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GNOSIS 1/2005
Il '68: miti, realtà ed eredità di quegli "anni formidabili"

Pio MARCONI

Sul ’68 sono stati versati fiumi d’inchiostro. Ne sono state offerte, spesso, letture "politiciste" tutte sottese dall’accusa che la data simbolo della prima rivolta giovanile globale dell’età contemporanea sia da considerare anche l’inizio dei terrorismi europei degli anni 70-80. Mario Capanna ha definito quel periodo addirittura "anni formidabili".
Pio Marconi ci offre un’analisi del "fenomeno 68", profonda quanto sintetica, dalla quale emergono le vere matrici di una rivolta giovanile, spontanea e irridente - almeno agli inizi - che ha inciso profondamente su tutti i modelli di (ri)costruzione delle società occidentali dopo il secondo conflitto mondiale.
Un fenomeno che è stato studiato e approfondito in tutte le sue mille sfaccettature ma che ha visto come uno dei suoi più perspicaci e profondi analisti non un politologo, non un filosofo, non un accademico ma un Pontefice: Paolo VI.


L’entità della mobilitazione

Un saggista statunitense (1) ha riproposto la “questione del 1968” con una ricostruzione dei movimenti nati, in quell’anno, nelle università, con una analisi delle proteste globali in senso ideologico/geografico, con un pregevole sforzo di sistema. Merito, non ultimo, dell’opera è la fuoriuscita dalla logica degli anniversari che impone spesso letture schematiche degli eventi: acritiche apologie o condanne. Si tratta di uno studio che raccoglie un ricco materiale (soprattutto tratto dalla stampa) e che, astenendosi da giudizi eccessivamente di parte, consente un esame della vastità dei fenomeni, della sovranazionalità di questi ed infine la formulazione di qualche ipotesi sulla possibile reiterazione di quella esperienza. Quanto basta, anzi, quanto è più che sufficiente, per suggerire una riflessione.
Quale era la tipologia sociale dei giovani impegnati nei movimenti del 1968? Quale il numero dei partecipanti, dei simpatizzanti per le forme politiche di quel periodo? Quale il consenso?
L’epicentro delle mobilitazioni era l’università; i movimenti del periodo sono stati quindi definiti “fondamentalmente borghesi”, soprattutto nel paragone con l’esplosione operaia del 1969 e del 1970 e con l’intreccio di conflitti irrituali, di bisogni elementari e di violenza, della seconda metà degli anni ’70 (2) . La definizione non tiene però nel dovuto conto il fatto che nelle università della fine degli anni sessanta cominciava ad iscriversi anche una generazione non-borghese.


da www.pernondimenticare.net


L’insediamento universitario del movimento e la presenza di una leadership colta, a volte proveniente da ambienti sociali medio/alti, ha condizionato i giudizi sulla quantità della mobilitazione. Il 1968 è stato considerato come un fenomeno di élite, dotato di amplificazione mediatica capace di coinvolgere, quindi, una minoranza attiva o (come si diceva malevolmente) vociante. A rendere ulteriormente difficile una valutazione sta il fatto che, a ridosso degli eventi, negli USA e in Francia, alcuni passaggi elettorali vedono impegnati capi carismatici dei nuovi movimenti con risultati complessivamente miseri. Alain Krivine, eminente nel “maggio”, si presenta alle presidenziali in Francia ottenendo 300.000 voti (3) . Negli USA esponenti di organizzazioni politiche antisegregazioniste cercano di misurarsi nelle competizioni elettorali o di avere ingresso in partiti preesistenti con scarsissimi consensi (4)
I movimenti, nel momento della loro esplosione per valutare l’ascolto del quale godono, sono strumenti utili piuttosto indiretti: autoanalisi di protagonisti, autobiografie, storiografia partecipata ed indagini sociologiche, a caldo, condotte da studiosi imparziali.
Un testimone descrive, nel ’68, con divertita efficacia, la tipologia di coloro che, in un’università di massa, ascoltano i nuovi leaders. Ci sono i fuorisede e gli studenti lavoratori, figure giunte da poco all’università, che stentano a capire, proprio perché in conflitto con la propria biografia, l’accusa rivolta alle strutture accademiche di selezionare gli accessi. C’è il “fascista epidermico” che intravede “l’aspetto divertente della cosa”. C’è il ragazzo di ottimi natali, alla moda, “collettone”, al quale interessa sostenere gli esami con meno fatica possibile e magari prolungare “il periodo dorato”. C’è il futuro assistente che condivide le proteste considerandone però gli svantaggi: “le biblioteche di facoltà non si possono più frequentare. Tra i professori, alcuni scompaiono, altri si intrufolano tra gli agitatori” (5) .
Nel complesso, il movimento gode, in alcuni paesi d’Europa, di consensi di massa. Lo si ricava ad esempio da una ricerca condotta da Gianni Statera, nell’anno accademico 1968-69 a Roma, su di un campione rappresentativo di studenti: il 48,6 % dichiara di aver partecipato ad almeno una delle assemblee generali del movimento, il 49,3% si dichiara completamente d’accordo con la protesta, un altro 41% lo è parzialmente (6) . Fra coloro che si dichiarano d’accordo con la protesta, si trovano studenti variamente orientati: a sinistra, ma anche e in netta maggioranza studenti di centro sinistra, di centro, di centro destra (7) .
Una ricerca di Gian Enrico Rusconi, sulla secolarizzazione e sulla legittimazione dell’organizzazione e della gerarchia ecclesiastica, mostra un altro aspetto della questione: la netta politicizzazione dei partecipanti, impegnati nel movimento studentesco. L’affermazione secondo la quale le autorità accademiche hanno rifiutato la democratizzazione dell’università, riceve l’86,7 % di risposte in accordo. L’86,2% degli intervistati non è del parere di sacrificare le proprie opinioni su richiesta delle autorità religiose. L’80,7% non è d’accordo a definire squilibrio (invece che sfruttamento) la condizione operaia e quella dei paesi in via di sviluppo. Il 75,7% non ritiene di considerare parole come rivoluzione o contestazione globale, il frutto “di astratto dottrinarismo” (8) .
Più limitati i consensi del movimento negli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’università, una ricerca condotta dall’Educational Testing Service di Princeton N.J. attribuisce a circa il 10% della popolazione universitaria (700.000 su 6,7 milioni) simpatie per i movimenti studenteschi e disponibilità, in certi casi, alla mobilitazione (9) .

