GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 1/2005
STORIE DI CASA NOSTRA

Sotto a cui cammini
Una storia di 'ndrangheta


articolo redazionale

Prosegue l’originale esplorazione delle organizzazioni mafiose italiane attraverso un racconto di pura fantasia che, assolutamente estraneo a velleità letterarie, cerca di tratteggiare e sintetizzare gli stereotipi criminali, frutto dell’esperienza di specifiche analisi sul tema.
In questo numero si propone una riflessione sul fenomeno criminale calabrese, la ‘ndrangheta. Essa non a caso è ormai unanimamente considerata tra le minacce più agguerrite, a livello sia nazionale sia transnazionale.
I due protagonisti ed i rispettivi figli incarnano ed integrano diversi modelli organizzativi ed operativi dell’”onorata società”.
Interpretano assonanze di esperienze concrete, riscontrate in atti giudiziari, e situazioni verosimili, in una sorta di “simulazione analitica” di tradizione anglossassone.
Nella storia della ‘ndrangheta San Luca costituisce la culla del fenomeno ed il suo epicentro. Le cosche africote, poi, rappresentano nell’immaginario collettivo l’espressione della diade criminale calabrese: da una parte essa è ancorata all’area di origine, attraverso il tradizionale e pervasivo controllo del territorio; dall’altra ha un profilo modernamente transnazionale, proteso in modo competitivo verso il traffico di droga.
I personaggi, a capo rispettivamente delle ‘ndrine dei suddetti Paesi, racchiudono i segreti di una “società” criminale abituata a conflitti sanguinosi, a faide decennali, a scontri generazionali. Eppure, essi testimoniano anche la volontà di superare differenze e contrasti in nome degli affari. Quegli affari che, però, avvelenano le organizzazioni meno stabili e fomentano rivendicazioni e competizioni aggressive.
Sullo sfondo si staglia il paesaggio aspromontano, con le sue contraddizioni, con le sue pietre arse dal sole o travolte dalla furia di cicliche alluvioni, che ripetono il quotidiano segreto del vivere calabrese.
La Madonna di Polsi s’offre quale sipario della storia, su cui s’ordiscono sentimenti e vicende dei personaggi. Il santuario della Madonna della Montagna, che lo scrittore Alvaro ha saputo disegnare nei suoi libri con rari bozzetti, trasferisce agli attori - e la redazione si augura ai lettori - i suoi significati religiosi e mistici, la forza policroma del folklore e la carsica valenza criminale. Proprio Polsi fu eletta come sede e occasione di riunioni annuali dei capibastone, che sopravvivono fervidamente nella leggenda mafiosa come negli atti giudiziari.
Il racconto, infine, raccoglie e sedimenta i topoi della ‘ndrangheta e del contesto calabrese. Essi s’intersecano e si confrontano. L’intelligence moderna deve coglierne le sottili epifanie, sgombrandole dalle ambiguità, come si raccoglie la messe, “spigolando” ed ammassando sino a che traspare la forma del raccolto all’orizzonte.
Sutta cu camminate?


Africo
Il vestito pulito, odoroso di lavanderia, sembra contenere a stento la figura anziana e prepotente di zio Momo. Pare scoppiare da un momento all’altro.
S’intravedono le cuciture di filo bianco.
Il fazzoletto nel taschino spunta come da un marsupio.
Il viso è contratto.
Don Momo si guarda allo specchio. Il barbiere ha fatto un buon lavoro. Cosa c’è di meglio che la barba tagliata da un artista? Si può rinunciare a tutto, ma per un Uomo (con la U maiuscola) alcuni piaceri sono il frutto di tradizioni radicate e di vezzo tramandato che quelli di una certa età possono ancora apprezzare.
La barba è un rito.
Un servizio di lusso... e di potere.
Da latitante la sua barba incolta metteva rabbia, soprattutto nei periodi in cui gli sbirri sembravano avvelenati. Cicli, periodi, come la luna. I lupi mannari uscivano, si riunivano in branchi, le camionette si moltiplicavano, finanche sopra i monti s’avventuravano i maledetti.
Ma poi si stancavano.
Lui no. Lui era paziente e non si piagavano i piedi nè aveva bisogno di cani per rintracciare un sentiero.
C’era nato lui, sui monti.
Loro no. Nè a quelli che nascono tra i sassi viene mai in mente di diventare sbirri!
Il vestito lo innervosisce.
La possenza è sintomo di forza. Quando grida i picciotti se la fanno addosso, la sua voce è più violenta della schioppettata, anche perché quando smette il suono dalla gola le dita s’apprestano a scivolare sul grilletto. Non sbaglia mai. Soprattutto quando è “suddiato”.
Il vestito però cadeva leggero, un tempo, sembrava carezzare le forme, ringiovanirle. Copriva quell’adipe che raccontava la sua passione per il capretto alla “pastorale” e per il buon vino.
- Rosaria! - piace ascoltare la sua voce quando si fa possente - E’ arrivato? -
- No, non ancora. Ma ha telefonato. E’ per la via....-
- Ma non poteva dormire qui, gli faceva male ai polmoni l’aria di Africo?- Tu lo sai che ha amici a Reggio, ha fatto tardi.... ha amici importanti... non li vede spesso, approfitta quando viene da Milano...-
- ... si è fatto milanese quel “castro”? Non ha capito che gli unici amici sono la famiglia e questa polvere che ti sporca le labbra? Non ha capito che sono amici perché io sto qui. Lui parla con la mia voce. Ma dice fesserie. Quel figliuzzu lo stritolerei...se faccio in tempo e non ci pensano prima altri...-
E’ irritato.
Eppure l’ha fatto studiare. L’ha mandato all’estero. Ha frequentato gli ambienti buoni di Milano e di Torino. Se l’è spassata in Canada ed in Australia... ha fatto...come si chiamano..i masters a Londra e Parigi....chi c’è mai andato? E mica ha portato la valigia di cartone, come i poveri “cristiani” di un tempo ..erano valigie di carte da centomila ... s’è mangiato quasi un sequestro intero quel ragazzo...
La madre intuisce i pensieri fangosi del marito.
- Non prendertela così ... E’ un bravo ragazzo-.
- Non sono cose di femmina...-
Parla pure, sta fimmina, non ha imparato “nenti” dal padre .. lui sì che era un uomo d’onore .. non ha saputo manco educare u figliuzzu, lo ha scapestrato, u signurino...
- Iamuninde, ci raggiungerà il cornuto-

San Luca
L’abito azzurro scende sulle spalle morbidamente, come un lenzuolo.
Dal colletto della camicia s’apre un’ampia fessura, un baratro prima che si intraveda la pelle rugosa e pendula.
“Mi chiamano “toro”, non mi resta che l’ombra di un vitello.”
Il tumore e la vecchiaia (non basterebbe l’età, perché suo nonno era morto centenario e suo padre era in salute quando incontrò una lupara assassina) hanno asciugato il suo corpo. Non la sua mente.
Si duole, però, di questa giacca larga e della cravatta che scivola un po’ ridicola sul petto di malato.
- Ntonietta... !-
Gli occhi sono equorei, le immagini sembrano naufragare nelle pupille. Un tempo ardenti e ora molli, lente, abbandonate.
- Iano è arrivato?-
- E’ qui da ore. Non si è mosso u figghiu. Ha aspettato che voi vi alzavate ed intanto mi faceva compagnia. Ha caricato il mangiare e il bere...-
- Fallo salire....-
Iano sa che salire al piano della camera da letto è una confidenza inedita. Un’investitura.
- Aiutami a scendere, usciamo insieme da casa.-
Quando il portone s’apre, il toro matato dalla vita ha la testa ritta e orgogliosa.
