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GNOSIS 1/2005
Il Forum

Padre Giuseppe DE ROSA, Lucio CARACCIOLO, Magdi ALLAM, Maurizio MOLINARI

FORUM:
Terrorismo islamico: il nemico di tutti. Che fare?


Il primo titolo al quale avevamo pensato per questo Forum era "Islam radicale contro Occidente. Che fare?". Una veloce riflessione critica ci ha suggerito il cambiamento, perché ormai l'asse di conflitto con l'Islam radicale attraversa frontiere ben più ampie di quelle dell'Occidente geografico e politico. Il conflitto col radicalismo vede infatti in prima linea, oltre alle democrazie laiche e liberali, molti stati a maggioranza islamica, l'est Europa, i Balcani, Israele. La prima domanda riguarda quindi il conflitto - asimmetrico - in atto tra radicalismo islamico e resto del mondo.


Padre Giuseppe DE ROSA
Lucio CARACCIOLO
Magdi ALLAM
Maurizio MOLINARI


D. L’11 settembre americano, l’11 marzo madrileno e il 3 settembre di Beslan sono le date simbolo di una guerra globale combattuta da eserciti “asimmetrici”. Da una parte società e strutture giuridico-militari tradizionali e, dall’altra, un’armata internazionale composta da aspiranti shahid, sceicchi, imam, ulema, guerriglieri, finanzieri, esperti di computer tutti fiancheggiati da una minoranza integralista disposta a tutto..
Come delineate i caratteri religiosi, ideologici e tecnico-operativi di questo conflitto (sempre che si concordi sulla definizione di conflitto)?

Padre Giuseppe De Rosa - Per comprendere il terrorismo di matrice islamica, la sua natura, gli scopi che intende raggiungere, gli strumenti e i metodi a cui fa ricorso e che tanto impressionano e spaventano gli occidentali, bisogna ricordare che esso ha dietro di sé una lunga storia ideologica, religiosa e politica, di cui bisogna tener conto per poter dare una "risposta" adeguata ed efficace all’attacco che porta contro i suoi avversari.
Anzitutto, tra le radici lontane del terrorismo bisogna porre il conflitto che fin dalla nascita dell’Islàm ha caratterizzato i rapporti tra il mondo islamico e il mondo occidentale. Conflitto che nei primi secoli si è concluso a favore del mondo islamico, il quale è riuscito a conquistare moltissimi paesi cristiani e a stringere la cristianità in una morsa tremenda, fino a mettere in pericolo l’esistenza stessa di un’Europa cristiana. Con la cacciata dei musulmani dalla Spagna (1492) e con le vittorie di Lepanto (1571) e di Vienna (1683), il conflitto si è risolto a favore del mondo occidentale, che nel corso dei secoli XVIII-XX è riuscito a colonizzare tutti i Paesi islamici, ad eccezione della Turchia, dell’Afghanistan e dell’Arabia Saudita. Tutto ciò ha costituito una tremenda "prova" - una fitna - per il mondo islamico: se la vittoria sui nemici dell’Islàm è il segno del favore di Allah per i suoi fedeli, Egli come ha potuto permettere che gli “infedeli” s’impadronissero dei Paesi islamici, ne depredassero le ricchezze, ne disprezzassero la legge e la religione fino al punto di voler imporre ai popoli musulmani i loro sistemi politici, le loro leggi e la loro religione?
Col favore di Allah, che non può mancare, i “credenti” “dominano sempre e non possono essere dominati”. Perciò, il dominio colonialista sul mondo islamico è un’offesa ad Allah e ai Paesi islamici che non può essere sopportata e che va “vendicata”.
Il fatto gravissimo, che ha scatenato il terrorismo contro l’Occidente, è stato che molti Paesi islamici, come l’Iran, l’Egitto, i Paesi del Maghreb, la Siria, dopo essersi liberati dal colonialismo, hanno preteso di “occidentalizzarsi”, copiando i sistemi politici, le leggi, la cultura e i costumi depravati dell'Occidente “infedele” e “corrotto”. Per opporsi a questa deriva, che portava l'Islam alla morte, è nato il “fondamentalismo islamico”, brodo di coltura del terrorismo.
Oggi i focolai del terrorismo sono essenzialmente quello israeliano-palestinese, quello ceceno-caucasico (che si propone non solo l’indipendenza della Cecenia dalla Federazione Russa, ma anche la creazione di un grande blocco islamico comprendente le repubbliche del Caucaso e dell'Asia centrale a grande maggioranza musulmana) e quello iracheno (che ha sposato in pieno la lotta di liberazione dell'Iraq dalle forze americane ed europee di occupazione). In realtà, il fatto nuovo dell'attuale terrorismo è che esso ha assunto, sia in Cecenia sia in Iraq, un carattere nazionalista: ciò conferisce anche alle sue azioni più nefande un carattere di legittimazione, perchè compiute per costringere le potenze occidentali occupanti (Stati Uniti, Regno Unito e Italia) a ritirare dall'Iraq i propri soldati e cacciare tutti gli “infedeli”, americani ed europei, dal suolo iracheno dove si trovano, a Najaf e a Kerbalà, i più venerandi santuari sciiti, sacri alla memoria di Alì e di Huséyn. Una scoperta fatta - sembra - recentemente dal terrorismo, è l’aiuto che i mezzi di comunicazione possono dare al raggiungimento dei propri obiettivi. Così, il terrorismo è divenuto “mediatico” ed ama filmare lo sgozzamento o il taglio delle teste delle sue vittime servendosi di Al-Jazira e di Internet per diffondere le terribili immagini in tutto il mondo e creare, così, sgomento e paura. I media occidentali fanno un'enorme pubblicità alle nefandezze dei terroristi e, dando sempre più spazio ai crimini dei terroristi perché sempre più orrendi, incoraggiano i terroristi islamici ad essere sempre più sadici e crudeli. Ci si può chiedere perciò se sia eticamente corretto che i media occidentali, per contentare la curiosità talvolta morbosa degli utenti, diano un aiuto tanto grande al terrorismo.
Non si può non rilevare, inoltre, che il terrorismo trae enormi vantaggi anche dalle garanzie che le leggi dei Paesi democratici offrono ai terroristi, permettendo loro di muoversi liberamente nel territorio dello Stato, di uscire e di rientrarvi senza difficoltà, di procurarsi e ricevere finanziamenti per inviarli alle organizzazioni terroristiche, di rifornirsi senza difficoltà di documenti falsi. Negli anni passati, ad esempio, qualche migliaio di aspiranti terroristi, residenti in Italia, è potuto andare ad addestrarsi in Afghanistan, per poi rientrare nel nostro Paese, costituendo anche cellule terroristiche in stretto collegamento con omologhi gruppi in Francia e Germania.