Società e sapere

In tutte le società il passaggio dall’adolescenza all’età adulta è segnato da riti di iniziazione. Nel mondo moderno, che vive in virtù dell’inter-dipendenza di competenze, l’esame di valutazione di un ciclo scolastico è un ricordo di antichi rituali. In Italia, come in altri paesi, la conclusione dell’istruzione superiore è definita maturità, termine di una fase di apprendimento e segno di crescita biologica.
I riti di iniziazione sono simbolici ma con un costante riferimento alle funzioni che il giovane dovrà svolgere. Nelle società primitive l’iniziazione prefigura gli sforzi per la sopravvivenza in un mondo naturale ostile. Nel medioevo europeo il rito è una prova di adattamento alla funzione che si dovrà esercitare (capolavoro, virtù del coraggio, ecc). L’iniziazione si perpetua anche nelle società industriali ove il passaggio coincide con l’abbandono dello status (la protezione della famiglia di origine) e la proiezione nelle responsabilità sociali.
In una società capitalistica più che matura, quella degli anni ’60, i riti di iniziazione cominciano a mostrarsi inadeguati alla funzione di maturazione sociale (il diploma di laurea come precondizione di un inserimento qualificato nel mercato del lavoro) che viene ad essi attribuita. I movimenti del 1968 iniziano costantemente con una dura contestazione dei meccanismi di trasmissione del sapere, dei contenuti degli insegnamenti, della vocazione del mandarinato docente. Una condanna non soltanto dottrinaria, ma basata sul profilarsi all’orizzonte di rapporti nuovi tra studio e società, tra studio e destini sociali.
Le critiche del sistema formativo superiore si muovono su alcune direttrici: il sapere impartito è inadeguato alla gestione di problemi tecnico/sociali nuovi; l’istituzione universitaria perpetua un sistema sociale ingiusto e la segregazione delle classi; la comunicazione del sapere verticale (alto/basso), fondata sull’obbedienza, inibisce l’innovazione/creazione.
La contestazione tocca sia questioni di quantità della trasmissione di cultura, sia di qualità. Il problema della quantità grava su tutti gli atenei dei paesi sviluppati. Nel corso degli anni ’60 una spinta sociale, dal basso, ha prodotto un allargamento del numero degli iscritti all’università. Il fenomeno riguarda sia gli USA, nei quali l’università è prevalentemente privata, sia i paesi dell’Europa continentale, con istruzione superiore prevalentemente pubblica. Negli USA un più diffuso benessere, la moltiplicazione delle borse di studio erogate dalle imprese (in virtù di misure di detassazione), la normalità dell’integrazione studio/lavoro, hanno favorito l’accesso agli atenei di centinaia di migliaia di giovani, provenienti da famiglie svantaggiate. In Europa l’aumento del numero degli ingressi è il prodotto di politiche di Welfare: borse di studio pubbliche, calmiere sulle tasse universitarie (finanziamento pubblico delle università), maggiore duttilità nella definizione dei titoli necessari all’iscrizione.
L’ampliamento della platea degli utenti non si accompagna ad una allocazione di risorse adeguate. In Francia tra il 1958 e il 1968 il numero degli studenti universitari è triplicato. Tre quarti degli immatricolati sono destinati però ad abbandonare gli studi (10) . In Italia la crescita degli studenti è analoga, triplicati tra il ’58 e il ’68 (da circa 200 mila a più di 600 mila), con un’offerta formativa in progressiva contrazione qualitativa. I professori che insegnano, nel ’58, ad una élite di universitari sono per il 30% ordinari (cioè selezionati con rigorosi accertamenti di qualità scientifica), nel 1968 il numero degli ordinari è sceso al 13 % dei docenti (11) .
Le stesse esigenze di consenso che impongono allo Stato del benessere di aprire l’università a strati sociali non favoriti, sottraggono allo studio e alla ricerca scientifica risorse che vengono dirottate sull’intervento assistenziale, in progressiva crescita nei paesi sviluppati (pur con alcuni, ricorrenti, colpi di freno) nell’ultimo trentennio del XX secolo.
Vi è poi anche il problema della qualità e dell’adeguatezza alla competizione scientifica/produttiva del sapere trasmesso. Alcuni documenti, elaborati dalle assemblee e dai movimenti, svolgono analisi rigorose. Non solo slogan sulla scuola di classe, ma riflessioni sui meccanismi che rendono la formazione universitaria solo apparentemente egualitaria. I laureati, nelle analisi dei collettivi studenteschi, sono collocati in due categorie: quelli che hanno potuto darsi e ricevere una formazione di eccellenza, idonea al comando, e quelli che ricevono una formazione di routine, adeguata a funzioni serventi. I due tipi di laureati, sono il prodotto dei diversi punti di partenza, dell’influenza dell’ambiente nell’apprendimento, del tempo destinabile alla preparazione e alle lezioni, del patrimonio culturale di base.
Dall’università “escono innanzitutto coloro per i quali la collocazione professionale, in una posizione dirigenziale, è già garantita dalla situazione sociale della famiglia di provenienza”; gli altri verranno collocati a livelli medio bassi della scuola, del pubblico impiego, della banca, dell’industria (12) . I laureati di questa seconda schiera sono “sottoutilizzati rispetto alla loro preparazione generale e dequalificati” (13) .
Il meccanismo di accertamento del sapere favorisce la discriminazione, “l’esame, più o meno equo (…) si traduce in una conferma per gli studenti che fanno parte dell’università, e in un massacro per quelli che ne sono esclusi” (14) .
Un motore delle agitazioni è la consapevolezza che la società vive la fine di un ciclo, che la maturità delle società industriali richiede minori competenze diffuse e produce la crescita di mansioni dequalificate.
La manifattura ha bisogno dell’operaio massa, privo di quel patrimonio specialistico che era tipico dell’artigiano e della prima classe operaia industriale. Lo stesso lavoro intellettuale viene parcellizzato e deresponsabilizzato dall’avanzare delle tecniche fordiane di organizzazione del lavoro, nella fabbrica e negli uffici. La richiesta di un lavoro intellettuale non riguarda mansioni di élite ma è di massa, che non si accompagnano a particolari privilegi ed a retribuzioni di eccellenza.
Un ulteriore motivo di protesta viene dalla consapevolezza del fatto che, con la fine degli anni ’60, la crescita economico/produttiva non appare più come un fenomeno inarrestabile nei paesi sviluppati (15) . Si comincia a percepire che la manifattura non assorbirà sempre nuovo lavoro, manuale ed intellettuale. Il senso di delusione coinvolge sia gli studenti appartenenti a strati sociali che hanno avuto solo di recente accesso all’istruzione superiore, sia gli studenti appartenenti alle vecchie élites. I primi percepiscono come l’accesso all’università non significhi più promozione sociale. I secondi capiscono che l’allargamento dell’istruzione ha eroso parte del privilegio.