S’appoggia al figlio più piccolo, l’unico sopravvissuto a due guerre di mafia.
Dietro di loro due bambini si rincorrono. Incespicano. Sono i figli di Iano, uomo fortunato, che oggi corona il suo sogno di ‘ndranghetista e ha già il futuro in quelle gambette che danzano sulla polvere.
- Saluti don Turi- Nipoti e cugini sono davanti alla porta, frotta familiare che assiste al rito della benedizione del capo vecchio e malato al nuovo capo, suo figlio.
Sono i gesti a parlare, in Calabria.
I discorsi sono scritti nell’aria e puoi registrarli nel petto respirando quel vento che sa di vita e di morte.
- Iamuninde”.


Per la Madonna di Polsi.
L’autovettura è lenta, l’autista cerca di non accelerare. A don Momo non piace essere sballottato a destra e a sinistra. Nonostante la cautela dell’autista, ogni tanto sbraita.. - Che è sta tarantella? Mica fuiamo da’ rapina!-
E’ nervoso. Il figlio non è arrivato in tempo. Sono partiti tutti senza di lui.
I cugini, nipoti e zii ridacchiano. Di nascosto, è chiaro.
Per rispetto a don Momo. Ma lui mica è scemunitu.
Trattiene a stento la rabbia.
Cerca di trovare il vizio di crescita. L’errore. Quando il ramo innestato s’è allontanato dal tronco.


foto ansa

Ripensa alla sua famiglia.
Suo padre era un “forestale” (1) . Suo zio era un pastore.
E’ passato tanto tempo!
C’era la povertà. Si mangiava ogni giorno, ma la casa era spoglia. Si passava il tempo sulle montagne, che un giorno hanno sputato il paese lontano, portando quelle poche cose a valle.
Un fiume di fango ha coperto le case, se l’è divorate in un attimo (2) .
La ”onorata” (3) era forte, capace di gridare con i padroni, magari organizzando ribellioni e facendo sentire la voce dei lavoratori nelle sedi giuste.
Sulla costa la vita è più facile.
Il mare porta ricchezza.
Porta il pesce ma soprattutto le sigarette e se occupi le spiagge ti devono pagare. Se vogliono sbarcarlo, il tabacco, o ti impiegano le braccia o ti pagano il pedaggio.
Ad Africo, invece, potevi esportare le braccia, dovevi andare a cercare il lavoro, non ti pioveva addosso. Non era come oggi.
Ma per arrivarci a oggi....!
Momo sente ancora le parole del padre. I suoi racconti, che erano ricordi, strutto di memoria perché la storia della famiglia è la storia che ciascuno di noi si porta appresso.
Lo diceva sempre. Ignorante ed intelligente.
Appena nato a Momo era stata proposta la sfida dell’onore. Per diritto di nascita era “battezzato”, aveva già un posticino nella grande famiglia della ‘ndrangheta.
Gli avevano messo vicino il coltello e la chiave.
Era un’impressione o al coltello corrispondeva un sorriso (raro vedere il padre sorridere) ed alla chiave una smorfia di disgusto?
Era troppo piccolo per poter scegliere, ma a tutti piaceva sottolineare il mito del coltello, l’aver afferrato subito quella lama, per di più dal verso giusto, allontanando la chiave che simboleggiava la sbirraglia e i “contrasti” di ogni risma.
Era nato per la ‘ndrangheta.
La ‘ndrina era la sua famiglia, anche perché racchiudeva nella sua cosca di carciofo tutti i parenti più stretti. Pronti a soccorrersi. A brigare insieme. Ed insieme erano un esercito, una “società” compatta.
Picciotto, camorrista, puntaiolo, maestro di giornata, contabile e “sergio” capo.
Società minore e società maggiore. Capo giovane e capo società, sino a capo locale.
Aveva scalato la montagna più difficile.
La montagna della ‘ndrangheta, dove mai nessuno si poteva considerare “arrivato”.
Tanto tempo. Tanti morti. Tante guerre vinte, nonostante battaglie perse, lutti, faide e dolore. Ma oltre questo che c’era mai ad Africo?
Aveva vissuto tutte le ere della ‘ndrangheta.
Il contrabbando. I sequestri di persona. La droga. Gli appalti. L’auge di onori dati da tutte le parti del mondo. La latitanza. La galera. Poi di nuovo l’auge... la vita è una ruota che non finisce di girare, altrimenti si fermerebbe il mondo.
- Ancora sta tarantella?-
- Sbirri, tanti...-
- Allora? Saluta ! Gli sbirri sono per i pezzi grossi... fanno la staffetta come quando si ha paura di essere presi e ti circondi di auto .. è per stare sicuri .. qui la gente grossa si “spagna”. Vuole fare il turista, come per vedere le scimmie allo zoo. Ha paura, però, delle tigri, che qui nessuno ha messo nelle gabbie. Gli sbirri vanno avanti e dietro i pezzi grossi, e sono tutti contenti e sicuri... domani riposano e noi possiamo fottere il mondo intero .. tanto non ci sono i pezzi grossi a guardare...-
E’ sempre stato così.
Eppure, pensando agli sbirri che stanno per i paesi del monte, non vorrebbe essere al loro posto. “Schifiati” per quattro lire. Costretti peggio che nelle grotte. Quando escono non sanno se ritornano. Nessuno osa parlare con la sbirraglia ed i loro parenti. Non lavorano nemmeno per la loro terra .. !
Qualcuno era arrogante. Sapeva il fatto suo. Pensava di essere garibaldino. Di rifare l’Italia o almeno la Calabria. Che nemmeno era sua !
Era furbo, il figlio di malandrina.
Così erano riusciti a fotterlo, qualche volta.
Perché non si erano fermati manco dopo che aveva fatto loro saltare l’auto o la caserma.
Per quattro soldi. “Meschini”.
Incaponiti, come assatanati.
- Don Momo, siamo arrivati... ma siete sicuro che volete andare a piedi? Hanno fatto una strada comoda..-
- Lasciami qui. Quest’anno voglio salire come un tempo. Quest’anno voglio salire. Aspettiamo anche quel cornuto... voglio andare con lui..-
Il figlio non tardò ad arrivare.
Aveva gli occhi abbottati di chi ha dormito poco.
- Ci seguono?-
- Certo, papaciù, stanno dietro. Vi da’ fastidio la macchina?-
- No, figlio mio. No.- Riprende fiato. - Hai due bei figlioli. Crescono bene. Malandrini. Intelligenti.-
- Hanno una buona madre. E poi voi siete un nonno che dà sicurezza.-
- Puo’ essere. Ma oggi ci sono e domani forse no. L’aria è pesante. Si respira male. E non è solo per questo cornuto di tumore.-
- State meglio..-
- Non dire coglionerie.. Sto male. Ma forse faccio ancora in tempo a prendere scupettate. Siamo forti. Molto. Quando lo sei troppo devi avere paura. Gli amici si assottigliano e non sai chi ti sia rimasto al fianco. Ma tu hai due figli. Fanne altri. Maschi. Perché così non ci fermerà nessuno. Se si fanno le cose giuste.- Sospira.- I tuoi cugini sono molti. Assai. Erano piccoli nella guerra passata e non sono riusciti ad ammazzarli. Noi abbiamo pagato tanto. Ce lo riconoscono. Abbiamo difeso anche loro, d’altra parte. Ma la memoria dell’uomo è breve come il fruscio dei soldi. Ora c’è e dopo poco sparisce. Se non ricordi a tutti i crediti. Se non gli stai appresso, anche i più vicini si rigirano.-
Iano annuisce.
