizioni di equilibrio nel continente europeo.
Il problema non riguarda solo loro, ma tutte le democrazie occidentali.
Il punto è che di fronte a problemi di sicurezza estremi, come quelli che si delineano dopo il settembre 2001, il mantenimento di un elevato standard di libertà interne, come siamo fin qui riusciti a fare, richiede decise azioni militari ed altrettanto decise azioni di sicurezza.
In altri termini: la democrazia americana può reggere il suo alto grado di libertà a condizioni di quasi assoluta sicurezza esterna.
Affiora, talvolta, tra i commentatori la tendenza a dimenticare gli ultimi anni e a considerare il mondo ancora nell’equilibrio bipolare. Questa tentazione intellettuale è pericolosa, perché porta a pensare che non sia successo niente. Invece è successo tutto.
In primo luogo è stata violata l’insularità americana, che era una delle condizioni dell’equilibrio dopo la seconda guerra mondiale. In secondo luogo è cambiata in modo radicale la tecnica dei conflitti, perché non vi è più - per lo meno non vi è più soltanto - una guerra tra Stati, né, di conseguenza, vi è un “fronte”, una linea di guerra: lo spazio della guerra contemporanea è potenzialmente totale.
Infine, dopo l’undici settembre vi è una crescente emotività dell’opinione pubblica. Questo è un punto decisivo, perché se è un pregiudizio quello secondo cui “le democrazie non fanno la guerra”, altrettanto grave pregiudizio è ritenere che la democrazia possa resistere in condizioni di insicurezza totale.
Gli Stati Uniti, e l’Europa, hanno quindi l’urgenza assoluta di ristabilire le condizioni di sicurezza, di affrontare realisticamente la “guerra senza fronte”, nell’unico modo possibile: preventivamente. Questa è anche la condizione per il mantenimento delle nostre democrazie liberali. Se non altro per il semplice fatto che garanzie di sicurezza e garanzie di libertà sono la stessa cosa.



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