Conflitti di generazione

I movimenti del 1968 sono stati a volte interpretati come conflitto di generazione. Sull’utilizzabilità del concetto in quello specifico contesto e sul concetto stesso di conflitto di generazione si è sviluppato un dibattito che in parte continua ancora (16) . Per utilizzare la categoria del conflitto di generazione occorre valutarne diversi significati.
Prendiamo in esame, prima di tutto, il significato metaforico.
Il conflitto in tale accezione vedrebbe la competizione di due gruppi caratterizzati reciprocamente da un marcato differenziale di età. La storia del XIX e del XX secolo è fatta anche di conflitti di generazioni in questo senso. Moti e rivoluzioni del 1821, del 1830 e del 1848 videro come protagonisti giovani, borghesi ed aristocratici, schierati contro le parrucche della Restaurazione. Il simbolo è rappresentato da Giacomo Leopardi contro il conte Monaldo. L’interventismo del 1914 è una rivolta di giovani scolarizzati contro classi dirigenti formatesi nella pace liberale dei cento anni (1814-1914) (17) , orientate alla tutela degli interessi piuttosto che a valori come quello delle identità e della nazionalità. I regimi di massa del XX secolo sono animati da élites giovani che rovesciano vecchi gruppi dirigenti. La storia politica contemporanea registra numerosi patti generazionali con i quali, nel seno di un partito o di una rappresentanza politica, avvengono cambiamenti di classe dirigente. Un conflitto di generazione di questo tipo avviene anche nel seno di aziende e di sistemi economici. Il passaggio dalla old alla new economy è stato, ad esempio, anche un cambiamento generazionale. Il conflitto generazionale in senso metaforico si manifesta come circolazione di élites che non contestano valori comuni di riferimento e che condividono, in linea di massima, l’etica di quelle che le precedono. Consideriamo, poi, il significato specifico di conflitto tra genitori e figli.
In questo senso il conflitto di generazione è quello che si manifesta all’interno del nucleo familiare e che vede i figli rifiutare il sistema di valori dei genitori al fine di definire la propria identità. Il conflitto di generazione è una costante della famiglia e rappresenta una tappa della socializzazione. L’individuo si libera dai condizionamenti dello status per competere nel vortice degli interessi societari. Nell’ambito familiare, l’assenza di conflitto di generazione è considerata una patologia produttrice di devianza (mentale o sociale). Un conflitto generazionale, dotato di risvolti immediatamente politici, è testimoniato raramente dalla storia contemporanea. Si può pensare al movimento dei decabristi che cercano di abbattere l’autocrazia in Russia, al nichilismo che si diffonde in alcuni ambienti borghesi ed aristocratici della Russia della seconda metà del XIX secolo, al pacifismo di tipo tolstoiano, al gandhismo.
I movimenti del 1968 assumono caratteristiche particolari perché si manifestano come conflitti di generazione dotati del secondo dei due significati. Una contestazione, tipica del processo di liberazione dall’autorità familiare, diventa un modello per la protesta contro le istituzioni. Non manca nel 1968 anche una spinta al conflitto del primo tipo, cioè generazionale/metaforico e orientato ad una sostituzione di élites. Ma questo genere di conflitto è mascherato da modalità conflittuali tipiche dell’ambiente familiare.
Utilizzando uno slogan coniato dai movimenti femministi degli anni ’70 si può affermare che con il 1968 il personale diventa politico (18) . Le modalità della liberazione postadolescenziale dal gruppo familiare diventano linee di azione politica. Il conflitto si colora di ribellione, la contrapposizione si trasforma in rifiuto, la divaricazione diventa demonizzazione. La rivolta si manifesta come una cerimonia esistenziale.
“Quel che non è politica non riempie la vita di un uomo oggi”, questa frase, scritta nelle Lettere a una professoressa della Scuola di Barbiana animata da don Lorenzo Milani, ricorre spesso nei materiali prodotti dai movimenti studenteschi in Italia. La politica non è solo realizzazione di valori, conquista di obiettivi ma anche gratificazione soggettiva. Le occupazioni delle università servono a riscoprire la propria personalità e a misurarsi con l’altro: “bene, i 70 giorni ci sono serviti a far saltare queste porcate. Ci si è scoperti reciprocamente come esseri umani, pieni di nuovi bisogni radicali e di vecchie putride necessità. Ma almeno le riserve mentali sono state messe nell’immondezzaio” (19) .
Per spiegare asprezza ed innocenza delle proteste che animano il 1968, occorre collegarsi al secondo significato di conflitto di generazione. I movimenti contestano i sistemi politici con la veemenza con la quale l’adolescente aggredisce le figure genitoriali.
Il fervore (e la violenza dei toni) appartiene ad un rituale di liberazione che non è ispirato dalla volontà di distruggere i genitori. La virulenza verbale e comportamentale è imputabile allo sforzo di recidere radicati sistemi di attaccamento. L’adolescente rifiuta i genitori, cerca di capovolgerne i valori, aspira a comportamenti diversi da quelli dell’ambiente familiare, ma non vuole (nella stragrande maggioranza dei casi) la scomparsa fisica delle figure genitoriali. Il sistema di valori e le figure adulte devono al contrario essere preservate per mantenere in vita un modello di riferimento dal quale, nella fase di liberazione, discostarsi, oppure al quale riferirsi in modo inverso/speculare.
Nel conflitto familiare i toni sono esasperati. I genitori sono accusati di odiare i figli! I figli sono accusati di uccidere simbolicamente i genitori! La veemenza verbale si accompagna raramente e spesso solo simbolicamente alla violenza materiale. Lo schiaffo è un buffetto, dotato però di fortissime significanze lesive. Qui un’ulteriore caratteristica dei movimenti: esasperati, stupiti, adirati quando la reazione istituzionale passa dal simbolico alla materialità.
La sfida e la contestazione della repressione sono tipiche del conflitto generazionale in senso stretto. Nella dimensione tradizionale della politica e del conflitto sociale la repressione è una variabile indipendente, derivata dal sistema istituzionale. Essa viene contestata ma non suscita stupore. Nel conflitto generazionale, in senso stretto, la repressione è sempre considerata inaspettata. Allo stesso tempo si cerca di sfidare la controparte a innescare una punizione capace di legittimare e di perpetuare lo scontro.
Un aspetto del movimento tipicamente generazionale viene messo in luce da Edgard Morin che scopre come il gioco di massa diventi un elemento specifico dell’agire politico: “Vi è stata una dimensione di gioco permanente che ha costituito il carattere originale di questa Comune giovanile” (20) . Sempre Morin osserva che con il Maggio francese c’è un capovolgimento dei riti di iniziazione. Questi non sono più proposti dalla società adulta ma vengono messi in atto dalla società giovane che inventa occasioni di scontro con “spiriti terrificanti e malefici” (21) .
Il carattere generazionale del movimento condiziona anche in parte le immagini che di esso vengono fornite dalle forze politiche e da istituzioni non secolari, ma dotate di elevato valore simbolico. Nelle sinistre (ad Ovest così come ad Est) il movimento suscita reazioni critiche e di fastidio. I dirigenti comunisti vedono riemergere i fantasmi di eresie liquidate negli anni ’30, oppure temono un ritorno di stalinismo, sconfitto nel 1956, al XX congresso del PCUS, ma ripreso, contro Kruscëv, dal Partito cinese. In Occidente il carattere giovanile dei movimenti e l’insediamento universitario di essi evoca ulteriori fantasmi. Nella memoria riemerge il giovanilismo che portò alla vittoria fascismo, nazismo, franchismo.
Il movimento degli studenti appare connotato di coloriture dannunziane, oggettivamente colludenti con la reazione, si parla quindi di “fascismo rosso” e di “sovversivismo delle classi dominanti” (22) .
Non mancano naturalmente nelle sinistre ufficiali posizioni favorevoli ai movimenti, ma si tratta di forme di dissidenza ovvero di scelte legate a coincidenze elettorali.
Diverso l’atteggiamento dei vertici della Chiesa. La posizione del Papa è stata spesso trascurata. Paolo VI affronta il tema dei movimenti nell’udienza generale del 25 settembre del 1968 prendendo le mosse da una garbata, e forse ironica, critica dell’estremismo. I giovani “sono liberi e arbitri di se stessi e tendono ad esserlo anche degli altri; la moda della ‘contestazione’ li seduce, la smania del cambiamento supplisce spesso in loro la consapevolezza dei fini da raggiungere; essi non temono alle volte d’arrivare ad esplosioni di follia; vi è fra loro chi ama la violenza, come segno di virilità e di abilità, come uno sport del coraggio, o come un’avventura generosa di un film-western. Sono giovani!” (23) . Poi il Papa passa a trattare il rapporto dei giovani con una Chiesa che sembra appartenere al vecchio, “è un’istituzione tradizionale: come può essere capita e accettata da una certa gioventù che istintivamente rifugge dalla storia passata, dalla tradizione? Tutto ciò ch’è di ieri è di per sé ‘matusa’; e questa facile qualifica è una condanna senza appello” (24) .
Paolo VI definisce però riduttive le critiche correnti sui giovani e finisce con il formulare un inequivocabile apprezzamento per il sorgere di nuove culture. “Non è forse vero che oggi la gioventù è appassionata di verità, di sincerità, di ‘autenticità’ (come ora si dice); e ciò non costituisce un titolo di superiorità? Non vi è forse nella sua inquietudine una ribellione alle ipocrisie convenzionali, di cui la società di ieri era spesso pervasa? E nella reazione, che sembra inesplicabile ai più, che i giovani scatenano contro il benessere, contro l’ordine burocratico e tecnologico, contro una società senza ideali superiori e veramente umani, non vi è forse un’insofferenza verso la mediocrità psicologica, morale e spirituale, verso l’insufficienza sentimentale, artistica e religiosa, verso l’uniformità impersonale del nostro ambiente, quale la civiltà moderna va formando?” (25) . Il Papa mostra un netto apprezzamento nei confronti di un movimento che contesta quanto egli stesso rappresenta ma che, allo stesso tempo, riscopre principi di impegno e di solidarietà e che, soprattutto, esce dal conformismo delle generazioni precedenti. Il modello dei giovani degli anni ’50 e ’60, ripiegati sul privato e su una visione egoistica della società, appare, agli occhi del Papa, travolto dalla ondata di passioni e di sentimenti che animano i nuovi studenti. David Riesman aveva descritto, alla fine degli anni ’50, lo studente statunitense come “studente freddo”; Helmut Schelsky aveva parlato in Germania di una “gioventù scettica” (26) . Dalla freddezza e dal rifugio nella privacy si è passati, con le occupazioni universitarie, al ritorno nel pubblico ed all’impegno.