- Tu hai sposato una Riccardi. Un’altra è vedova di tuo fratello buonanima. Abbiamo unito due famiglie importanti. Mezzo Paese siamo. Ora devi guardarti intorno. E i figli impegnali presto, magari a Reggio. A Reggio, le ‘ndrine campano di più. Con gli ostaggi di ogni tipo e le conoscenze giuste.-
- Voi avete ragione, papaciù.-
- Tieni per le palle i figli. Fanne studiare uno, fallo importante. Ma l’altro, fa’ che gli stringa le corna. Tienilo con te. Crescilo forte e senza paure. La forza e il potere. L’uno senza l’altro è come camminare con una gamba. Non vai lontano.-
Iano capisce.
Il padre l’aveva voluto a San Luca. Aveva studiato, certo. Si era laureato a pieni voti in scienze bancarie. Ma doveva tornare a San Luca. Dopo la guerra, che aveva vissuto di striscio, quando la pace sembrava reggere (ed avrebbe retto), l’aveva chiamato a casa, a gestire quello che rimaneva del patrimonio di famiglia, a girare con lui per i campi, a conoscere le grotte ed i tratturi del monte, a “trovare” amici di Melito, di Gioia Tauro, di Reggio, di Cirò, sinanche di Milano.
- Siamo arrivati. Siete sicuro che volete salire a piedi? Ce la fate?-
- Siamo qui per questo. Poi l’anno prossimo ci andrai da solo.-

La processione al santuario della Madonna della Montagna di Polsi è una sorta di anabasi di gente, speranze e pensieri tra i tratturi selvaggi dell’Aspromonte.
Prima delle strade tracciate dal progresso, c’erano solo sentieri polverosi, irti e selvaggi. Gomitoli che a dipanarli si scioglievano il cuore e le gambe.
Per la Calabria è transumanza di fede, memoria, preghiera e affari.
Per la ‘ndrangheta è anche l’occasione di coniugare il sentimento della terra e la volontà di potere della mafia. Era anche l’occasione di incontrarsi, dietro il velo di una croce, per illuminare quel cammino non sempre in piano.
La fede, come quella nella “santa”, ha la magia di riunire, di accoscare, di affastellare esperienze e desideri diversi, perché il fuoco possa riscaldare tutti di più. Senza troppi martiri.
A Polsi il Dio è diverso. Si fa di quella carne arsa dal sole e ferita dalla roccia, che deambula in Calabria. Nelle anse di monti affaticati dai secoli e tra ciottoli e polvere che confondono il passo di sabbia della gente della Piana.
Nella processione si chiede un perdono ipotecato.
Una rabbiosa pietas, che trascende l’umano, si fa sacra.
Mani pesanti. Nude.
Che hanno ucciso, accarezzato, raccolto lacrime e rancori. E’ la pietas della morte che ciascuno porta seco, bene commerciale, sovrappeso che riequilibra e sembra poter ordinare le cose imperfette dell’umanità.
Don Momo e don Turi s’avviano per i labirinti dell’Aspromonte, alvei ossuti e scavati che sembrano la mano agonizzante del Cristo che muore.
Con loro, tra la gente che lotta per sopravvivere, altri “fratelli”, altri capi scorrono i sentieri come grani di rosario.
Il loro passo è doppio. Ambiguo. E’ mosso da una tradizione di potere più che di fede. Quando la doppiezza sembra sparire nell’affollata e onesta fede del popolo, ti accorgi, sempre tardi, che è lì, sotto la cenere, ad avvelenarla.
A Polsi, infatti, quella massa di gente per alcuni è solo una cornice di tetri disegni da comporre.
Alla ‘ndrangheta importa quel sacro mescolarsi d’odori? Sudato incenso e sussurro di preghiere? Forse, come l’ardere dell’immagine di San Gabriele nel rito d’affiliazione. Come il segno della croce davanti al condannato stramazzato al suolo sotto il peso di un cielo di piombo.
Importa di più l’esserci.
Esserci. Ovunque. Sempre.
Come primizia della terra. Come ineluttabile germoglio malato.
A Polsi tutto sembra un contorno. Per la ’ndrangheta il giorno di Polsi è la riunione del crimine. Sbirri, potenti e massoni sono solo lo sfondo sbiadito.
Non lo sanno ancora ma Momo e Turi si stanno rincorrendo. Come nel passato.
Erano entrambi figliocci di don Antonino, il saggio, il capo dei capi, in una realtà frastagliata dove un simile titolo è segno di potere labile, quasi un onore sospeso nel tempo, sino a quando a qualcuno venga in mente di cambiarlo, di farlo sparire.
In una terra di sale e acqua, di sete e di naufragi, le cose inutili hanno vita breve.
Non lo aveva capito. Oppure, come avrebbero imparato presto, il capo sa che la sua stella dura un soffio. Un soffio del caso. Un soffio di lupara.
Li avevano chiamati a Reggio.
Erano tanti. Troppi.
C’erano i capi della Piana, del capoluogo, della Jonica.
C’era anche un compare siciliano. Un latitante importante che aveva fatto fuori tutti i suoi nemici e si meritava un poco di riposo e di rispetto.
- Che volete fare, una guerra?-
Ammiccavano.
- Ormai abbiamo deciso. Abbiamo cercato di far capire a zio ‘Ntonino che i tempi sono cambiati. Ora il “bisinisse” è la droga. E’ un treno che non passa più. Troppe bocche voraci, troppe mani sono pronte a prendere il nostro posto. Se facciamo i fessi.
Ora i soldi li abbiamo. Quei cornuti d’industriali e farmacisti ce li hanno dati, e ce li siamo sudati. Cornuti che per uscire i soldi ci hanno fatto crescere la barba.-
Lo sapevano.
Anche loro erano andati in giro per l’Italia con i bauli pieni di sequestrati.
Avevano svernato sull’Aspromonte, a portare da bere e da mangiare a quei castri che non si saziavano mai. Poi, le medicine, e qualcuno che ci rimaneva secco!
- Ora abbiamo comprato mezzi buoni per lavorare all’autostrada. Possiamo costruire non una ma cento case. Non vi abbiamo fatto il Paese nuovo a valle? Ora c’è da stare più calmi. Senza sbirri tra le gambe a cercare gente sui monti. Ora dobbiamo fare droga. Tanta. Zu Petru da Palermo ci monta anche la raffineria. Cose in grande. Magari a nord, dai cirotani, che sono amici. Ma zu ‘Ntonino ha cacciato le corna. Non sente ragione. E’ pieno di sé. Come se l’onorata l’abbia inventata lui e non nostro signore. E noi gli facciamo la Pasqua. Con il vostro aiuto, s’intende.-
Avevano capito.
Bene. O dentro, recidendo il passato con un colpo di coltello. O fuori, allora pronti a farsi un bel funerale , magari nello stesso “tauto” (4) di zu ‘Ntonino.
Così erano diventati orfani.
Come gli orfani si cerca una famiglia.
- Sutta cu camminate?-
Se lo ricordano i picciotti.
Se non hai una strada, per i campi diventi una croce.
Avevano scelto due famiglie diverse, due destini, mirando a prendere il posto del padrino, da due sentieri diversi.
Tanto pane hanno diviso insieme. Tanto odio, li ha trascinati nel mare di sangue.
Non c’è peggiore nemico di un amico che tradisce. Con cui condividi una vergogna che vorresti cancellare, eliminandolo.
Poi arrivarono i grandi affari. A Milano gestivano una quantità enorme di droga, con i trafficanti di Siderno, con la “Jonica reggina” che sembrava nata per gestire quell’immondizia?
Aveva ragione zu ‘Ntonino. Era mercato di morte e di “tragedie”, ma si facevano tanti di quei soldi che a contarli bisognava comprare un contabile. Di quelli con la cravatta e la faccia pulita che si vedono in televisione, nei film.