Lucio Caracciolo - Il titolo "Terrorismo islamico nemico di tutti" mi convince solo parzialmente.
Personalmente ritengo che i terroristi islamici - o meglio i jihadisti che usano questa tecnica per raggiungere i loro scopi - non siano in guerra contro “tutti”.
I proclami e i fatti prodotti dai jihadisti indicano, infatti, il loro obiettivo strategico nella riconquista alla vera fede delle società e dei paesi musulmani attualmente retti da quelli che essi considerano regimi corrotti asserviti all'Occidente. La guerra in corso è quindi una partita per il controllo di alcuni Stati chiave del mondo islamico, a cominciare da Egitto (da dove viene Ayman al-Zawahiri), Arabia Saudita ("patria" di Osama bin Laden) e Pakistan (dove si trovano probabilmente entrambi). In funzione di questi obiettivi, si tratta di colpire l'asse Israele-Stati Uniti, senza il cui sostegno detti regimi rischierebbero di essere travolti dai movimenti radicali che rivendicano il ritorno alla "purezza" dell'Islam originario. Un Islam "vincente" in quanto "puro". Una fede in grado di riscattare i musulmani da secolari frustrazioni, risalenti almeno alla "tragedia dell'Andalusia", spesso evocata da al-Zawahiri e dai suoi accoliti come paradigma negativo.
L'uso del terrorismo più spietato e spettacolare, come strumento di guerra, risponde sia a una necessità dovuta al carattere inevitabilmente asimmetrico dello scontro, sia alla ricerca della più vasta eco mediatica, fondamentale anche per il reclutamento di nuovi jihadisti. I quali sono riferiti al marchio al Qaida, che non corrisponde a una specifica organizzazione gerarchica strutturata sul territorio, in quanto comune ispirazione politico-religiosa, quella dell'islam radicale di matrice sunnita. Alcune delle cellule che fanno riferimento a tale ideologia sono in competizione e talvolta in dissidio fra loro, soprattutto quando perseguono agende locali o "nazionali". Di questa galassia Osama bin Laden è stato l'imprenditore principe e ne è diventato l'icona.
Non si tratta, quindi, di uno scontro tra religioni, ma di uno scontro fra terroristi islamici e alcuni Stati del mondo islamico che i paesi occidentali e i loro attuali alleati non intendono lasciare in balia dell'islamismo radicale e delle sue ambizioni geopolitiche.
Per quanto riguarda il fronte che combatte tali gruppi, esso è tutt'altro che coeso e unanime nella valutazione del nemico. Esso non comprende affatto il "resto del mondo" ma consta, grosso modo, dei seguenti schieramenti.
A) Paesi di prima linea impegnati su scala internazionale, guidati dagli Stati Uniti. I quali sono finalmente consapevoli, dopo l'1l settembre, della portata di una minaccia sottovalutata e per questo in passato incentivata (essendo il nemico strategico l'URSS, contro di essa potevano e dovevano essere mobilitati anche i nemici dei nemici, come i mujahidin in Afghanistan). A fianco degli Stati Uniti, e con una funzione spesso strategicamente dirigente anche per l'esperienza maturata sul campo nel conflitto con i palestinesi, lo Stato di Israele; più dietro, Gran Bretagna e paesi europei più vicini agli USA, come Italia e Polonia, oltre all'Australia.
B) Sempre in prima linea, ma su un piano diverso, i regimi filo-occidentali del mondo islamico o che comunque contano sulle potenze occidentali per non essere travolti dai jihadisti, ciascuno dei quali lotta per la sopravvivenza. Dopo l'11 settembre, questo composito fronte, che va dal Marocco al Pakistan e all'Indonesia, ha messo in comune alcune risorse soprattutto di intelligence, per sconfiggere le reti sinteticamente riferite al qaidismo. Ma la sua battaglia è essenzialmente rivolta al fronte interno, alla protezione di sè stesso dalla minaccia islamista. In alcune élite, inoltre, convivono filo-occidentali convinti, filo-occidentali d'occasione e nemici dell'Occidente collusi con i jihadisti, il che provoca effetti ambigui sulle loro politiche anti-terrorismo.
C) Alcuni paesi europei come Francia e Germania che dissentono dalla strategia USA-Israele, in particolare per quanto riguarda il teatro iracheno, ma partecipano alla lotta contro il terrorismo su altri fronti, dall'Afghanistan alla bonifica dei nostri territori dai terroristi. Su questo versante, dopo l'11 settembre, la collaborazione di polizia e di intelligence su scala quasi globale ha prodotto importanti risultati nella prevenzione degli attacchi e nello smantellamento di alcune cellule jihadiste.
D) Cina, Russia e diversi paesi asiatici, come l'Uzbekistan, sono esemplari di un ulteriore modo di interpretare la guerra al terrorismo, basato su tre princìpi: usare l'emergenza post-11 settembre per colpire gruppi islamici attivi sui rispettivi territori, come gli uiguri del Xinjiang o i ceceni, efficacemente ricondotti sotto l'etichetta qaidista; fornire sostegno logistico e/o di intelligence agli americani in cambio del loro appoggio o della loro mancata opposizione alle loro specifiche guerre anti-islamiste; guadagnare tempo per ristrutturare e rafforzare le rispettive economie, in modo che alla fine dell'emergenza terroristica esse possano meglio competere con quelle occidentali.