Ideologie e teorie

I movimenti del 1968 si manifestano improvvisamente, in un periodo caratterizzato dalla pacifica coesistenza tra le due superpotenze: quiete sottesa da contraddizioni e da conflitti di tipo nuovo. Alla pacifica coesistenza, iniziata con la presidenza Kennedy e con Kruscëv alla guida del Partito comunista sovietico, non corrisponde una situazione di immobilità e di tregua sulla scena internazionale.


foto ansa

L’indipendenza delle nazioni coloniali, la formazione di un fronte dei non allineati, l’esistenza di gravi punti di crisi sulla scena mondiale (in Asia, Africa, America Latina), la stessa Rivoluzione culturale cinese, segnalano l’esistenza di nuovi conflitti che si muovono al di fuori della logica e degli interessi delle due superpotenze.
Le politiche di coesistenza del campo socialista e le vie pacifiche scelte dai partiti comunisti in Occidente, in contrasto con il fiorire di nuovi conflitti che ripropongono la lotta di classe e l’antimperialismo, favoriscono la rinascita e l’insorgere di ideologie e teorie di contestazione radicale dello “stato di cose presente”. Al marxismo classico, predicato dai partiti comunisti e dalle sinistre ufficiali, si contrappongono analisi e progetti che, in modo diversificato, sostengono una lotta più dura al sistema capitalistico. Le nuove analisi/strategie sono di cinque tipi.

Il marxismo eretico
Si tratta di un marxismo che non si identifica con la politica e con le filosofie predicate dal Partito sovietico e dalla tradizione comunista. Per alcuni versi è una teoria accettabile in Occidente proprio in conseguenza delle persecuzioni alle quali è stato sottoposto dai regimi comunisti. Nel corso degli anni ’60 vengono riscoperti autori, movimenti ed atteggiamenti che erano stati rimossi nella tradizione sovietica e in quella dei partiti comunisti occidentali: Lev Trotzky, l’opposizione operaia in Russia, l’estremismo bollato da Lenin come malattia infantile, Victor Serge, Boris Souvarine, Rosa Luxemburg. La cultura va alla ricerca di un marxismo (o anche di un socialismo) dimenticato, per sperimentare itinerari diversi dal mix sovietico di autoritarismo e immobilismo.

Il terzomondismo
Le ideologie terzomondistiche si affermano nei paesi ex coloniali e, più in generale, nell’area del sottosviluppo (un autore, simbolo del tempo, è Fanon) e trovano robusti supporti teorici nella cultura statunitense ed europea (Sweezy, Mandel). Il terzomondismo non si limita alla predisposizione di programmi di crescita ma delinea nuove strategie contro il capitalismo, integrando/negando le teorie di Marx e di Lenin sul primato della classe operaia nel processo rivoluzionario. Il terzomondismo condanna, poi, le forme di lotta consacrate dal movimento operaio nel secondo dopoguerra: la coesistenza e la via pacifica possono essere un’eccezione, ma non la norma.

Il maoismo
Il pensiero di Mao, riproposto dalla rivoluzione culturale cinese e dalle Guardie rosse, presenta una visione del socialismo e del partito diversa da quella sovietica. Nell’analisi del leader cinese il partito sembra più democratico ed attento ai bisogni della base: necessità dell’autocritica, un’organizzazione che non ha sempre ragione, una strategia costruita dal basso con l’inchiesta e non con i sacri testi. Di Mao viene apprezzato, in Occidente, il messaggio conflittuale e l’impulso a non far coincidere la rivoluzione con la difesa del socialismo realizzato, quindi con l’immobilismo. Il conflitto infine non è solo funzionale ad un obiettivo esterno ma contribuisce a purificare (27) individualmente chi lo pratica: “la guerra rivoluzionaria è un antitossico che non solo elimina il veleno del nemico, ma libera anche noi da ogni impurità” (28) .

Il cristianesimo critico (29)
Il cristianesimo critico si manifesta sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo. Aspetto specifico di questo orientamento è l’ostilità al primato ecclesiale delle gerarchie e la scoperta del ruolo dei laici. Sul piano politico si evidenziano teorie che argomentano la centralità del problema della povertà e della disuguaglianza e che legittimano la violenza quando essa rappresenti l’unica strada per la giustizia. Negli anni sessanta hanno diffusione le tesi di padre Camillo Torres, ex sacerdote impegnato nell’Esercito di liberazione nazionale in Colombia, il quale afferma che la Rivoluzione “non soltanto è consentita ma addirittura obbligatoria per i cristiani che vedano in essa l’unica maniera efficace ed ampia di realizzare l’amore per tutti(30) . Il messaggio rivoluzionario non esaurisce, tuttavia, l’esperienza del cristianesimo critico che si orienta in Occidente prevalentemente alla progettazione di forme alternative di sollievo dell’esclusione sociale.

Le teorie critiche della società tecnologica
Marcuse raccoglie consenso nei movimenti per vari motivi. E’ innanzi tutto il filosofo che ha ispirato la ribellione degli studenti negli USA e che riesce a interpretare la rivolta giovanile partendo sia da Marx sia dalla contestazione freudiana dei disagi della moderna civiltà. La critica marcusiana della società tecnologica riesce a motivare tanto la rivolta contro il modello sociale occidentale quanto il rifiuto delle società burocratizzate dell’Est. Totalitarismo, per questo filosofo, non è solo il sistema oppressivo di controlli del socialismo realizzato ma anche il dominio del capitalismo, dell’industria, della produzione occidentali. Il successo di Marcuse è dovuta anche al fatto di riuscire a legare, con la sua teoria, esperienze di tipo diverso: la critica classista della società industriale; il recupero delle identità, tipico del terzomondismo; il rifiuto del burocratismo, caratteristico della protesta nell’Est; la valorizzazione delle pulsioni vitali, che anima gli scontri di generazioni.
Una sollevazione, in buona parte spontanea, suscitata da questioni materiali e da rivendicazioni specifiche, animata anche da fattori generazionali, trova nel 1968 a propria disposizione un armamentario teorico raffinato, degli esempi da seguire sullo scenario internazionale, dei gruppi dirigenti disponibili. Il coesistere di spontaneità con organizzazioni/ ideologie produce, ovviamente, una sorta di scissione delle esperienze. Alla Sorbona, osserva Edgard Morin, la Comune studentesca si sdoppia in due sorelle siamesi, “la Comune universitaria e la Comune politica”. La prima si abbandona “giorno e notte a una ricerca di dialogo, a una interrogazione profonda e ingenua” (31) . La Comune politica vuole, viceversa, iniziare un movimento destinato ad abbattere lo Stato borghese. “E’ qui che comincia a incrinarsi l’unità, ricca e trionfante, della Comune studentesca e che la Comune politica tende a staccarsi, talvolta a opporsi alla Comune universitaria” (32) . La stessa Comune politica è destinata, a sua volta, a separarsi nelle tendenze spontaneistiche, forti in Italia, in Francia e in Germania, ispirate e interpretate dai fratelli Cohn-Bendit, e nelle tendenze organizzative che cercano di ricostruire il partito rivoluzionario (33) .

La violenza


La società moderna ha assistito a diverse manifestazioni di violenza politica e ha visto scaturire dal proprio seno numerose teorie della violenza. Il mondo moderno ha inizio con un atto di violenza costituente, quella del 1789; violenza che continua a manifestarsi in Europa nel 1830 e poi nel 1848. Vi è poi la prassi/teoria della violenza di classe con la quale cerca una affermazione il nascente movimento operaio.