Si sparavano nella Locride ma trafficavano insieme droga nel mondo.
Gli affari sono più forti dell’amicizia e dell’odio.
Ma non c’era solo la polvere bianca. Arrivarono anche altri soldi, più facili. Più puliti. In Calabria arrivarono finalmente “i lavori”.
Lavori. Di tutti i tipi.
Si erano accorti che la Calabria era stata dimenticata da tutti. Come sempre.
Da Napoli l’Italia continuava a Messina. Il resto era solo una fatica. Un peso.
Si veniva a caccia. I signori di tanto in tanto si facevano vedere. Qualche vescovo benediva occasioni importanti… transiti, per lo più.
Intanto la Calabria rimaneva un insieme distratto di Paesi arroccati sui monti, sputati sulle valli, magari anche incasellati selvaggiamente nella meraviglia della costa.
Ma tutto restava così. Come se a metterci le mani rischiassero le dita.
Quei quattro (che quattro non sono) proprietari erano i principi incontrollati.
E allora noi gli abbiamo rotto le corna.
Come un tempo si riunirono ancora i capi.
Non tutti, perché molti erano passati a miglior vita, con l’aiuto d’esplosivo, di pistole o di mitragliette.
- Che facciamo, litighiamo mentre ci fottono i lavori? Abbiamo fatto tanto, ci siamo scannati e per avere un migliore posto a tavola arriviamo ... (chi ci arriva poi !) ... alla frutta? Per giunta a digiuno?-
Erano segnati da anni di guerra. Avevano voglia di dormire nel loro letto. Di godersi un poco di serenità con i soldi guadagnati. Poi c’era la stampa ... c’erano gli sbirri ... e tutto il casino in Sicilia rischiava di trasferirsi anche in Calabria. Che lo Stretto è stretto assai e la gente ... (chi la capisce !) ... poteva mettersi pure cattive idee in testa ... protestare e passeggiare come a Palermo. C’erano i pentiti, già, i pentiti! Meno che altrove, ma sempre pericolosi quegli infami. Erba velenosa ... facevano più danni della peste.
La Madonna di Polsi aveva fatto il miracolo.
Avevano deciso di creare a Reggio una commissione, non come a Palermo, ma simile. Una sorta di mandamento nel reggino, tirrenico e ionico che contava sul potere riconosciuto dei capi delle cosche locali più che sulle invenzioni di una struttura che non si concilia con lo spirito autonomo e “orizzontale” della ‘ndrangheta.
- Possibile che le ‘ndrine dei “locali” si facciano sempre guerra? Devono spartirsi il territorio. Organizzarsi. Senza fottersi. Perché, se no, è una guerra continua ed una bella festa per gli sbirri.-
Momo e Turi si erano seduti spesso a tavola insieme. Senza pistole.
Stavano invecchiando. Avevano più pazienza.
Poi quel tumore di Turi … un solo figlio … i nipoti ancora piccoli ... i cugini desiderosi di spazio, come puledri che vogliono correre …
Momo sapeva aspettare. Sarebbe intervenuto al momento opportuno.
Ora Momo vuole saggiare la situazione a Polsi. Vedere Turi com’è messo. Parlargli, magari … dargli una mano… se solo suo figlio fosse più presente!
Se smettesse quell’aria fanatica di affarista … di milanese…
Turi immagina i pensieri di Momo.
- Iano, caricati la pietra, che la tradizione vuole che un sasso nella tasca serva a costruire un muro sacro. E noi di un muro abbiamo bisogno. Alto. Resistente. Che nessuno possa saltare né forare. Guarda che paesaggio! L’abbiamo anche dentro, questa natura! Impara da queste fiumare che si riempiono di rabbia incontinente, dalle zolle che, spumose e tradite da una lunga siccità, annegano tristi e impazienti di perdersi, di tracimare, di confondersi a valle...-
Turi si fa serio, respira a fatica, i polmoni stretti dalla morsa del cancro.
- Vedi come sono arse? Brulle? La terra sembra spaccarsi dall’arsura. Io però non le vedo solo assetate. Come dimenticare la violenza della piena che non disseta, distruttiva e maligna, anche nella bellezza sublime delle sue contraddizioni? Impara a vederla bollire come torrente anche se così secca. Come questa terra, siamo usi agli eccessi, viviamo d’occasioni che il cielo ci regala. Per questo abbiamo unghie sporche e dure… perché ci arrampichiamo oltre le nubi a ricordare “lassù” che esistiamo. Scaviamo anche noi. Come il toro che ha tirato fuori dalla terra la croce della Madonna dei Polsi e che andiamo a venerare (5) . Per questo non ci fidiamo dei miracoli e diamo una mano al Signore a dispensare giustizia e denaro.-
Prosegue stancamente.
- Tu sei il mio futuro e devi essere il passato dei tuoi figli.
Questo conta. Per questo si vive.
Il resto è solo schiuma, il mare siamo noi.
Ci può essere pioggia, siccità, neve o fango.
La montagna smotta, sputa fango, distrugge le case… ma resta la montagna che per salirci ti spezza le gambe.-
Turi guarda il figlio con un sorriso fermo, tagliente come una lama e rassicurante come una carezza.
- Tu ci sei sulla montagna. Prendi la pietra, su, e seguimi. Cammina sotto di me-

La salita è affollata. S’ode solo il sussurro sordo della cascata umana che lambisce le coste del monte.
I faggi custodiscono i silenzi. I mille silenzi che mettono radici nel cuore orante, tra le supplici silvestri e la voglia antica di rinascere.
Dove la piana sembra tagliata da gradoni affilati, la salita diventa di capriolo.
I pellegrini raccolgono una pietra, per zavorrare i pensieri, perché la polvere rappresa lasci sui profili sassosi un fossile di pena.
Nell’oscurità silvestre la fila indiana sembra una lingua sottile di fuoco, un serpente di lucciole che si rincorrono brevi e che tratteggiano una mappa di torce e di canti.
Sembrano febbrili carezze sulla schiena nuda dell’Aspromonte.
Quando inizia la discesa si lasciano le pietre. Una promessa. Un desiderio. In Calabria cadono i sassi, non le stelle.
Il passo si fa più leggero.
S’intravedono i banchetti carichi di bottiglie di vino e di arrosti.
Capre ed agnelli, sgozzati e lasciati dissanguare, seminano i loro resti di sangue che arrossano le vicine fiumare.
Macellai truculenti sembrano sacerdoti greci dopo il sacrificio.
La gente s’appollaia intorno all’ara gastronomica. Cercano il peperoncino, il formaggio fresco, la carne cotta a puntino.
Ai lati del banco la risacca umana sembra una danza, un volteggiare di “morre”.
Qualche zampogna fa il verso al vento, la fisarmonica invita a duellare le membra giovani di amanti, l’allegria spossata della discesa scatena tarantelle libere da figure, energia delle note che scorrono anarchiche nelle gambe e nel cuore.
I pellegrini inneggiano e gridano, s’empiono di sensuale musicalità, hanno voglia di raccontarsi, di perdersi nei passi di danza e confondersi nella marea umana che li liberi da quel destino individuale che sa di condanna.
L’altra faccia della festa sorride.
Sa bene che i danzatori torneranno nelle loro case. Senza il suono della zampogna.
Con la speranza di tornare l’anno successivo, come quando si va al Banco del Lotto e ci si àncora alle puntate successive, certamente più fortunate.
L’altra faccia della festa, come della Calabria, ha il profilo di Momo, di Turi, di tanti altri come loro che nella discesa, più faticosa ed impervia della salita, trovano la scorciatoia per aspettare i paesani al varco. Pazienti come mosche.