Magdi Allam - Chiariamo anzitutto che si tratta di una guerra. Una guerra dichiarata formalmente dalla centrale del terrorismo internazionale di matrice islamica capeggiata da Osama Bin Laden con la nascita nel giugno 1988 del Fronte internazionale per la Guerra santa contro gli ebrei e i crociati. Il suo manifesto esplicita una strategia di conquista dei paesi musulmani, in primis l’Arabia Saudita, per riesumare la Umma, la Nazione islamica. In quest’ambito si legittima il massacro di tutti i civili e i militari stranieri, a cominciare da americani e israeliani, considerati complici dei regimi musulmani che si vorrebbero abbattere. Si tratta quindi una guerra di natura aggressiva, non reattiva. Bin Laden è riuscito prima a privatizzare il fenomeno del terrorismo, emancipandolo dal monopolio degli “Stati-canaglia” degli anni Settanta e Ottanta (Iraq, Iran, Siria, Libia, Sudan e Yemen), poi a globalizzare una rete di cellule attive e dormienti presenti sia nei paesi musulmani sia in Occidente. Dopo l’11 settembre 2001 si è accentuato il coordinamento tra Al Qada e diverse sigle del terrorismo di matrice islamica nei territori palestinesi, Iraq, Turchia, Marocco, Yemen, Indonesia, Pakistan, Libano, Egitto e Algeria, fino a promuovere delle attività terroristiche in franchising, che sono cioè ispirate da Al Qada ma firmate da sigle locali.
In questo contesto, Al Qada dà la linea sul piano ideologico e religioso, mentre le singole cellule sono sostanzialmente autonome sul piano del finanziamento, procacciamento di armi ed esplosivi, individuazione dei bersagli e scelta dei tempi dell’attentato. Se non si tiene conto di questo contesto, si incorre facilmente nell’errore di immaginare reattiva una guerra del terrore che è invece aggressiva, così come si confondono i due livelli: i burattinai, che fanno capo a Bin Laden; i burattini del terrorismo, prodotti dei diversi terreni di coltura, che si annidano nelle aree delle crisi più accese, soprattutto nei territori palestinesi e in Iraq.

Maurizio Molinari - Personalmente ritengo che gli eserciti sono asimmetrici ma in conflitto ideologico.
Gli attacchi dell'11 settembre 2001, condotti da Al Qada contro gli Stati Uniti, hanno fatto emergere l'esistenza, dentro il mondo musulmano, di gruppi di attivisti accomunati dall'odio verso l'Occidente, la democrazia, la libertà, il rispetto dei diritti umani. Al Qada è il catalizzatore di un odio ideologico antecedente all'11 settembre ed è a questo odio che si rifanno le cellule islamiche che abbiamo visto all'opera in diverse località, da Madrid a Bali, da Beslan a Taba, da Riyad a Istanbul. Quest'odio ha in comune con il nazisfascimo ed il comunismo tre elementi: la convinzione che la democrazia liberale sia un sistema di governo in mano a lobbies spregiudicate, espansioniste e militariste; la visione del nostro sistema di vita come una società corrotta e immorale; l'avversione nei confronti degli ebrei. Come il nazismo si proponeva di creare l'Impero dei Mille Anni ed il comunismo sovietico la società ideale dell'uguaglianza, anche l'Islam radicale (ovvero estremista) ha un disegno globale: la cancellazione dalla carta geografica degli Stati arabi e musulmani frutto della decolonizzazione, considerati corrotti e filo-occidentali, per dare vita ad un Califfato pan-islamico retto da un'interpretazione radicale della legge coranica, per poi sfidare da una posizione di forza l'Occidente con l'obiettivo di vendicare la caduta di Costantinopoli, riconquistando le terre europee che furono sotto il dominio dei Califfi e distruggendo lo Stato di Israele. Trattandosi di un conflitto ideologico, lo scontro sarà di lunga durata. Anche perché, al momento, nessuno ha a portata di mano una definizione militare di vittoria: il progetto globale di Al Qada non appare realizzabile in breve tempo ma anche l'eliminazione di tutte le micro-cellule che lo perseguono non è prevedibile in tempi stretti.

D. Uno degli elementi peculiari della contrapposizione (armata e non) tra Islam radicale e resto del mondo è dato dalla estrema mutevolezza del terreno dello scontro: dal “triangolo sunnita” iracheno ai centri metropolitani dell’Occidente, dal Waziristan a una piccola cittadina osseta.
L’asimmetria del terreno dello scontro si ripropone nell’asimmetria delle “regole del gioco”: terroristi, presunti terroristi, propagandisti e fiancheggiatori quando vengono catturati si avvalgono (spesso con successo) di tutte le garanzie vigenti nella società da abbattere.
In che modo occorrerebbe rielaborare le capacità di “risposta” – preventiva, repressiva, e operativa – contro l’Islam radicale? quali “eserciti” mettere in campo? quali strumenti?