da www.itcgmontefiascone.it


Una commistione di violenza costituente e di violenza di classe si ha nella Comune di Parigi e nella Russia del 1917. Con l’avvento del colonialismo si affermano forme di violenza identitaria. Con la decolonizzazione si assiste ad una fusione di violenza identitaria e di violenza costituente. L’azione deflagrante è finalizzata alla costruzione di nuovi Stati.
Le teorie che giustificano quei tipi di violenza ne sottolineano l’aspetto necessario, non voluto, storico. La violenza costituente sarebbe la risposta all’assolutismo monarchico, quella di classe accelererebbe l’avvento della nuova società. La metafora utilizzata da Engels è quella del crostaceo che spezza, crescendo, la corazza che lo racchiude. La teoria bolscevica della presa del potere considera, poi, la violenza come un fatto esclusivamente istituzionale: il popolo in armi, la classe in armi, operai, contadini, soldati che si costituiscono in soviet. Anche le teorie sull’uso della violenza nella preservazione dello Stato socialista (Lenin, dopo il 1918) hanno dei connotati istituzionali: si tratta di radicare, con il terrore istituzionale, il nuovo potere.
Nella seconda metà del XIX secolo si affermano anche teorie/prassi della violenza individuale. Populisti e socialisti rivoluzionari si misurano in Russia con l’attentato a figure esemplari del potere zarista. La stagione dell’anarchia parigina, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, vede un crescendo di azioni di testimonianza individuale. Queste, però, trovano una motivazione nella natura dell’obiettivo che viene colpito.
Nei movimenti del 1968 si elaborano teorie della violenza e si praticano forme di violenza che, a volte, si limitano a ripercorrere gli schemi classici. Alcune forme di violenza contro le cose ricordano, ad esempio, le prime manifestazioni del conflitto tra operai e capitale. Gli operai luddisti condannati da Marx combattevano l’impresa distruggendo le macchine, gli studenti dell’Università di Torino aggrediscono invece, in modo blando, i propri strumenti di lavoro. “La commissione scuola e società ha praticamente votato una mozione in cui si proibiva ai suoi membri di far uso dei libri nel lavoro di commissione (…). Infine, la commissione delle facoltà scientifiche compiva l’estremo atto liberatorio nei confronti del dio-libro; lo squartamento dei libri in lettura per distribuirne un quinterno ad ognuno dei membri” (34) . La prassi distruttrice del libro cerca di accreditarsi come forma di dissacrazione del simbolo e come veicolo di eguaglianza (la distribuzione egualitaria di un quinterno, il quale diventa inutile perché separato dal contesto!).
Nel periodo si assiste anche a inedite giustificazioni della violenza, portate ad accettarla non in nome di un fine, ma come espressione di pura vitalità, di identità, di crescita. Si legga il passo che segue. “La durata dello scontro (ormai molti mesi), la sua estensione (…), il suo volume (…), la sua qualità (…), la sua difficoltà materiale (repressione familiare, scolastica, poliziesca, legislativa; salto dei presalari, delle borse di studio, dei finanziamenti familiari), ecc. stanno a dimostrare quanta rabbia si fosse accumulata sotto la pelle della gente, quanto ne avessero piene le scatole, insomma, quanta critica eversiva potenziale attendesse l’occasione corretta per esplodere. Ovunque è stato scelto lo strumento espressivo più duro: l’occupazione, che, d’altra parte, non è bastata allo sfogo, il quale ha successivamente investito e dissacrato tutto quanto veniva a tiro (dalla mamma alla chiesa, al partito, al giornale, al poliziotto, al professore, al passante occasionale). Molti, che credevamo fottuti, hanno trovato lo scatto politico necessario ad iniziare il rovesciamento del processo di manipolazione-controllo-istituzionalizzazione che, fino allora, avevano subito. Hanno scoperto il carattere violento di quel processo e hanno risposto con la violenza, con naturalezza eversiva. Alla violenza atmosferica del sistema hanno risposto con la violenza della lotta illegale organizzata” (35) .
L’esplosione, nel passo citato, è giustificata in quanto manifestazione di una rabbia compressa e il comportamento eversivo/duro non è valutato per l’impatto sugli altri, ma solo come sfogo di una pressione interna ritenuta insopprimibile. Lo sfogo dopo le occupazioni ha investito, ricorda l’autore, tutto quanto “veniva a tiro”, dalla mamma (36) , alla chiesa, al partito, al poliziotto, al professore, al passante occasionale.
E’ doveroso rispondere qui ad un interrogativo. La violenza politica che si è manifestata negli anni ’70 in Francia, in Italia, in Germania e in Grecia trae le proprie origini dalle culture del 1968? In alcuni casi la pubblicistica della lotta armata cerca di rintracciare le proprie matrici nei movimenti di quel periodo (37) . In altri casi, autobiografie di militanti ed analisi di tipo scientifico segnalano come le culture della violenza che si manifestano in Europa negli anni ’70, ’80 e ’90, vengano più da lontano nel tempo e nello spazio (38) . Le “lotte armate” che insanguinano l’Europa si ispirano al tema delle resistenze tradite, di un processo rivoluzionario interrotto nel 1945, ovvero di controculture antistituzionali (39) . Alcune giustificazioni della violenza presenti nei dibattiti animati dai movimenti del 1968 hanno, tuttavia, sicuramente distrutto o depotenziato gli anticorpi contro la violenza, prodotti dai partiti di massa che avevano promosso la ricostruzione democratica nel secondo dopoguerra e hanno favorito la deriva di individui e gruppi verso la lotta armata e il terrorismo.

L’amplificazione del conflitto

La rapida mondializzazione dei movimenti del 1968 è favorita dall’affermazione e dalla diffusione di un particolare mezzo capace di veicolare idee e immagini, pensiero e “azione”: tra televisione e contestazione si crea un intreccio indissolubile. L’informazione televisiva ha bisogno di un tipo particolare di notizie: immagini capaci di colpire chi scruta lo schermo, messaggi di trasgressione. Il movimento cerca di fornire, al nuovo mezzo, materiale meritevole di essere ripreso e veicolato nell’etere.
La trasgressione può venire da abbigliamento, gesti, acconciature, linguaggi del corpo (simboli non solo di un’estetica ma anche di un’etica), ma può anche venire da disobbedienze di ordine superiore: non più orientate contro il perbenismo familiare ma contro la gerarchia sociale.
La scoperta di un intreccio tra lotta politica e sistema dei media emerge con gli anni ’60. Il crogiolo nel quale si fondono i due elementi è l’America. “Nel 1968 il movimento per i diritti civili, il Black power, il movimento contro la guerra, persino il Congresso e i politici tradizionali si erano ormai resi conto che la priorità massima era riuscire a ottenere che il cameraman della televisione ‘premesse il pulsante’ della videocamera” (40) . Nell’esperienza USA viene addirittura pianificato l’uso alternativo del mezzo; gruppi impegnati sui diritti civili pianificano la trasgressione/evento che accenda la TV.
L’antisegregazionismo nero è consapevole del fatto che le TV sono “bianche” e che le cronache sulla lotta per i diritti civili saranno compresse; per trovare accoglienza mette in atto un mix di trasgressione e di brevità dei messaggi producendo incisività ed efficacia.
In Europa l’informazione è inizialmente vista dai movimenti del ’68 come strumento di manipolazione: “oggi i mezzi della comunicazione di massa, al servizio della menzogna programmatica, sono più pericolosi della polizia e dell’esercito” (41) . Ma si cerca ugualmente di favorire quelle vibrazioni che per risonanza diffondano i messaggi del movimento (42) .
Pur svalutando i media, i movimenti in Europa mettono in opera messaggi adatti ai nuovi mezzi di comunicazione. Cambia con il ’68 l’apprezzamento del libro (i tre pesanti volumi del Capitale) che ha accompagnato la storia del movimento operaio e delle rivoluzioni moderne. Il libro è considerato addirittura pericoloso perché può “impedire sistematicamente l’azione della prassi rivoluzionaria” (43) . In alcuni casi si giunge a teorizzare il testo riprodotto in modo scorretto ma autentico: gli errori favorirebbero il lavoro collettivo, il confronto testuale, l’analisi: “i ciclostilatori, i dattilografi e le dattilografe di questo documento sentono di dover ‘dare alcuni consigli’. Ci saranno molte parole che si leggono con difficoltà (incomprensibili), qualche riga mancante, alcune pagine al contrario. Ebbene, guardate il documento del compagno vicino: certamente quello sarà completo. La perfezione tecnica borghese copre le mistificazioni politiche; non è cosa per noi” (44)


foto ansa


I movimenti del ’68 costruiscono un proprio sistema di comunicazione (45) che influenzerà negli anni successivi tutte le tecniche comunicative.
Alla natura pesante, ponderata, misurata, costosa, lenta del sistema di comunicazione tradizionale il movimento sostituisce messaggi veicolati da supporti poveri. Il Datzebao, preso a prestito dalla Rivoluzione culturale maoista, è lo strumento più snello: un grande foglio sul quale vengono scritte con un pennello i messaggi, di esecuzione velocissima. Vi sono poi l’eligrafia che consente di inserire un’immagine o la serigrafia che arricchisce le parole con disegni a campi netti. Anche il muro può essere luogo di comunicazione semplificata: uno slogan con poche pennellate, oppure i murales (46) .
Per la comunicazione di testi analitici si preferisce il ciclostile: “minor costo e grande velocità di realizzazione” (47) .
Al manifesto disegnato con arte raffinata e affisso in migliaia di copie dalle forze politiche ufficiali, i movimenti contrappongono la serigrafia o il cartello dipinto a mano (da esibire nel corteo), alla stampa sofisticata contrappongono il ciclostilato. I messaggi collocati su supporti poveri (il cartone del cartello, la carta della serigrafia, il vergatino del ciclostile) economizzano le parole, condensano i concetti; la brevità rende il testo “settario”, privo di sfaccettature, estremista. Ma si tratta di difetti che si configurano come pregi nello specifico televisivo.