Come quelle mosche sulla carcassa del bestiame sacrificato che ronzano in sciami, sull’inerme midollo schiacciato dalla violenza. Non basta schiaffeggiare l’aria per allontanarle. Piccole e decise, attratte dal sangue e dal cibo, inventano volute, si nascondono, sbucano da ogni parte per rubare qualcosa, sino a quando non ci si fa più caso e si lasciano pasteggiare, senza nemmeno più schifo.
- Pasquale, hai la faccia di pecora scannata. La lingua sembra più lunga della cravatta...-
- Sono stanco. Non potevamo andare con l’auto? La modernità, papà, la modernità non è mica un peccato mortale. Siete sempre il solito. Ancorato alle tradizioni inutili.
Vado a prendere un pezzo di pecora... quello sì che merita...-
- Fermati. Vieni qua. Camminiamo verso il tratturo. Che due parole “stanno meglio” che il pezzo di carne...
Tu sai bene che a Milano lavori per me e per noi. Noi, capito? Siamo noi che abbiamo il canale migliore, che abbiamo per le orecchie albanesi, turchi e colombiani. Tu hai soldi nostri, e noi i soldi non li vogliamo bruciare.
- Guardate papà che i soldi li faccio fruttare. Se non fosse per me sareste ancora a combattere con quegli zingari d’albanesi. Io ho recuperato il tempo perso di zu Nicola, io sono andato a Caracas, e in Polonia io ho accaparrato le migliori partite di ecstasy. Io gestisco tanti ristoranti in Belgio, in Germania e in Spagna. Io spedisco a Gioia Tauro la “roba”. Se mi fermassi sareste in ginocchio meglio che al santuario di Polsi. Ieri ho parlato con il compare. E’ d’accordo con il mio progetto. Bisogna investire nel gas, nei servizi, bisogna attrezzarsi per le prossime commesse. Ormai le piccole imprese possono costruire solo quattro case. Bisogna consorziarsi, pompare grandi ditte e garantirsi le commesse in fase esecutiva. Basta con l’elemosina del pizzo. Lasciatele ai picciotti. Ora non si parla più come voi, si parla inglese. Non si usano gli spalloni con i miliardi nella bisaccia, la via telematica e buoni nodi internazionali possono trasferirti il denaro da una via all’altra di Reggio passando per la Cina e per gli Stati Uniti. Fa giri del mondo per percorrere due metri.
E gli sbirri lasciateli correre per il globo, mentre voi aspettate comodamente sulla poltrona… con le persone giuste ovviamente-
Pasquale ha le idee chiare.
Presuntuoso. Terribilmente presuntuoso.
Da chi ha preso quel figlio?
Il suo sguardo è lontano.
Momo lo sente lontano.
- Calma, Linuzzo, calma. Hai fatto bene ma tutti parlano del tuo carattere “distante”. Milanese. Sembri un avvocato, parli difficile, ti fai negare al telefono ... ma curnutazzu, hai la donna di servizio di Taurianova, vuoi che “Trenuzzo” di quel locale non sappia che ti sei fatto negare mentre ti “annacavi” con qualche femminazza? Mi hanno detto “Momo, che i soldi hanno mbriacatu a tu figghiu?”. Ricordati che quei soldi non sono tuoi!-
- Ma il futuro sono i soldi che gestisco. Non è importante essere di Africo o di San Luca, di Gioiosa o di Seminara… Puoi badare al futuro da Seminara? Puoi guardare il futuro da Africo? No! Da Londra, Roma, Parigi, New York, Toronto, Sidney ….-
Il collo di Momo si gonfia come monta la tempesta in alto mare. Le vene s’ingrossano lentamente, sembra che esplodano.
- No! Non si fanno i soldi ad Africo! Ma ad Africo si muore o si vive! Ed Africo tu te la porti segnata nel cuore e nella testa! Perché la scupettata ti parte da Africo e più lontano sei più veloce arriva e più in alto sei e più pesante cadi!
Pensi che non abbia capito a che gioco stai giocando? Modernità! Sta minchia!
Sai quanti usano meglio di te Internet? Sai quanti banchieri posso comprare? Sai quanti finanzieri sbavano appresso ai liquidi che fottiamo a destra e a manca e che possiamo dare meglio che la Banca d’Italia?
Minchia, di scienziati come te ce ne sono sul mercato!
Mancano uomini con le palle! Quelli mancano, gente che controlla la Calabria, che scivola nei pantaloni del potere e fotte al suo posto! Di gente decisa che non si “spagna” di uccidere, di mettere una bomba, di tenere un bambino sequestrato e sbattersene le scatole che sia giovane e tenero. Come un figlio tuo.
- Sentite non voglio discutere... almeno non ora…-
Momo s’irrigidisce ancora di più... ora trema...
- Non ora… e da quando in qua decidi tu quando si deve parlare?
Vuole cambiare. Schifiando la vecchia “società”. Tragediando con chissà chi, a Reggio. Lo fanno portavoce. Lo mandano avanti. Così, nel caso ci sia una scupettata, lui sarebbe il primo a beccarsela sulla fronte.
- Iano, vieni qui. Siediti. Hai buttato la pietra? .. Bene... vieni qui.
Tu sei il mio successore. E’ ora che capisca come funziona questa macchina. Quello che gira intorno. Ciò che accade. Ieri Pasquale di don Momo è andato a Reggio. Da Giovanni. Hanno deciso di comprare imprese di palificazione, in vista del Ponte. Vuole allungarsi sino al mare. Ha idee nuove. Sembra un leone sulla carne fresca. Ha i soldi della banca, ha un giro tanto grosso che per farlo tutto ci vorrebbe una vita. Ma lui è piccolino. E’ un nano. Sfarfalleggia. E’ ormai un milanese, ma a Milano non lo appoggiano perché manca di rispetto. Sembra che la ‘ndrangheta l’abbia inventata lui. Lo sa pure suo padre. Don Momo però non può più metterlo in gabbia. E la caccia si è aperta. E’ tanto stupido che non ha capito che è un morto in processione. Cumpare Peppe, cumpare Orazio e cumpare Bastiano vogliono la sua testa. Perché quel cornutello è bravo e rapido a prendere ma è tardo a consegnare. Da Milano hanno detto che fa usura con i soldi nostri. E non da’ manco la parte degli interessi.
- Vedo che arrivano i cumpari ...-
Iano è emozionato.
- Ricorda parla poco e quello che devi dire è sempre
“io voglio l’armonia, quello che vuole la società è ben fatto.- U Turu incalza: “Osserva i silenzi, osserva i compari Peppe e Bastiano. Segui anche compare Momo, che oggi si decide se campa o va per vermi! Ma non si gioisce. S’impara. Perché oggi a lui, domani a te...-
Come le comete seguono rotte invisibili e s’attraggono e si respingono secondo riti e discipline che sfuggono all’occhio nudo, così i capi s’accoscano da lontano, s’avvicinano tangendo orditi trasparenti nella polvere.
Si ritrovano all’ombra, come vispi pensionati che riposino le membra pellegrine sui sedili di pietra, accanto a fiaschi di vino, capretto fumante e volute di sigaro toscano.
Quei nonni che la veglia ed il cammino ha fiaccato formano “circolo” e sembrano bambini presi con i loro balocchi.
“Bona jurnata a voi tutti... con alcuni cumpari è tempo che non ci vediamo. Da chidda parte c’è trafficu. I picciotti riempiranno i bicchieri e i piatti. Cumpare Ciccio sta cucinando, stanno mangiando anche gli sbirri e gli invitati di rispetto. Uomini di chiesa che hanno bisogno di pregare per scangiare l’anima. Il crimine ha voluto invitare a questa “passiata” ... era tempo che non ci vedevamo, da quando gli sbirri ci hanno raccolto come balle di fieno, tutte belle e pronte. Ora è diverso. Siamo a onorare la Madonna della Montagna ed intorno abbiamo più picciotti che sbirri o preti.-
Iano li guarda attonito. Il crimine è il livello alto, la guida e la cerniera che tiene stretti i “locali” dispersi nella Calabria e nel mondo.