Allam - La strategia per contrastare il fenomeno del terrorismo globalizzato di matrice islamica non può che basarsi anch’essa sulla globalizzazione della risposta. Bisogna cioè dar vita al più ampio arco possibile di forze interessate a contenere e sconfiggere la piaga del terrorismo. I due livelli in cui si articola il fenomeno del terrorismo, quello dei burattinai e dei burattini, necessita di risposte differenti. Nei confronti dei burattinai non c’è alternativa alla repressione attuata con la massima fermezza. Abbiamo a che fare con degli imprenditori del terrore che strumentalizzano in modo cinico e spietato la religione e i kamikaze per conseguire degli obiettivi di potere politico. Loro hanno escluso a priori l’ipotesi del compromesso e disconoscono la prospettiva della pace con tutti gli altri, considerati indiscriminatamente miscredenti o apostati. Viceversa nei confronti dei burattini, giovani trasformati in robot della morte a seguito di un lavaggio del cervello, facendo leva sulle loro frustrazioni, sulla loro volontà di vendetta o sulla loro crisi di identità, si devono mettere in campo gli strumenti della mediazione politica, dell’emancipazione economica, della riforma religiosa, del progresso culturale e sociale al fine di prosciugare i terreni di coltura del terrorismo.
Specificatamente all’Occidente, trasformatosi anch’esso in un terreno di coltura del terrorismo islamico nell’ultimo decennio, la presenza di un numero apprezzabile di convertiti all’Islam, spesso provenienti dalle file dell’estremismo di sinistra e di destra, costituisce un rischio particolare perché i convertiti possono avvalersi dei diritti e delle prerogative di qualsiasi altro cittadino. Bisogna inoltre considerare che l’antiamericanismo e l’antiebraismo che animano l’ideologia degli estremisti islamici, hanno finito per raccogliere le simpatie e il consenso degli estremisti laici di sinistra, di destra e di ispirazione nazionalista, prefigurando un possibile coordinamento non solo sul piano politico, già esistente, ma anche sul piano operativo. Ecco perché, partendo dalla constatazione che l’arma vincente del terrorismo islamico è il kamikaze, il combattente islamico che aspira al “martirio”, s’impone una rivisitazione sia dei codici penali sia delle politiche della sicurezza che sono stati concepiti per una tipologia di terrorismo, quello degli anni Settanta e Ottanta, sostanzialmente diverso sul piano dell’identità, che era laica e non religiosa, e degli obiettivi, che erano nazionalistici o comunque localistici ma non messianici e globalistici. In quest’ambito, il primo passo da intraprendere è il riscatto alla piena legalità di tutti i luoghi di culto islamici, che devono svolgere la loro attività nella piena trasparenza sul piano giuridico, gestionale, finanziario e della dottrina religiosa. L’islam professato dalle moschee deve essere in piena sintonia con leggi e con i valori fondanti della Costituzione e della società dei paesi occidentali.

Caracciolo - "L'estrema mutevolezza dello scenario dello scontro" deriva da quanto sopra esposto. Le interpretazioni olistiche possono avere un senso propagandistico, di mobilitazione dell'opinione pubblica dei paesi occidentali - tutt'altro che convinta e compatta nel sostenere la guerra al terrorismo (o meglio, le guerre ai terrorismi). Ma sono analiticamente e quindi operativamente devianti. Se impostassimo la guerra ai terroristi islamici come guerra all'Islam non solo faremmo il gioco del nemico. Peggio: perderemmo la guerra. In un momento di candore, lo stesso Bush ha ammesso che questa guerra, così impostata, non si può vincere. Proprio perché non è una guerra "classica", ma una somma di guerre molto peculiari, fra loro solo parzialmente connesse (soprattutto per via ideologica).
Cosa vuol dire allora vincere la guerra?
Vuol dire raggiungere una serie di obiettivi; in primo luogo impedire la radicalizzazione permanente della "nazione islamica", giacché essa significherebbe presto o tardi il raggiungimento degli obiettivi geopolitici di Osama e associati. Tali obiettivi, poi, potrebbero essere graduati ed andare dalla presa del potere in alcuni Stati chiave fino alla liquidazione di Israele (bersaglio primo e più vicino dei jihadisti) consentendo così la saldatura al terrorismo palestinese.
La sconfitta di questi progetti, invece, aprirebbe la prospettiva di uno sviluppo più integrato - fra quei paesi e noi occidentali - di alcune parti del mondo islamico, segnatamente quelle arabe, al cui destino sono legati nostri (italiani) vitali interessi di sicurezza e di approvigionamento energetico.
Il ripudio delle "terribili semplificazioni" del "pensiero unico" su come vincere la guerra al terrorismo implica analisi e strategie molto più selettive e mirate su scala regionale e nazionale. Gli strumenti da mettere in campo sono, come sempre, bastoni e carote. Cominciamo dai primi, l'intelligence (raccolta e diffusione per opportuni canali delle informazioni sui vari gruppi islamisti, intensificando la cooperazione internazionale sulla base dei minimi comuni interessi condivisi) e le connesse operazioni di infiltrazione e disarticolazione delle cellule terroristiche e delle loro reti di finanziamento, evidentemente possibili soprattutto grazie alla collaborazione dei paesi di origine dei jihadisti; l’uso selettivo di forze speciali ed eventualmente di forze armate ordinarie quando si tratti di liberare un territorio o uno Stato preso in ostaggio dai terroristi (Afghanistan e secondo Bush anche Iraq, connesso in un modo o nell'altro ad al-Qaida); la deterrenza (campagne politiche, operazioni finanziarie, etc.) nei confronti soprattutto degli apparati militari o di potere che in alcuni paesi islamici si rivelano ambigui o collusi col nemico.
Quanto alle carote: in primo luogo, gli incentivi politici, economici, di status e di immagine agli Stati e alle società che dimostrano di volere e sapere sradicare la cultura e le organizzazioni che sostengono il terrorismo islamico, soprattutto in vista di una loro integrazione nei circuiti internazionali degli scambi, ma nel rispetto delle loro identità culturali e nazionali e senza ambizioni o pretese coloniali (occupazioni dirette o indirette di spazi fisici o immateriali, come da "guerra all'islam"). Una cura particolare dovremmo dedicare alle comunità islamiche presenti in Italia e in Europa, poiché creando un modello di convivenza possiamo rinviare un’immagine positiva del nostro Paese nel mondo di origine degli immigrati e dimostrare che il dialogo e la collaborazione sono possibili, contrariamente a quanto predicato dagli ideologi del jihad. Naturalmente, il progetto di convivenza si deve rivolgere soprattutto alle aree musulmane più vicine o più sensibili agli estremisti, perché sono loro che debbono essere riportate nell'alveo del dialogo, non quelle moderate che ne sono già parte per definizione. Gli "islamici di servizio" non ci servono, sono un boomerang.
Infine, dovremmo sensibilizzare le opinioni pubbliche europee e occidentali intorno ai rischi e alle poste in gioco nella guerra al terrorismo, riportando questo slogan su terra e curando di non isterizzare un pubblico che potrebbe essere incline a reazioni irrazionali e controproducenti - nella direzione dello "scontro di civiltà". Inoltre, consapevoli che per un certo periodo di tempo dovremo abituarci a convivere con questa minaccia, e che comunque la tecnica terroristica non potrà essere abolita una volta per tutte, dobbiamo ritenere che solo l'uso strategico di tale tecnica da parte di alcuni gruppi islamisti possa essere efficacemente represso. Purtroppo, tutti i dati di cui disponiamo dimostrano che stiamo perdendo la guerra di propaganda e che l'icona bin Laden è più appealing che mai nel suo mondo di riferimento.