La crisi degli equilibri di Yalta

La contestazione del ’68 non si diffonde soltanto in Occidente ma inonda anche i paesi dell’Est. “Il ciclone studentesco ha delle origini, nello stesso tempo, gigantesche e minuscole.
L’aspetto gigantesco è costituito dalla grande ribellione studentesca che dilaga, a partire dagli inizi del 1968, in paesi così diversi come la Polonia, la Cecoslovacchia, la Germania, l’Italia, la Spagna, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, e che, per quanto diverse ne siano le ramificazioni, risponde a un certo carattere internazionale.” (48)
I soggetti che animano i movimenti dell’Est europeo non sono molto dissimili, dal punto di vista sociale, da quelli che si impegnano sulle barricate di Parigi o nelle manifestazioni di Roma e di Berlino. Anche ad Est la protesta coinvolge soprattutto giovani che appartengono ad una élite, per quanto diffusa. Il fenomeno della selezione sociale nell’accesso agli studi superiori riguarda le democrazie popolari, così come la patria del socialismo reale. La sola Unione Sovietica, dopo la rivoluzione del 1917, aveva cercato di rifondare la formazione superiore escludendone i giovani di origine aristocratica, borghese o contadino/ricca. Ma il carattere selettivo del sistema si ripropone prontamente nel momento in cui l’accesso all’università rientra nei privilegi del nuovo ceto medio.
“Questo movimento - afferma Kurlansky, descrivendo i moti di Varsavia - era composto da giovani comunisti provenienti da famiglie che costituivano l’élite del paese. Tre dei dimostranti erano figli di ministri in carica, e molti altri di pezzi grossi di partito. Fino ad allora in Polonia i giovani idealisti che non si trovavano in tutto e per tutto d’accordo con i genitori, avevano continuato ad aderire al partito comunista con l’intenzione di cambiarlo dal di dentro, di costringerlo ad evolversi” (49) . Anche nei paesi dell’Est si assiste, nella protesta, ad una commistione di temi. In alcuni casi la mobilitazione è provocata da aspetti specifici della condizione universitaria. In altri casi viene affrontato direttamente il ruolo delle istituzioni politiche, il carattere poliziesco dei regimi, la censura in materia di manifestazione del pensiero.
A Praga, come a Varsavia, il movimento degli studenti contesta il dogmatismo trasmesso dal corpo docente come ostacolo al raggiungimento di conoscenze adeguate al mondo e al modo di produzione moderni. Dalla contestazione dei contenuti della didattica si passa però presto alla condanna della censura e degli ostacoli frapposti alla circolazione della produzione accademica e politica dell’Occidente.
La critica raggiunge infine il sistema politico che viene definito come elitario, chiuso alla discussione, privo di essenziali elementi di democraticità.
Vi è una differenza relativa alla direzione nella quale muovono le polemiche dei movimenti occidentali e di quelli dell’Est. La critica politica dei movimenti in Occidente aggredisce non solo il sistema capitalistico e i processi di circolazione delle élites, favoriti dall’economia di mercato, ma anche il sistema democratico. Questo è visto come complesso di istituzioni sottese da disuguaglianza. La democrazia occidentale sarebbe un velo chiamato a coprire una realtà fatta di oppressione di classi e di popoli.
Gli slogan dei movimenti in Italia, in Germania, in Francia e negli USA non rivendicano la libertà in senso pieno, ma alcune libertà: quella di espressione, quella di programmazione degli studi, quella generazionale, ecc. Le libertà politiche (le “libertà borghesi”), nel loro complesso, sono viceversa viste come forme occulte di oppressione dell’uomo.
Nei paesi dell’Est i movimenti si muovono in direzione della democratizzazione dei regimi politici e di una introduzione, nelle democrazie popolari, di istituzioni classiche dello Stato di diritto. Il linguaggio dei movimenti dell’Est è naturalmente più moderato che ad Ovest; le agitazioni si svolgono in zone nelle quali, di fatto e di diritto, vige l’occupazione militare e il dissenso è severamente sanzionato.
I movimenti dell’Est, pur agendo in direzioni divergenti rispetto a quelli occidentali, trovano in questi ultimi e nel loro anticapitalismo una ragione d’essere, forse uno stimolo. A favorire l’attenzione verso la contestazione che si sviluppa in Occidente stanno almeno tre motivi.
In primo luogo, la condanna dei movimenti, pronunciata dall’ideologia ufficiale dell’Est. La pubblicistica sovietica e della RDT, così come parte di quella dei partiti comunisti in Occidente, li considera una minaccia per l’ortodossia e un veicolo di provocazione.
In seconda battuta può rinvenirsi l’anticapitalismo dei movimenti. La critica antiborghese degli studenti in Occidente può essere presa a modello da quelli dell’Est perché, almeno, evita loro l’accusa (o addolcisce l’accusa, o introduce attenuanti) di connivenza con le centrali capitalistiche.
Infine e soprattutto, agli occhi dei movimenti dell’Est, la contestazione del 1968 in Europa è vista come prova del fatto che la divisione del mondo in sfere di influenza, sancita dagli accordi di Yalta, è in crisi. Se l’Occidente può cambiare anche l’Est può farlo.
Rudi Dutschke in un saggio del ’68 aveva individuato le potenzialità dei movimenti di contestazione sia in Occidente sia nell’area di influenza sovietica: essi erano chiamati a combattere un equilibrio geopolitico inibitore del cambiamento. “Negli accordi di Yalta e di Potsdam gli alleati antifascisti si erano messi d’accordo a spese degli stati fascisti. L’occupante democratico-capitalistico e l’Unione Sovietica pretesa socialista, ampliarono in reciproco accordo le loro sfere d’influenza” (50) . Dutschke, nel saggio citato, denuncia anche l’immobilismo occidentale di fronte all’uso sovietico del carro armato contro le ribellioni. “La rivolta popolare anticapitalista e antistalinista dell’Ungheria non condusse a un confronto militare delle grandi potenze. L’URSS e gli USA potevano controllarsi reciprocamente, ma non più scontrarsi militarmente” (51) .