Lì sono i capi liberi, quelli che la giustizia ha salvato, quelli che possono scrollarsi dalle spalle possenti anni di carcere o di latitanza. I ricercati hanno mandato i loro rappresentanti, che siedono più lontano, per rispettosa distanza dal cuore della ‘ndrangheta.
Parlano. Li ascolta ammaliato. La voce è suadente, sa di terra fertile, di intelligenza coltivata, di esperienza... Quando appunta l’attenzione sugli occhi ardenti è come se andassero per conto loro, seguono altri orizzonti che non corrispondono alle parole. Incomincia a intuire il significato di “doppiezza”, di “tragediatore”.
E’ tesa la situazione tra i mandamenti: un paese vuole conservare il suo legame storico con la fascia ionica, contro le pretese di qualche locale che vuole invece orbiti nel reggino. Altri vantano disparità di trattamento nella distribuzione di cariche, tutti vorrebbero la santa, altri si accontentano di maggiore autonomia... e della speranza di un futuro più aperto. Ancora c’è chi vuole “venalizzare (6) ” un contrasto onorato che ha superato la fase della prova e può diventare picciotto, e chi invece s’appella ai tempi difficili, in cui la pazienza e l’attesa sono garanzia indispensabile di sicurezza e di lealtà.
Di tanto in tanto qualche capo guarda Iano. Lo fissano. Lo studiano.
Lui continua imperterrito a seguire l’incontro, a studiare le mosse, a incastrare i suoi anni di studio e di esperienze maturate con il nonno in quell’arena di vecchi ma furbi leoni.
- Cumpare Turi, don Peppe che non è potuto venire è assai contento che state bene. E vi ringrazia per quell’intervento sulla ditta che a lui sta a cuore. Ianuzzo è andato all’impresa, vero? Giovane intelligente, mi disse Peppe, ricorda tanto compare Toro quando era giovane. Bene ha fatto a dargli il fiore .-
Tutti a bocca serrata confermano, ripetendo come in una nenia “Bene facìu, bene è fatto!”
In tal modo a Iano è stato riconosciuto il suo peso. E’ stato investito del livello più alto, sulle sue mani è stato messo il futuro della sua ‘ndrina!
Si sente il cuore in gola. All’improvviso, dalla regione più remota del petto erompe violento il pensiero dei suoi fratelli. La memoria dei funerali. Il sorriso beffardo dei nemici quando li incontrava per i campi e cercava vie alternative, tenendo stretto il “ferro”. Negli occhi si fissa la scena delle scarpe di quei malandrini al cimitero, a calpestare le foto fraterne con le suole piene di fango.
Stringe i pugni. Le labbra si rincorrono in una smorfia indecifrabile.
Suo padre è vicino alle sue mani strette. Lo guarda intensamente.
Iano allora distende il volto ed apre gli occhi come in un abbraccio.
Le palpebre si socchiudono un secondo in più del normale. Ringrazia i presenti, gli alleati e gli assassini, tutti insieme.
Dentro di sè sente le montagne che svettano sul loro capo. Ne avverte la contraddizione, che ora comprende. Si può ardere dalla sete e morire annegati dopo un secondo per una bufera torrentizia. E’ la vita in Calabria, dove ogni opposto si mette in cerchio e devi cogliere la misura di ogni cosa, conciliare l’impossibile se vuoi sopravvivere alla beffarda ed eccezionale natura.
Cumpare Turi può morire tranquillo, suo figlio è nel crimine. E’ sulla vetta della ‘ndrangheta, tanto giovane, tanto inesperto per le tragedie di questo tempo ma anche forte, come solo può esserlo chi contiene e amministra la rabbia come ha saputo fare lui ora.
- Fighiuzzu, c’è il tempo della guerra, e quella rabbia ti servirà, e c’è quello della pace, e devi essere capo di pace e di misura... E’ una regola saggia-

L’assise sembra voltarsi delicatamente, come per caso verso lo scranno di pietra di Momo.
- Compare Momo siamo molto contenti che sia venuto vostro figlio. L’avete cresciuto proprio bene ed è di grande utilità per tutti i “cristiani”.-
Pasquale li guarda attoniti.
Sembrano vecchietti malconci in qualche ospizio di Cologno Monzese o di Trezzano. Di quelli che ti aspetteresti prendano da una sporta le palle ed incomincino a giocare a bocce. Di quelli che fanno le passeggiate nei piccoli giardini dei quartieri popolari, illudendosi di sparire dalla vista della morte.
Lui, invece, si sente diverso. Si vede diverso. E’ cresciuto negli ambienti migliori dell’Europa, ha conosciuto le lobbies più importanti del Paese, ha frequentato corridoi dove i cappucci e le banche sono di casa.
La sua eleganza e il suo savoir faire hanno aperto salotti e buone relazioni. Il suo coraggio lo ha portato in Oriente, in Sudamerica, accanto a narcotrafficanti che hanno un esercito e impongono la loro legge a territori più estesi dell’Italia.
Dal suo monitor e dal display policromo del suo cellulare sono passati più soldi di quanti sostino in un istituto bancario di Reggio.
Pranza con sindaci, assessori, gente della politica, dello spettacolo... tutti affascinati dalle sue idee, tanto belle fuori quanto avvelenate dentro.
Era partito con mille speranze e ne aveva riempito le tasche a tutti i presenti.
Le loro querule richieste, antiquate come il baratto, soffocavano la sua giornata tanto da mettere un segretario a rispondere a questi capi società.
Caproni. Ricchi, maledettamente ricchi, ma pur sempre caproni.
Attenti al guadagno, al centesimo. Capaci di capire i meccanismi della finanza, ma sospettosi e restii a rischiare, a osare, senza mille prove di fedeltà.
Guarda suo padre. Orgoglioso tanto che la giacca rischia di lacerarsi sul petto. Lui e le sue idee della Calabria. Della ‘ndrangheta, che forse va aggiornata. Saprebbe lui come aggiornarla!
La forza è nei soldi, è nell’occupazione del mercato dei servizi, in un’era in cui tutto è intermediato per andare più veloce, meglio, più sicuro.
Quella pioggia di miliardi dei lavori e della droga può annegarli tutti.
Come questa terra abituata all’arsura e alle alluvioni.
Invece lui danza con quei fiumi di soldi e li raddoppia, triplica...
- Beddu vestito che avete, dutturi!-
Il sorriso generale sa di sfottò. Come se avessero letto i pensieri e ora provassero a sbeffeggiarlo.
- Ha un buon taglio... il sarto è calabrese. Ora lavora a Londra.
Don Momo arrossisce di rabbia. Quel castro del figlio offre sul piatto migliore la possibilità di attaccarlo.
- Noi invece siamo sarti rozzi. Tagliamo bene “u cappottu i lignu”. Lo facciamo indossare e lo portiamo a spasso nel paese sino al camposanto!-
L’ilarità generale offende Pasquale.
- Bravi! A furia di tagliare legno non vi accorgete che il mondo gira. Rischiate di essere in ritardo!