De Rosa - Il terrorismo è una galassia di movimenti e di forme, talvolta in contrasto gli uni con gli altri, ma con lo stesso duplice obiettivo. Il primo è combattere l’Occidente, contrastandone - e magari distruggendo o almeno diminuendo – il potere politico, militare, economico e culturale, perché esso costituisce una perenne minaccia contro i Paesi islamici, per il fatto che cerca di dominarli politicamente e militarmente, derubandoli delle loro ricchezze (il petrolio) e asservendoli ai suoi interessi, e per il fatto che intende imporre ai musulmani il suo sistema democratico (che è un’offesa ad Allah, al quale - e non al popolo - appartiene il potere) e, soprattutto, i suoi costumi corrotti e corruttori.
Il secondo obiettivo del terrorismo è di distruggere i governi e i governanti dei Paesi islamici che si sono alleati con l’Occidente, soprattutto con l’America - che è il peggiore nemico dell'Islam - e pongono se stessi e i propri popoli al servizio degli occidentali, come sono, per esempio i padroni dell'Arabia Saudita, che nella prima guerra del Golfo permisero agli Stati Uniti di servirsi del territorio saudita - terreno sacro per la presenza dei luoghi santissimi dell’Islam: la Mecca e Medina – come base militare e logistica per attaccare un’altro Paese musulmano, l’Iraq! Oggi l’Arabia fornisce agli Stati occidentali il petrolio che serve loro per dominare il mondo islamico. Ecco perchè Osama bin Laden tra i punti programmatici di Al-Qada, poneva in primo luogo la lotta contro gli Stati Uniti e poi contro l’Arabia Saudita per togliere ai governanti di tali paesi il petrolio che doveva servire per il benessere dei popoli islamici.
Quanto agli strumenti da usare per combattere il terrorismo, bisogna assolutamente escludere la guerra “preventiva” contro l’uno o l’altro degli “Stati-canaglia”. Le due guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq hanno dimostrato chiaramente che la guerra al terrorismo lo fa crescere, lo rafforza e, soprattutto, lo giustifica nei suoi atti più nefandi.
Se gli americani, infatti, con i loro bombardamenti uccidono donne e bambini, perché i terroristi non possono fare altrettanto?
Se l’esercito israeliano per uccidere presunti terroristi, distrugge intere abitazioni, dove vivono – e muoiono – donne e bambini, perché Hamas non può attaccare gli autobus che trasportano a scuola i bambini israeliani?
Scartata la guerra come strumento per combattere il terrorismo, si deve puntare in maniera più risoluta sull'azione preventiva e investigativa; soprattutto sul coordinamento e sullo scambio di informazioni dei diversi Paesi occidentali: azione che, purtroppo, spesso è carente, anche per motivi di prestigio nazionale e di gelosia professionale. Un grave handicap di cui soffrono le forze di contrasto al terrorismo è non solo l’esiguo numero di persone che conoscono l’arabo, ma soprattutto che hanno piena cognizione della cultura - vale a dire, la mentalità, i modi di pensare, i sentimenti - dei popoli musulmani.