Alto e basso

Lungo la linea alto basso che, in politica e nell’organizzazione, rappresenta il luogo dei rapporti tra dirigenti e diretti, il 1968 introduce grandi trasformazioni ma evidenzia anche macroscopiche contraddizioni.
Il 1968 vede l’emergere di un nucleo di nuovi dirigenti, diverso da quello dei partiti e delle rappresentanze tradizionali del lavoro. In quel periodo si manifesta, però, anche un conflitto permanente della base contro i vertici di movimenti e organizzazioni. Nei documenti redatti dagli studenti a Trento, a Torino e a Roma, ma anche a Parigi e a Berlino, il tema del controllo dal basso e della democrazia assembleare è costante. Come in molte esperienze rivoluzionarie, lo strumento che viene preferito è quello della democrazia diretta, la democrazia degli antichi; alla teoria di Montesquieu fondata sul principio della divisione dei poteri, si preferisce quella di Rousseau, costruita sull’esercizio permanente del potere del corpo sovrano. Nei testi si teorizza il rifiuto della delega, il controllo dal basso, la revocabilità del mandato.
Il leaderismo del 1968 è di tipo particolare. Il leader è carismatico ma esercita ruoli circoscritti nel tempo e nello spazio. Il cambiamento di leadership è velocissimo e l’area sulla quale viene esercitato il potere direttivo muta costantemente.
Negli anni settanta, quando l’ondata dei movimenti studenteschi si ritira, sulla sabbia rimangono pochi residui: conchiglie nel migliore dei casi, oppure rami secchi, alghe. Si tratta di una pluralità di gruppi e di organizzazioni che cercano di amministrare un patrimonio formatosi nelle esperienze delle occupazioni universitarie e poi nel 1969, col tentativo di spostare la protesta dalle università alle fabbriche. Si tratta di gruppi regolati dalla legge bronzea della scissione. Da ogni organizzazione, in un breve volgere di tempo, nasce una pluralità di nuove strutture guidate da dirigenti che creano sempre nuovi dirigenti alternativi.
Anche in materia di ideologie sono prepotenti le contraddizioni. Nel fervore delle occupazioni sembra doversi assistere ad un ritorno di dottrine omologanti. Ciascuna componente del movimento si identifica, però, con una ipotesi ideologica differenziata, la quale diventa elemento di identità e oggetto di strenua difesa.
Si tratta di un ritorno alle ideologie, però di tipo nuovo. Non un pensiero unico, ma un proliferare di distinzioni di tipo ideologico. Si pensi a due termini di uso comune a quel tempo, marxista e leninista; il diverso uso o accoppiamento dei due sostantivi dà vita ad una ampia quantità di opzioni ideologiche: marxista, leninista, marxista leninista, marxleninista, marxista-leninista, m-l, emmellista, fino a giungere al sofisticato leninista marxista, o al sofisticatissimo leninianmarxista. Dietro a ciascuno degli usi dei termini prima segnalati si celano profonde distinzioni politiche, conflitti, demonizzazioni, disprezzo, odi insanabili.


da www.italiadonna.it


Una contraddizione simile grava sulla dialettica tra assemblearismo e leaderismo. Le ideologie tendono alla frammentazione e si assiste a fenomeni che ricordano la Riforma protestante in Europa. Il messaggio caratterizzante la Riforma fu l’equiparazione del laicato al sacerdozio, ciascun cristiano doveva essere legittimato ad interpretare la parola divina. Dalla critica dell’ortodossia romana nacquero tante diverse ortodossie ed anche il pluralismo interpretativo del cristiano. Le ideologie che si affermano nel 1968 non sono fondate su una fedeltà unica ma su fedi pluralistiche. I movimenti producono spinte contraddittorie, verso l’osservanza e verso la devianza, verso l’omologazione e verso l’innovazione, verso la milizia in piccoli gruppi e verso la disobbedienza nei confronti dei gruppi.

Previsioni ed effetti

Commentando a caldo gli eventi, Edgard Morin era pessimista. “E’ molto probabile che le conseguenze immediate del maggio ’68 siano negative. Senza dubbio tutto questo consoliderà il comunismo stalinista il quale guadagnerà dei meriti di democrazia sociale (…). Il partito dell’ordine trarrà dalla Grande Paura nuove lezioni (…). Nella minoranza stessa, chimere impazienti di avanguardia ravviveranno i vecchi fantasmi” (52) . Nel tempo medio e breve, la previsione di Morin si è avverata. L’utopia del 1968, i modelli di auto-gestione sociale si sono dissolti. Ma, sempre tornando ad alcune distinzioni fatte da questo autore, non tutto di quell’esperienza si è dissolto.
Una sconfitta l’ha subita quella che Edgard Morin definiva la “Comune politica”. Le formazioni di estrema sinistra, sorte nel corso del decennio successivo, hanno progressivamente perso la spinta propulsiva finendo con il confluire nelle forze politiche tradizionali (53) . I messaggi delle nuova sinistra sono stati, inoltre, compromessi dalla luce sinistra emanata dai focolai di lotta armata che si sono trascinati per due decenni in Europa. Sul piano economico la “Comune politica” ha sicuramente prodotto effetti, diversi però da quelli progettati dalle organizzazioni extraparlamentari. Queste, alla luce anche del messaggio di Marcuse, volevano combattere lo Stato del benessere come veicolo di rimozione dell’antagonismo.
Le classi dirigenti dei paesi più ricchi dell’Occidente hanno viceversa promosso negli anni ’70 (sino ai ritorni neoliberisti degli anni ’80) una spesa pubblica destinata alla pace sociale (e alla crisi fiscale dello Stato).
Alle esperienze della “Comune studentesca” vanno però attribuiti degli effetti latenti che non vanno tralasciati. Le profezie del 1968 sono state in genere disarmate, ma alcuni messaggi, elaborati in quel contesto, hanno contribuito a cambiare sia l’esercizio dell’autorità sia la vita privata e la Società civile.
Vediamone alcuni.
1. La ferita al principio di autorità inferta dai movimenti non si è rimarginata. C’è chi lamenta che la lesione produce indisciplina, rifiuto del comando e dell’obbedienza, destrutturazione della gerarchia. Ma c’è anche un effetto positivo. Chi comanda sa bene oggi di doversi ogni giorno riguadagnare, con l’esempio/impegno, i propri galloni.
2. Le alternanze politiche sono state accelerate e incentivate. I movimenti del 1968 hanno prodotto frammentazione delle ideologie e crisi delle fedeltà politiche; si è consolidato un nuovo rapporto tra base e vertice, tra individuo e ideologia.
3. Si è affermato un ruolo sociale e produttivo della creatività. Richard Florida ci ha di recente ricordato che accanto alla classe dei colletti bianchi e a quella dei colletti blu, è cresciuto, alla fine del XX secolo, il ceto dei senza colletto, lavoratori che operano su prodotti creativi in contesti creativi e che coprono il deficit occupazionale provocato dal tramonto della grande fabbrica e dalla fine del lavoro (54) .
4. Si è riscoperto un tipo nuovo di privato. Adam Smith alle origini della rivoluzione industriale insegnava che senza l’egoismo dei privati la società non avrebbe potuto sopravvivere. Ma il privato al quale ci aveva abituato la società industriale era un privato acquisitivo. Il privato coincideva in parte con una pena di Sisifo, con la condanna perpetua all’accumulazione. Il privato che si è andato delineando con la fine del XX secolo e dopo il 1968 è abbastanza diverso. Si tratta di una dimensione non fatta solo di egoismi ma anche di espressività (e forse solidarietà).
Sino ad ora non sembra che un’esperienza globale, dotata del peso dei movimenti del 1968, si sia manifestata.
Manca, con grande probabilità, il contesto generale fatto di culture critiche e di instabilità mondiale; mancano forti volontà soggettive e generazionali. Esistono, nei paesi più favoriti, potenti ammortizzatori del disagio. Rimane la marginalità nel lavoro, dipinta da Rifkin ed evidenziata dalle statistiche sulla crisi dell’occupazione giovanile nel primo, nel secondo e nel terzo mondo.
Rimane la questione del carattere non rassicurante delle paci e delle tregue sociali.
Severe indagini, condotte prima del 1968, dipingevano, in presenza di una incombente crisi, il quadro di una gioventù scettica, di un mondo di studenti freddi, di generazioni ripiegate sul privato. Anche oggi, agli inizi degli anni duemila, descrivendo il mare dei giovani, i sociologi insistono, forse troppo, nel parlare di calma piatta.