Per che cosa? Per stare rintanati nei bunker a pregare di non essere presi dalla polizia. Perché? I soldi sono valore di scambio. Vivere bene è un movente accettabile. Ma sopravvivere non è quello che si vuole da un crimine moderno. Guardate i russi! Guardate i colombiani! Ville e potere, vestiti, donne, un futuro migliore per tutti! Voi comandate. Da queste pietre dove il mondo sembra piccolo piccolo. Dove se studi e diventi avvocato continui a chiedere pizzo e fai la ruota per un grado in più. Se fai il medico stai appresso agli appalti più che ai pazienti. Senza pensare che oggi se vuoi più potere l’avvocato lo devi fare a Roma, a Milano, a Londra! E il medico lo devi fare nelle cliniche americane, devi diventare famoso, tanto bravo che si aprono tutte le porte. E “trasiu” con te la ‘ndrangheta! Voi, cumpari, mi “cugghiunati”, eppure sono utile, perché ho portato l’Aspromonte in tutto il mondo e in tutte le banche.-
Ha esagerato.
Compare Momo si alza, innervosito.
- Non dovete pensare a un’offesa. U figghiuzzu si è sentito sfottuto. Sta lavorando bene, e voi lo sfottete. Lui è africota, sangue caldo e grande intelligenza. Non è ancora furbo. Ma sa chinare il capo, non dimentica chi è, “sutta cu cammina !-
- No- compare Orazio aveva ascoltato attentamente. Medico, affermato nel suo lavoro, aveva lavorato a Reggio. Poi nella pensione si era dedicato alla sua famiglia. Non che abbia mai smesso di farlo!
Di tutto quello che era stato costruito nella sua terra una buona parte si doveva a lui, alle sue entrature, alle sue capacità. Alla morte del fratello, capo crimine di Reggio, aveva ereditato il peso di una ‘ndrangheta in rinnovamento.
- Cu parrau m’arricriau (7) !-
Tutti ascoltano interessati. Sanno che proprio don Orazio lamenta l’atteggiamento di Pasquale. N’è certo infastidito.
I suoi occhi sono gelidi.
- Quando stavi al seno della madre, tuo padre, come tuo nonno, come me e come tutti, qui, avevamo nelle mani un fucile. Prima di usare il bisturi, e forse meglio, sapevo maneggiare il coltello. O la lupara. Era tempo di guerra. Tempi difficili.-
Si fa placido. Calmo. - Dici bene. I tempi cambiano, e noi siamo vecchi. E’ sempre stato così. Noi eravamo giovani e mordevamo il freno. Magari non parlavamo così apertamente. Portavamo più rispetto. Ma siamo stati pronti e capaci a finire a scupettate le resistenze della tradizione.
Tutti ci ricordiamo bene come abbiamo consumato i maestri, quelli che ritenevamo le colonne della ‘ndrangheta.
Se vai fuori del campo, ti rendi conto che puoi seminare altro. Che puoi mangiare altro. Che puoi rubare altro. Che puoi desiderare altro.
Il mondo si è aperto. Il diluvio universale è avvenuto. Non si capisce più niente. Puoi fare cento cose. E ancora di più gli sbirri. Prima potevi parlare libero, pei campi. Oggi ti registrano. Pure quando fai i bisogni per le frasche. Non c’è più costume, nè limite.-
Un picciotto si avvicina con un bicchiere pieno di vino.
Scocciato lo allontana “Non vidi mu ti levi (8) .- Continua.
- Pascaluzzu queste cose le ha viste. Lui ha visto come sarà il mondo, domani.
Ma la vita, l’universo, il tempo ... sto fottuto tempo ... è una torre infinita. Ci devi mettere i mattoni. E se tu vedi dalla terrazza il tuo bel mondo è proprio perché i mattoni ... i nostri mattoni, te li abbiamo messi sotto il sedere. Che se togliessimo quei mattoni, sai dove ruzzoleresti? Ne ho visti come te, finanzieri importanti, che stavano sui giornali, che venivano in Calabria con barche più grandi del porto. Sono colati a picco. In pochi secondi.- Orazio insiste. - La ‘ndrangheta è il nostro mondo. E’ il mondo. E nella Calabria noi siamo il passato, il presente, il futuro.-
Ora si siede. Prende il bicchiere che ha lasciato. Sorseggia. Sorride.
- Solo così viviamo, perché i russi noi li fottiamo in Russia, i colombiani li fottiamo in Colombia. Loro non ci fottono in Calabria. Questa è la differenza. Noi non abbiamo bisogno dei loro soldi. Noi i soldi li buttiamo in faccia all’estero, e li compriamo a quei cornuti. Prendiamo ristoranti, officine, pizzerie ... non prendiamo ville! Non consumiamo i giorni e i soldi! No. Noi lavoriamo e i soldi li portiamo in banca. Ne portiamo tanti, buoni e sporchi, s’intende, che le banche si reggono non per i muri ma per i nostri soldi! Tu devi farne altri. Tanti. La droga porta i soldi e tu devi farli girare. Per diventare potenti. Perché nessuno ci può e ci deve comprare.
I mattoni li facciamo noi.
Costruiamo: e ci fottiamo i soldi.
Facciamo i porti, e ci portiamo la droga.
Facciamo gli aeroporti, e ci prendiamo u pizzu.
Facciamo i Paesi e mettiamo la nostra gente a comandare e a curare gli interessi, così siamo sicuri che nessuno ci fotta.
Nella vita, però, si cammina sotto qualcosa, per qualcosa.
Tu per chi spacchio lavori?
Tu pensi che le tue donnine e il tuo champagne non vengano da questa terra? E se non ci fossimo noi a sparare, a buttare bombe, a far spagnare tutti, amministratori, sbirri, imprenditori, tu con quale aereo pensi di volare a Londra a prendere quei fottutissimi vestiti? Tu fai questa vita perché devi farla per noi. Perché nei tuoi ambienti capiamo che devi sembrare cornuto come quelli. Ma tu non puoi diventare cornuto, e se ti dico che devi salire per la montagna con le ginocchia nude, tu, minchia, devi farlo cento volte, perché se no il tuo champagne te lo porti sotto terra. E con te viene tuo padre e i tuoi figli, sino a quando se si parla di te tutti dicono: e chi minchia è sto’ cornuto?-
Prende fiato, come per concludere.
- Tu pensi sia stato facile per tuo padre sopravvivere? Sai quante volte ho cercato di ammazzarlo? E sai perché? Perché altrimenti mi avrebbe fatto fuori lui. Qui i Paesi non sono come New York. Qui se giri l’angolo scompari. Hai capito, tu che hai studiato? Se giri l’angolo, scompari. Perché o non ti vedono più perché sparisci nei campi a lavorare o perché non ti ritrova manco il Padreterno per quanti pezzi ti hanno fatto.
Eppure anche noi abbiamo capito che non funziona la guerra. Per questo noi vogliamo armonia. Tanta armonia. Così i soldi crescono e ci sono per tutti. Anche per te e le donnine da quattro soldi. Domanda loro se ti coprono da latitante, quando non hai i fottuti soldi che spariscono nelle tue fottutissime macchine. Puoi avere mille palazzi, cento automobili, milioni di amici sparsi per il mondo... ma solo sul monte puoi contare sulla libertà. Solo sui pecorai di Africo che ci mettono tre secondi a sbrindellare i tuoi abiti costosi.
Sutta cu cammini?
Ricordatelo. Sutta cu cammini? E’ la regola della ‘ndrangheta. Che ci rende catena. Che ti fa vestire da massone, sindaco o finanziere .. vestiti .. che come quello di tuo padre può starti stretto... o come quello di don Turi ti sta largo .. ma dentro.. dentro dentro .. tu puoi essere solo ‘ndranghetista.-
Orazio beve un sorso di vino, si pulisce le labbra con la manica della giacca. Macchie rosse colorano il suo abito, sparse sino alle scarpe.