Molinari - L'analisi potrebbe essere condotta anche rilevando che l’Islam radicale ha tre livelli. Il nucleo è composto dai gruppi terroristi, i loro finanziatori ed i leader religiosi che li legittimano. Il secondo livello è quello degli Stati che li proteggono ed il terzo è costituito dai milioni di persone che scendono in piazza in capitali come Il Cairo, Damasco o Rabat urlando slogan anti-occidentali. Ogni livello esige un tipo differente di risposta. Contro i terroristi la risposta non può che essere militare e di intelligence, una lotta senza quartiere con l'uso di ogni mezzo nel rispetto della legge. Nei confronti degli Stati che li proteggono bisogna esercitare forti pressioni internazionali affinché le leadership cambino politica e, solo come estrema soluzione, si può fare ricorso all'intervento militare per ottenere un cambio di regime. Il fronte più difficile è il terzo, perché è proprio l'opinione pubblica dei Paesi musulmani il terreno dove il terrorismo germoglia e dove, dunque, può essere davvero sconfitto. Solo l'emergere di voci moderate, politiche quanto religiose, all'interno dell'Islam può fare terra bruciata attorno ai terroristi. Le nostre democrazie possono difendersi, blindarsi, decidere interventi militari, sanzioni e rovesciamenti di regimi, ma il terrorismo islamico può essere definitivamente sconfitto solo dai musulmani stessi, riuscendo ad emanciparsi dall'odio ideologico antioccidentale per poter costruire società più libere, proprio come avvenuto per i popoli dell' Est con la pacifica rivoluzione del 1989. Un discorso a parte va fatto sull'infiltrazione di cellule terroristiche nei Paesi non-musulmani. Qui il fronte è duplice: da un lato si colloca la sicurezza e dall’altro l’immigrazione. La necessità di proteggersi da individui che si confondono nella popolazione civile pone la questione del confine fra sicurezza collettiva e libertà personale, destinato ad essere regolato da un nuovo complesso di leggi. Negli Stati Uniti le dure polemiche sulle disposizioni dei Patriot Acts dimostrano quanto sarà difficile percorrere questa strada. Anche per ciò che concerne l'immigrazione, si tratta di adattare le leggi alla realtà del post-11 settembre, garantendo piena integrazione ai nuovi venuti ma chiedendo in cambio un rigido rispetto delle leggi nazionali.

D. Quanto pesa la mancata soluzione della questione palestinese nella genesi e nello sviluppo del Jihad globale?

Allam - Certamente l’eventuale soluzione della questione palestinese eliminerebbe uno dei terreni di coltura più floridi del terrorismo. Tuttavia oggi la questione palestinese è ostaggio del terrorismo islamico e laico palestinese. E non viceversa. E’ questo terrorismo che impedisce una soluzione negoziata che consentirebbe la nascita di uno Stato palestinese in grado di convivere pacificamente al fianco di Israele. Perché questi terroristi disconoscono il diritto di Israele all’esistenza e legittimano il massacro degli ebrei. Così come è un dato di fatto che la leadership dell’Autorità nazionale palestinese ha perso l’occasione storica di dare una terra al proprio popolo con il rifiuto di Yasser Arafat di sottoscrivere un accordo di pace a Camp David nel 2000. Per tutto ciò è più verosimile che si pervenga a una soluzione solo dopo il contenimento del terrorismo a livello locale e internazionale.

Caracciolo - Fra i musulmani, soprattutto arabi, ritengo che pesi oggi molto più di quanto non abbia mai contato per bin Laden. La sua soluzione sarebbe un enorme passo in avanti verso la vittoria. Ma le notizie che vengono da questo fronte non sono incoraggianti. Concordo anch’io con il ritenere che sia probabile arrivare prima a metabolizzare la guerra al terrorismo che a risolvere, d'intesa con tutti i protagonisti, la questione israelo/palestinese.

De Rosa - La distruzione d’Israele è l’obiettivo che il terrorismo - in particolare, quello di Hamas, diramazione in territorio palestinese dei Fratelli Musulmani da una parte, e dall’altra quello in stretto legame con gli Hezbollah libanesi - persegue con accanimento in relazione al valore simbolico che riveste, in quanto è la presenza, su un territorio islamico, degli Stati Uniti. A mio avviso, non è ipotizzabile, per il terrorismo palestinese e internazionale, nessuna possibilità di accordo con Israele, perchè ciò significherebbe lasciare in mano agli “infedeli” un territorio che Allah ha dato ai palestinesi come “lascito fino alla fine del mondo”. Perciò fa opera meritoria, dinanzi ad Allah, chi uccide gli israeliani “usurpatori” ed è un “martire” (shahid) ogni attentatore “suicida”, poiché muore per Allah e per ridare e Lui e al suo popolo un suolo che è stato usurpato con la forza e consegnato ad estranei, venuti dall'Occidente. Allo stato attuale – considerato che ad ogni attentato di Hamas e dei “martiri di Al-Aqsa” corrisponde una reazione israeliana omicida e altrettanto crudele - non si vede come si possa uscire da tale circuito. In realtà, se le due parti non si convincono che solo un negoziato leale e realista può far uscire israeliani e palestinesi da una situazione rovinosa per i due popoli, non ci sarà mai pace in Medio Oriente.

Molinari - Non possiamo sottacere, tuttavia, che leggendo i testi di Al Qada, o di altri gruppi e leader islamici radicali, ci si accorge che la questione palestinese viene affiancata a quelle cecena, irachena, afgana e del Kashmir. Per l'Islam radicale la Palestina è il fronte di lotta contro gli ebrei così come la Cecenia lo è contro i russi, il Kashmir contro gli indù e l'Iraq e l'Afghanistan contro gli eserciti dei crociati. Il riscatto dei musulmani dall'oppressione passa attraverso la Guerra Santa ed il sacrificio - da qui gli attacchi suicidi - contro il nemico infedele. Tutto ciò è indipendente dalle scelte politiche che i governi di Gerusalemme, Mosca, New Delhi, Washington, Londra, Varsavia o Roma possono fare. Se anche il governo israeliano decidesse da subito di accettare tutte le richieste dell'Autorità Nazionale Palestinese - confini, rifugiati, divisione di Gerusalemme - la crisi non avrebbe fine perché il nazionalismo palestinese degli anni Sessanta e Settanta, che inaugurò il terrorismo con i dirottamenti aerei, la strage degli atleti di Monaco e gli attacchi alle Sinagoghe, è stato soppiantato dentro i Territori di Cisgiordania e Gaza da gruppi come Hamas, Jihad islamica ed Hezbollah il cui obiettivo è la liberazione dell'intera Palestina - ovvero la distruzione di Israele - al pari di quanto i miliziani di Basayev vogliono il ritiro delle truppe russe dall'intera Cecenia e la guerriglia pakistana persegue la riconquista di tutto il Kashmir indiano. Se è vero che un accordo negoziale fra Israele e palestinesi toglierebbe all'Islam radicale un cavallo di battaglia, solo la sconfitta del terrorismo consentirà una svolta definitiva della situazione. Dunque, anche secondo me, tempi lunghi. A meno che l'emergere di una nuova leadership palestinese riesca a depurare i Territori dalla presenza dell'Islam radicale, creando le condizioni per trattare su una composizione permanente del conflitto.

D. La stragrande maggioranza dei popoli islamici e dei credenti musulmani sparsi nel mondo è non soltanto aliena da qualsiasi tentazione estremista ma ripudia apertamente lo strumento terrorismo.
Questo porta molti di noi a ritenere che quello in corso non sia un conflitto di civiltà o un conflitto di religioni. Per questo si pone il problema: con chi trattare?
E’ sufficiente l’accordo con l’Islam moderato e maggioritario per cercare una via d’uscita dal conflitto, oppure è necessario chiederne il coinvolgimento diretto (e, quindi, l’alleanza) nella lotta al terrorismo fondamentalista?

Caracciolo - I dati di cui disponiamo dicono che una parte maggioritaria delle opinioni pubbliche dei paesi islamici non è affatto aliena da qualsiasi tentazione estremista né ripudia le "azioni di martirio". Cito solo un sondaggio dell'americano Pew Research Center dell'inizio 2004, da cui risulta che Osama bin Laden gode dei favori del 65% dei pakistani, del 55% dei giordani e del 45% dei marocchini, laddove Bush godeva rispettivamente del consenso del 7,3 e 8% della popolazione. Sarebbe, altresì, interessante un'indagine anagrafica in detti paesi onde verificare quanti nuovi nati siano stati chiamati Osama, dopo l'11 settembre 2001 (pare moltissimi).
Quella in corso non è ancora una guerra di civiltà, ma rischia di diventarlo se continuiamo a percorrere i binari finora seguiti. La campagna d’Iraq è stata sotto questo profilo un disastro strategico, perché ha estremizzato le opinioni pubbliche islamiche, ha diviso i nostri governi dalle nostre opinioni pubbliche, indebolendoci, e rischia di consegnare nuove e più avanzate basi logistiche ai terroristi dopo il nostro graduale disimpegno.
La stabilizzazione dell'Iraq nel medio periodo è ancora possibile, a patto che coinvolga tutte le componenti locali e il mondo islamico circostante, e non si riduca al sostegno degli elementi più filo-occidentali e, quindi, oggi più impopolari.

De Rosa - Indubbiamente, dovrebbe essere l'Islam “moderato” a combattere il terrorismo, i suoi ispiratori e i suoi fiancheggiatori; ma che cos’è l’Islam “moderato” e chi sono i “moderati”?
Si dice abitualmente che la massima parte degli islamici siano “moderati” e quindi siano contro il terrorismo: ma si tratta di concetti generici, ambigui e di difficile precisazione, come i termini “moderatismo-moderati”, e di supposizioni non provate, come l’affermazione continuamente ripetuta che la grandissima maggioranza dei musulmani sia “moderata”! Ciò, forse, è vero per i musulmani residenti in Europa, ma non si hanno prove certe che sia vero per l’oltre miliardo di persone che compongono l’Umma islamica.

Molinari - Se il nemico è l'Islam radicale ed il conflitto è ideologico, allora trattare significa accettare le condizioni di Al Qada: ritirare ogni tipo di presenza occidentale dalle terre dell'Islam ed assistere passivamente all'abbattimento di tutti i governi e i regimi dei Paesi arabi e musulmani. Nell'impossibilità di farlo, le democrazie occidentali sono chiamate a dialogare con i leader arabi moderati affinché promuovano all'interno dei loro Paesi quelle riforme capaci di combattere povertà e sottosviluppo dalle quali si origina il rancore contro il mondo industrializzato e, più in generale, la modernità. In passato, tale dialogo è stato segnato dalla scelta della realpolitik: si sostenevano economicamente e politicamente i regimi più dispotici in cambio della promessa di stabilità. Ma tale strategia non ha pagato perché la repressione interna ha contribuito a rafforzare, non ad indebolire l'Islam radicale. Serve, dunque, un approccio nuovo, offrire sostegno ed aiuti solo in cambio di riforme reali. Questa è la nuova frontiera del dialogo fra Occidente ed Islam.

Allam - Lo scontro di religione e di civiltà lo predica, lo promuove e lo persegue Bin Laden con i suoi seguaci. Noi non dobbiamo cadere in questo tranello. Ricordiamoci che i musulmani sono stati le prime e continuano a essere le più numerose vittime del terrorismo islamico. Ma non è sufficiente la politica dei manifesti e degli abbracci. Per contenere e sconfiggere questa minaccia, i musulmani devono partecipare alla grande alleanza internazionale che si batte contro il terrorismo. E devono farlo su delle basi chiare e ferme, condividendo un comune sistema di valori a cominciare dal rispetto della sacralità della vita di tutti. Il terrorismo potrà essere sradicato soltanto ponendo fine alla cultura della morte che sotto varie forme e a diversi livelli serpeggia un po’ ovunque, nell’ambito politico, mediatico, religioso e sociale del mondo musulmano. Gli interlocutori quindi sono tutti coloro che sono pronti a voltare pagina senza ipocrisie e ambiguità. Proprio perché questo terrorismo fa leva sull’arma dei kamikaze, s’impone lo sradicamento dell’insieme della cultura che l’ha resa possibile. Gli eventuali cedimenti tattici e compromessi sostanziali rinvieranno il regolamento di conti ma non risolveranno il problema. In ballo c’è la nostra sopravvivenza come persone che condividono una comune civiltà dell’uomo.

D. Quali le prospettive a medio e lungo termine?

Caracciolo - Le prospettive sono legate alla nostra capacità di un salto di paradigma secondo le linee sopra tracciate. Se le estrapoliamo linearmente dalla situazione attuale, non abbiamo motivo di ottimismo. Ma i paesi occidentali hanno le risorse politiche, economiche, militari e di intelligence per prevalere, almeno nel medio periodo. Possiamo vincere. Basta non commettere altri errori strategici, derivanti purtroppo da pregiudizi ideologici che inficiano le analisi e quindi le decisioni operative. Iraq docet.

De Rosa - Anzitutto, bisogna abbandonare, come già sostenuto, ogni pretesa di poter distruggere il terrorismo in poco tempo. Esso ha tesi ideologiche, culturali, politiche e religiose così profonde e radicate nella storia, e obiettivi di rivincita e di vendetta del mondo musulmano oppresso sul mondo occidentale oppressore - sentiti come giusti dai popoli islamici - che è assai difficile pensare che il terrorismo islamico possa essere sconfitto ed eliminato in poco tempo. E' giusto dire che la maggioranza dei popoli islamici è contro il terrorismo. Sarebbe ingenuo, però, pensare che le grandi masse musulmane, nel loro subconscio, non vedano nel terrorismo antioccidentale - che fa tanta paura all’America e all’Europa - il mezzo di cui Allah si serve per punire i misfatti compiuti dal mondo occidentale contro il popolo dei “credenti”. Il fatto impressionante - ma significativo - è che sono assai pochi coloro che nel mondo islamico condannano in maniera chiara e senza ricorrere a formule ambigue il terrorismo. Lo fanno gli intellettuali islamici che vivono attualmente in Europa, trovando però scarso ascolto nei loro Paesi di origine; lo fanno anche in genere i musulmani che vivono e lavorano nei paesi occidentali, i quali si rendono conto che il terrorismo li danneggia gravemente nella stima, nell’accettazione e nelle occasioni di lavoro, rendendo loro la vita più difficile di quanto già non sia per se stessa la vita di un immigrato. Bisogna, perciò, convincersi che la lotta al terrorismo sarà lunga, difficile e di esito incerto: che, ad ogni modo, il terrorismo di matrice islamica sarà uno dei gravi problemi dei primi decenni del secolo XXI.

Molinari - E’ necessario, a mio avviso, ribadire che dopo la sconfitta afgana Al Qada si è frammentata. La galassia di gruppi che vi fanno riferimento sono indipendenti ed autonomi. Gli attentati, pertanto, continueranno ed i terroristi tenteranno di attaccare con armi non convenzionali, chimiche, batteriologiche o nucleari. Da qui l'importanza che gli Stati Uniti attribuiscono alla necessità di impedire a Stati sospettati di legami con il terrorismo - come Iran e Corea del Nord - di disporre di armamenti nucleari. Attentati a parte, l'obiettivo strategico della nuova leadership di Al Qada è riscattarsi dalla perdita dell'Afghanistan con la conquista di uno Stato su cui tornare ad insediarsi, per porre le basi del nuovo Califfato. Potrebbe riuscirci in Iraq, facendo fallire le elezioni ed obbligando le forze multinazionali al ritiro; in Pakistan, rovesciando Pervez Musharraf con un golpe armato o in Arabia Saudita, spodestando la famiglia reale con una faida di palazzo. L'obiettivo strategico della coalizione anti-terrorismo è invece eliminare una ad una le cellule dell'Islam radicale, favorendo al contempo una stagione di riforme nel mondo arabo. Si tratta, in ogni caso, di processi lunghi che implicano il perdurare di un braccio di ferro con i terroristi, destinato a diventare sempre più un test di resistenza per le nostre opinioni pubbliche.

Allam - L’esperienza della guerra in Afghanistan attuata con un forte coinvolgimento degli autoctoni, ha confermato la bontà del principio dell’ “intervento umanitario”, già sperimentato in Bosnia e Kosovo. Oggi gli afghani sono certamente più liberi e vivono in modo più dignitoso rispetto all’epoca buia del regime dei Taliban. La guerra in Iraq, che ha invece escluso gli autoctoni, ha prodotto una situazione instabile sul piano della sicurezza, dell’economia e della politica. Con la risoluzione n. 1546, votata all’unanimità dall’Onu, si è stabilito un calendario per la democratizzazione e per il ritiro delle forze straniere. Il terrorismo in Iraq, di matrice islamica e nazionalista, sta gradualmente perdendo il consenso della popolazione che si rende conto del fatto che la stragrande maggioranza delle vittime degli attentati sono iracheni. E’ verosimile che il successo, seppur simbolico e parziale delle elezioni politiche previste per il gennaio 2005, favorirà la stabilizzazione del fronte interno. Molto dipenderà dal rilancio dell’economia: a tutt’oggi il 60 per cento degli iracheni vive al di sotto della soglia di povertà anche se il Paese galleggia sul greggio.
A mio avviso entro i prossimi due anni l’Iraq potrebbe dare sufficienti garanzie per l’imprenditoria privata. E il successo dell’esperienza democratica in Iraq sarà positivamente contagiosa per l’insieme del Medio Oriente. Parallelamente la marcia della Turchia verso l’adesione in seno all’Unione Europea influenzerà sempre positivamente il processo di democratizzazione e liberalizzazione dei regimi mediorientali e musulmani. Credo che alla fine di questo decennio le sponde meridionali e orientale del Mediterraneo potrebbero risultare più simili, sul piano dei valori e delle aspettative, all’Occidente di quanto non lo siano oggi. Ma dipenderà anche dalla volontà e dalla capacità dell’Europa di promuovere, d’intesa con gli Stati Uniti, una seria e concreta strategia di riforma politica e economica del Medio Oriente.





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