(1) M. Kurlansky, I’68 l’anno che ha fatto saltare il mondo , tr. it. Mondadori, Milano, 2004.
(2) G. Statera, Violenza sociale ed emarginazione , in G. Statera (a cura), Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70 , Angeli, Milano, 1983, p. 15.
(3) Cfr. G. Statera, Storia di un’utopia: ascesa e declino dei movimenti studenteschi europei , Rizzoli, Milano, 1973, p. 207.
(4) Cfr. M. Kurlansky, op. cit..
(5) M. Barone, Libro bianco sul movimento studentesco , (introduzione di O. Scalzone), Ed. Galileo, Roma, 1968, pp. 24-26.
(6) “La condizione studentesca in un’università di massa”, indagine condotta dal Centro di ricerca per le scienze sociali e morali dell’università di Roma (1968-1969).
(7) G. Statera, Gli studenti universitari romani: primo rapporto di ricerca , “De Homine”, 1970, pp. 33-36.
(8) G.E. Rusconi, Giovani e secolarizzazione , Vallecchi, Firenze, 1969, p. 217.
(9) La ricerca è riportata dal “New York Times”, 10 novembre 1968. Cfr. M. Teodori, La nuova sinistra americana . Feltrinelli, Milano, 1970.
(10) Cfr. M. Kurlansky, op. cit., p. 239. L’A. segnala anche il sovraffollamento degli Atenei.
(11) G. Statera, Storia di un’utopia , cit., p. 196.
(12) Documento del comitato di agitazione: diritto allo studio, 11 gennaio 1968, Università di Torino. Citato da G. Viale, Contro l’università , in AA.VV., Università, l’ipotesi rivoluzionaria , Marsilio, Venezia, 1968, p. 88.
(13) Documento La stratificazione sociale universitaria citato da G. Viale, op. cit, p. 105.
(14) Ibidem, p. 93.
(15) Cfr. L. Magri, Considerazioni sui fatti di Maggio , De Donato, Bari, 1968.
(16) Cfr, John e Margaret Rowntree, I giovani come classe , “Problemi del socialismo”, 1968, pp. 28-29; F. Alberoni, Classi e generazioni , Il Mulino, Bologna, 1970; F. Alberoni (et alii) Lo Stato democratico e i giovani , (introduzione di G. Mombelli), Edizioni di Comunità, Milano, 1968.
(17) K. Polanyi, La grande trasformazione , tr. it. Einaudi, Torino, 1974.
(18) Rudi Dutschke prefigura un tipo di milizia politica integrale dotata di forti connotazioni esistenziali. Il modello di impegno è una testimonianza totale, di tipo monastico, come quella dei narodniki (populisti) in Russia attorno al 1870: studenti che fanno la scelta della vita contadina per portare un messaggio politico nelle campagne (R. Dutschke, Teoria pratica in situazioni specifiche , Libreria Feltrinelli, Milano, 1968, p. 23.
(19) M. Rostagno e R. Curcio, Foglio di lavoro politico , 1° dicembre 1968, ciclostilato, Trento, p. 6.
(20) E. Morin, La Comune studentesca , in E. Morin, C. Lefort, J-M Coudray, La Comune di Parigi del maggio ’68 , tr. it. Mondadori, Milano, 1968, p. 17.
(21) Ibidem, p. 18.
(22) Una critica di tali definizioni in R. Luperini, Sul ruolo degli intellettuali , in Nuova cultura operaia e ricerca marxista “Quaderni di Classe”, 1974, p- 254 e ss..
(23) Paolo VI, Udienza generale di mercoledì 25 settembre 1968.
(24) Ivi.
(25) Ivi.
(26) Cfr. G. Statera, Le giovani generazioni nelle società industriali , in “De Homine”, 1970, pp. 33-36.
(27) Sulla violenza come attività catartica cfr. G. Pontara, Violenza e terrorismo , in L. Bonanate (a cura), Dimensioni del terrorismo politico , Angeli, Milano, 1979, p. 93.
(28) Mao Tse-Tung,“Sulla guerra di lunga durata” (maggio 1938) ora in Citazioni del presidente Mao Tse-tung ., Edizioni in lingue estere, Pechino, 2°0, 1967, p. 64.
(29) La definizione è in A. Giannuli (a cura). Il sessantotto. La stagione dei movimenti (1960-1979) , vol. I, Materiali per una nuova sinistra, Edizioni Associate, Roma, 1988, p.64. Cristianesimo critico sembra più efficace di altre definizioni come dissenso cattolico, cristianesimo di base, sinistra cristiana, teologia della liberazione; il concetto comprende, inoltre, non solo i dibattiti che si aprono nel mondo cattolico ma anche in quello luterano in Germania, in quello riformato negli USA e in quello valdese-metodista in Italia. Per il periodo si può addirittura parlare di religiosità critica, perché ai movimenti partecipano esponenti di numerosi credi religiosi.
(30) C. Torres, Messaggio ai cristiani , (3 agostro 1965), in C. Torres, Liberazione o morte. Antologia degli scritti , tr. it. Libreria Feltrinelli, Milano, 1968, p. 39.
(31) E. Morin, La Comune cit., p. 19.
(32) Ibidem, p. 21.
(33) Cfr, J.C.R., La rivoluzione in Francia , a cura di A. Chitarin, Samonà e Savelli, Roma 1968, p. 211 e ss..
(34) G. Viale, Contro l’Università , in Università l’ipotesi rivoluzionaria , Marsilio, Padova, 1968, p. 113.
(35) M. Rostagno, Nota sulle lotte studentesche , in AA.VV., Università l’ipotesi rivoluzionaria, documenti delle lotte studentesche , Marsilio, Venezia, 1968, pp. 12-13.
(36) Sull’aggressione alla figura materna cfr. il dibattito sulle matrici psicologiche dell’estremismo politico. Lasswell ipotizza un rifiuto dell’autorità in relazione colla figura paterna. Di recente un’autrice considera invece cruciale, all’origine delle emozioni spostate alla politica, la figura della madre in quanto oggetto del primo amore. Cfr. M. Duncan, L’attivismo radicale come difesa contro la disperazione , in G. Calvi e M. Martini (a cura), L’estremismo politico , Angeli, Milano, 1982.
(37) Cfr. la raccolta di documenti: RAF, La guerriglia nella metropoli , II voll., tr. it. Bertani, Verona, 1977.
(38) Cfr. C. Merletti, Immagini pubbliche e ideologia del terrorismo , in L. Bonanate, Dimensioni del terrorismo politico , Angeli, Milano, 1979; G.C. Caselli, Criminalità politica organizzata e problemi della risposta dello Stato , in R., Villa (a cura), La violenza interpretata , Il Mulino, Bologna, 1979; G.C. Caselli e D. Della Porta, La storia delle Brigate Rosse , in D. Della Porta (a cura) Terrorismi in Italia , Il Mulino, Bologna; G. Galli, Storia del partito armato , Rizzoli, Milano, 1986; M. Pini, L’assalto al cielo , Longanesi, Milano, 1989.
(39) Cfr. per l’Italia: G. Fasanella e A. Franceschini, Che cosa sono le B.R. ., Rizzoli, 2004; per la Germania: M. Baumann, Come è cominciata , tr. it. La Pietra, Milano, 1977.
(40) M. Kurlansky, op. cit., p. 51.
(41) R. Dutschcke, Teoria pratica in situazioni specifiche , Libreria Feltrinelli, Milano, 1968, p. 6.
(42) E. Morin, La rivoluzione , cit., p. 72.
(43) R. Dutschke, Teoria cit., p. 5.
(44) M. Rostagno e R. Curcio, Foglio di lavoro cit., p. 1.
(45) Cfr. P. Baldelli, Informazione e controinformazione , Mazzotta, Milano, 1972.
(46) Il catalogo dei nuovi strumenti di comunicazione in A. Giannuli (a cura), Il sessantotto cit., p. 299 e ss..
(47) Ibidem, p. 300.
(48) E. Morin, La comune studentesca cit., p. 9.
(49) M. Kurlansky, op. cit., p. 134.
(50) R. Dutschke, Le contraddizioni del tardo capitalismo, gli studenti antiautoritari e il loro rapporto col Terzo Mondo , in U. Bergmann, R. Dutschke, W. Lefèvre, B. Rabehl, La ribellione degli studenti , tr. it. Feltrinelli, Milano, 1968
(51) Ivi.
(52) E., Morin, La rivoluzione senza volto , in E. Morin, C, Lefort, J-M. Coudray, op. cit., p. 88.
(53) Cfr. L. Bobbio, Lotta Continua , Savelli, Roma, 1979. Cfr. anche S. Corvisieri, Il mio viaggio nella sinistra , I libri dell’Espresso, 1979.
(54) R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa. Stili di vita, valori e professioni , tr. it. Mondatori, Milano, 20

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