- Oggi festeggiamo i nuovi “fiori”. Iano sarà “santo”. Così è. E tu, Pasquale, darai a lui conto e ragione, e lui avrà potere di vita e di morte su di te. Tuo padre sa che cosa significa. Lo ha sempre saputo. Iano ha fatto gli studi. Ha tanta sete di vendetta da bere tutto il mare della Piana. Ma sa obbedire e conosce il suo principio che è il nostro. Tu hai girato il mondo. Poteva farlo pure lui. Ma chiesi a compare Turi di lasciarlo tra di noi. Ora tu lo ringrazierai.-
Dal cerchio silenzioso si fa avanti una voce più lenta. Strascicata.
- Ben fatto, cumpare Orazio. Noi sappiamo che il tuo “crimine” può contare sulla tua saggezza. Il tuo contributo per la “società” è garanzia per tutti noi. Anche noi vogliamo armonia e pace. Siamo anche noi d’accordo con la tua scelta. Pascaluzzo poteva morire. Invece vive. Ma non deve fare usura con i nostri soldi. Se la fa da buoni fratelli si spartisce. Altrimenti ... ma non lo farà, perché compare Orazio fa le cose giuste.-
Compare Mico è vecchio. Gode di ottima salute. Ha il gilet sporco di sangue di capretto e di olio. A ottant’anni ancora regge il buon vino e le grandi mangiate.
E’ saggio, dicono. Da quando ha stretto intorno a sé tutti i locali della jonica.
- Ci sono alcune cose che è bene chiarire. Perché la freccia parte dall’arco, non viceversa. E noi prima di parlare di affari dobbiamo parlare di ‘ndrangheta. Sti picciotti hanno troppa voglia di crescere. Minchia, vogliono prendere “fiori” a mazzi. Un figghiulazzu può mai essere “santo”? Tutti vogliono comandare e nessuno vuole più obbedire. Un carro grande e pesante può essere portato da due buoi? Belli mei, voi rinforzate i carri ed i buoi sono sempre “picca”. Poi le promozioni agitano. Gelosie. Rancori. Così i fratelli litigano. I cugini si sgozzano. Troppi comandano e nessuno capisce più nenti.-
I suoi occhi si chiudono.
Ha assolto al suo incarico.
Le sue parole sono macigni sull’assise.
Invece, compare Mico sembra abbia proferito solo una gentilezza, ed ora si mette a fare una pennechella.
- Cumpari, a questo proposito anche io vedo troppi cani sull’osso. Piano. Facciamo crescere piano l’albero, che se no poi hanno i rami storti. Va a finire che toccano qualche pianta vicina. E si fa trafficu.-
Compare Saro ha cinquant’anni di Piana. Lui è stato il delfino di Domenico, di cui è nipote, e che ha rappresentato da sempre la ‘ndrangheta chianota.
Arrestato. Scarcerato. Arrestato di nuovo. Nuovamente scarcerato. Sembra essere nato con la Calabria. Sembra essere eterno. Fuori sempre da ogni faida. Pronto a cogliere la novità, a non opporsi ma a sviare a suo favore ogni iniziativa.
Lui ha il porto. Lui sta al sicuro. Ha tanti di quei lavori che basta che respiri per guadagnare miliardi.
- Cerchiamo di rimanere uniti. Come cosche di un carciofo. La nostra forza è che ciascuno è autonomo, ma parliamo la stessa lingua. Sappiamo essere una sola “società”. Possiamo essere tutti utili servitori della ‘ndrangheta. Dobbiamo parlarci. Senza tragediare. Perchè le morti portano sbirri e giornalisti. E loro poi parlano male in Italia ed in Europa. E qui i lavori non li fanno più.
A Reggio c’è qualcuno che vuole un balcone troppo grosso sullo Stretto. Vuole vedere da vicino il Ponte. Invece a lui tocca la finestra. E dalla finestra deve guardare.
Cumpare Orazio, cumpare Turi, qualche ‘ndrina s’agita troppo. Scutoliando scutoliando le foglie cadono dall’albero!-
Un picciotto trafilato avvisa che le autorità vanno via. Hanno festeggiato e ora tornano a contare quanti voti hanno guadagnato, a segnare quanti articoli domani parleranno di loro.
Finisce la seduta.
- Cumpari, tanti auguri, la Madonna ci guidi sempre! Ce ne andiamo come i signuri.. è stata però una bona jurnata, meglio della loro certamente.. salutamo a tutti, belli mei.-
Compare Orazio ha licenziato. Mico dorme ancora, con gli occhi chiusi però si solleva dalla sedia, si appoggia ad un bastone e dalla sua cecità assonnata lancia una carezza a Pasquale che gli passa accanto.
- Pascaluzzo non fottere soldi perché altrimenti “ti consumi”. L’acqua fa bene alle piante ma non deve essere violenta, perché se no muoiono. Ricorda: sutta cu cammini?-
La giornata volge al termine. Come olio nell’acqua le parole sembrano perdersi, ma poi ciascuna ritrova le altre, prende la corrente del senso e s’accosca in un ordito fitto.
Fitto nel cuore. Fitto nella mente. Come il battito del tamburo nella caccia.
La riunione non si è chiusa con una decisione.
Come sempre, ogni sentenza rimane sospesa nell’aria. Ma ha radici più lunghe del cielo. Sembrano arcobaleni legnosi, più forti della quercia.
Ciascuno si porta nel cuore le certezze e i dubbi.
Ha, tuttavia, imparato a orientarsi nella galassia delle famiglie .. E’ questo il senso delle riunioni.. Le posizioni di ciascuno .. così da potersi muovere senza collisioni.
E’ un navigare a vista, per non naufragare. Per non morire.
Pasquale salvo. Momo frenato nelle sue aspirazioni. Iano ancorato ai destini del suo nemico.. i giovani con il morso stretto.. l’urgenza dell’ordine, che sintetizza e assicura l’interrogativo ‘ndranghetista: sutta cu cammini?
Iano prende la via del ritorno.
Sino a ieri la sua mente godeva dei paesaggi e sapeva galleggiare, quasi naufraga. Persa.
Riusciva a riposarsi, sull’amaca di quella leggerezza.
Avrebbe voluto sdraiarsi su quell’amaca. Ora. Eppure non ci riesce più.
Non ci sarebbe più riuscito.
E’ questo il prezzo del crimine.

La folla di Polsi s’allontana stanca. Sotto il peso della speranza raccolta al santuario.
Le gambe portano i segni della danza.
Le campane sciolte stordiscono la vallata. Frugano nell’anabasi dei pellegrini per trovare la cima dei loro pensieri. Tenerli ancorati all’umile sapienza di quella terra.
S’odono sottili e sparsi i sonagli della ‘ndrangheta come di monatti.
L’anno prossimo Pasquale porterà un cuore d’oro alla Madonna. Forse. Iano con il vestito del lutto paterno accompagnerà i figli al santuario.
Forse.
L’anonimo bracciante dalle sponde sudate della sua vita pensa a quanto sia bella la Madonna.
La moglie lo guarda con insolita dolcezza.
Magari la Madonna ci fa la grazia.
Potresti aprire finalmente quel negozietto che ci sta a cuore. Per vendere noi la nostra frutta e verdura!-
Lui accondiscende al sorriso. Si. Magari ne parlo anche a don Turi. L’ho visto, oggi, con il figlio. Potrei chiedere a lui una mano....-


(1) Bracciante
(2) L’attuale Africo sorge a valle, dopo che il vecchio Paese è stato distrutto da un’alluvione.
(3) Come viene chiamata dall’interno la ‘ndrangheta.
(4) Bara.
(5) Secondo la tradizione un pastorello vide un toro scavare la terra della valle di Polsi. L’animale estrasse una croce di ferro e si inchinò al segno divino.
(6) Rito che si fonda sulla “pungitura” del braccio. Il sangue macchia l’immagine di S.Gabriele prima
(7) Senti chi parla.
(8) Levati di torno.

© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA