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GNOSIS 4/2007
Sport e violenza urbana

Se lo stadio diventa una 'banlieue'


articolo redazionale


foto Ansa
Quali sono i meccanismi originatori della violenza calcistica? Come mai l’aggressività pare essere connaturata agli sport di squadra – il football europeo in primo grado - mentre non sembra affliggere gli sport individuali? Quanto conta - nell’insorgere dell’hooliganismo - l’estrazione sociale dei supporters e che peso hanno – nel tifo violento - le difficoltà e le situazioni di degrado tipiche della società moderna? Una corretta analisi della violenza nello sport getta, altresì, luci inquietanti sulle sorprendenti analogie tra la rivolta nelle Banlieues francesi e l’assalto degli Ultrà alle caserme di Polizia. Fenomeni di moderno ribellismo in cui il malessere sociale esplode incontrollato per poi tornare, improvvisamente, ad essere silente. Tifosi violenti ed immigrati delle periferie appaiono, sempre più - come già accadde per i contadini nell’Europa del XVI-XVII secolo - i protagonisti di una nuova ‘jacquerie’ dell’età contemporanea.

Parigi come Roma! I boulevards Villiers-le-Bel (cittadina alle porte della capitale) come i viali che circondano lo stadio Olimpico! Il quartiere Flaminio appariva come un dejà vu dei vicoli di Genova nel periodo del G8, mentre in Francia il “93arrondissement” sembrava rivivere lo spettro della rivoluzione delle Banlieues del 2005. Le due capitali alle prese con una violenza di gruppo provocata da eventi, a prima vista, molto simili: due adolescenti (Moushin e Larami) vittime di uno scontro tra una minimoto e un’auto della Polizia francese; Gabriele Sandri deceduto in un autogrill di Arezzo a seguito dell’intervento delle Forze dell’Ordine, nel tentativo di sedare una rissa tra tifosi.
Oltre alle riprese video e al bollettino dei feriti (quasi sovrapponibile nei resoconti della cronaca) nessun altro elemento sembrava - ad un’osservazione approssimativa - paragonare l’improvviso ritorno della rivolta nelle periferie di Parigi con la violenza degli Ultrà nostrani. In realtà l’analisi del primo avvenimento permette di cogliere le radici e l’evoluzione dell’altro fenomeno. La rivista GNOSIS si è già occupata sia del mondo Ultrà (ottobre – dicembre 2004) che della rivoluzione delle Banlieues (gennaio-marzo 2006), ma una verifica analitica dei fenomeni – focalizzata soprattutto sull’evoluzione della violenza nel mondo del calcio – potrebbe integrare quanto sostenuto nei precedenti lavori.
L’osservazione del pur “fugace” ritorno della rivolta nelle Banlieues permette di avvalorare quanto emerse nel novembre 2005: i tumulti vedevano come protagonisti gruppi di giovani non organizzati, appartenenti alla cosiddetta terza generazione degli immigranti nord-africani, cresciuti nell’hinterland parigino e che - da alcuni anni - vivono le difficoltà di un “sistema d’integrazione” sociale, etnico, culturale ed economico nei fatti bloccato se non prossimo al fallimento assoluto. Solo alcuni osservatori - nel tratteggiare la rivoluzione delle Banlieues - hanno rievocato il ‘68 francese, la maggior parte di loro più correttamente ha ricordato i tumulti della Los Angeles del 1992 e – soprattutto – le proteste etniche degli anni ’60, che hanno infiammato i ghetti di alcune metropoli statunitensi. Erano contestazioni durissime, portate avanti dalla minoranza di colore allo scopo di conquistare un sistema di welfare che potesse colmare il gap socio-economico con la maggioranza bianca. Le bande, che nel novembre 2005 costrinsero al coprifuoco i sobborghi della capitale francese, erano non strutturate sul piano sia ideologico che gerarchico, anzi i rivoltosi rifiutavano qualsiasi tentativo d’ingabbiare il movimento in una prospettiva marxiana o religiosa. I manifestanti, infatti, pur se in buona percentuale islamici, non hanno fatto mai riferimento a questo credo per giustificare l’azione di protesta. Essi promuovevano concetti estremamente elementari (e quindi facilmente assimilabili da tutti): l’emarginazione sociale appare come un dato inalterabile, le politiche d’integrazione (portate avanti soprattutto dal mondo della scuola) inefficaci, la Polizia rappresenta lo strumento principale della società francese per mantenere le Banlieues in uno stato di anestesia e cronicizzazione economica e culturale. Un terreno sociale apparentemente quiescente ma in grado di generare, di fronte alla morte accidentale di due ragazzi, voglia di vendetta e di violenza contro l’intera società. Desiderio che sembra del tutto simile a quello dei gruppi Ultrà che hanno “giurato ritorsioni per la morte di Gabriele Sandri”.
Ma come è possibile che un appassionato di calcio, che dovrebbe occuparsi dello stato di forma del suo centravanti oppure del modulo prescelto dall’allenatore, sia pronto a trasformarsi in un”guerrigliero urbano” a causa di un tragico evento accaduto fuori dello Stadio?
Per comprendere realisticamente come un tifoso si possa trasformare in un tifoso violento è necessario evitare analisi basate su stereotipi e sociologismi elementari (strumenti da qualcuno ritenuti dei passpartout ottimali per interpretare ogni tipo di violenza di gruppo) ma, soprattutto, è opportuno sottrarsi sia alle semplificazioni che alle complicazioni interpretative.
È per prima cosa utile rammentare che quando l’Ultrà diventa “violento” siamo di fronte ad un’aggressività socialmente organizzata e che, quindi, è inopportuno tentare d’interpretare tale condotta facendo riferimento a logiche psicologiche (o caratteriali) del singolo tifoso. Un’analisi attenta evidenzia, infatti, che quanti sono coinvolti nella violenza sportiva non sono - in genere- più aggressivi, più ignoranti, più socialmente disadattati di altri giovani che vivono altre realtà associative. L’ipotesi, quindi, secondo la quale si trasforma in Ultrà soltanto chi ha problematiche esistenziali (basate su consistenti elementi di psicopatia e/o sociopatia) è poco sostenibile anche se - per la maggior parte dell’opinione pubblica - è faticoso metabolizzare l’idea che quanti hanno assalito l’auto di Filippo Raciti fossero giovani con caratteristiche psicologiche del tutto simili a quelle di gran parte dei loro coetanei.
Un altro luogo comune da sfatare è quello di credere che la violenza sia entrata nel mondo del calcio solo in tempi recenti. Agli albori, il football era effettivamente lo sport dei gentlemen per antonomasia; veniva, infatti, esclusivamente praticato nei college britannici da compassati rampolli dell’”upper class” e le tribune che ospitavano i fans erano vere e proprie scuole di fair play. Ma in poco tempo il calcio subisce un’evoluzione diversa da quella del più blasonato cricket. Raccoglie sempre più appassionati e si trasforma in una disciplina per professionisti ben retribuiti. Un’opportunità insperata per i giovani della worker class che - attraverso il calcio - possono sperare di conquistare fama e ricchezza. Uno sconvolgimento sociale per il rigido modello britannico e per una competizione che diventa: ”…un’attività per gentiluomini giocata da mascalzoni mentre il suo più diretto derivato, il rugby, divenne uno sport per mascalzoni giocato da gentlemen.” Una massima popolare che, a distanza di più di un secolo, non riesce ad essere scalfita!
Se nel rettangolo di gioco il fair play è presto trascurato, nelle tribune esso scompare in un modo ancora più rapido e solo occasionalmente trova spazio tra le tifoserie. L’anno 1896, ad esempio, è ricordato come l’anno più violento per il neonato football. A causa di risultati (o condotte arbitrali) sfavorevoli, gruppi di supporters armati di bastone presero di mira sia i giudici di gara che i giocatori avversari e, quando la Polizia intervenne per sedare i tafferugli, l’attacco si spostò contro gli sbigottiti bobbies. Nel Regno Unito la violenza dei progenitori dei moderni Ultrà è stata, inoltre, ben presto contaminata dalla conflittualità politica e religiosa. Le cronache del tempo, infatti, ricordano che - nel 1909 - durante una partita del campionato scozzese (quella tra le due compagini di Glasgow: i cattolici del Celtic e i protestanti dei Rangers), si scatenò una vera propria battaglia tra le due tifoserie, con la conseguente distruzione di gran parte dello stadio. Il confronto si spostò poi fuori dell’impianto sportivo, con assalti ai quartieri ove risiedevano le due comunità.
L’episodio di Glasgow non è rimasto isolato ed ha rappresentato la prima trasposizione - in era moderna - di quanto già settecento anni fa accadeva tra gruppi di contradaioli durante il Palio di Siena.
Se la popolarità del calcio ha in breve raggiunto in tutti gli angoli del pianeta altrettanto rapidamente è apparso evidente che questo mondo (e quello dei suoi supporters) raffigura in assoluto il massimo sistema collettivo in grado di scatenare nelle masse i comportamenti emotivi più estremi: cioè il piacere della vittoria sommato a quello della sopraffazione dell’avversario/ nemico. Un pensiero, al tempo stesso elementare e pregnante, che ha generato le sue icone e i suoi miti. Visitando, infatti, lo stadio Anfield di Liverpool si rimane colpiti per la presenza all’ingresso di una gigantesca statua di bronzo raffigurante un uomo che, a braccia aperte, accoglie i tifosi dei reds. La statua raffigura Bill Shankly, allenatore del Liverpool dal 1959 al 1974. Un personaggio leggendario, conosciuto in tutto il mondo per aver coniato un aforisma che in poche parole condensa tutta la filosofia del
football: “Alcuni pensano che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d'accordo. Posso assicurarvi che è molto, molto di più!”. Un’affermazione iperbolica, forse coniata per riscaldare il già “ardente” ambiente di Liverpool, ma forse non sarà un caso che i supporters dei reds siano stati giudicati dall’UEFA i "peggiori d’Europa" e, nel 1985, una delle concause della
tragedia dell’Heysel.
Se la frase del focoso allenatore scozzese potrà apparire, ai più, esagerata, altri autorevoli pensatori hanno raffigurato questo gioco in modo altrettanto lirico. Albert Camus (che da giovane, eccellente portiere, ha visto interrompere la sua carriera per la tubercolosi), amava ricordare: ”Tutto quello che so della vita l'ho imparato dal calcio.” Mentre lo scrittore di origine scozzese George Orwell era così affascinato dal football al punto da scrivere con enfasi: “Il calcio non è colpire una palla, è lottare.”
Come abbia potuto il gioco del calcio soppiantare in pochi anni tutti gli altri sport di squadra è uno dei misteri antropologici dell’era moderna. Il football, per l’etologo Desmond Morris, incarna - più delle altre competizioni sportive - una rappresentazione (nel nostro inconscio collettivo) dell’anticabattuta di caccia. Se nel baseball sono troppo frequenti i momenti di stasi del gioco e manca l’effetto dell’inseguimento della muta dietro la preda (il pallone, ndr), se nel rugby gli schemi sono troppo rigidi e schematici, se nel football americano sono presenti troppe interruzioni, nel calcio, all’opposto, i momenti morti sono rari, le sequenze di azioni continue, la tensione, nelle partite più accese, è senza interruzione e con i giocatori avversari considerati semplicemente ostacoli piazzati tra i cacciatori, la preda (il pallone) e la meta da raggiungere.

da www.cas.lancs.ac.uk.
Se la frase del focoso allenatore scozzese potrà apparire, ai più, esagerata, altri autorevoli pensatori hanno raffigurato questo gioco in modo altrettanto lirico. Albert Camus (che da giovane, eccellente portiere, ha visto interrompere la sua carriera per la tubercolosi), amava ricordare: Tutto quello che so della vita l'ho imparato dal calcio." Mentre lo scrittore di origine scozzese George Orwell era così affascinato dal football al punto da scrivere con enfasi: "Il calcio non è colpire una palla, è lottare."
Come abbia potuto il gioco del calcio soppiantare in pochi anni tutti gli altri sport di squadra è uno dei misteri antropologici dell’era moderna. Il football, per l’etologo Desmond Morris, incarna - più delle altre competizioni sportive - una rappresentazione (nel nostro inconscio collettivo) dell’antica battuta di caccia. Se nel baseball sono troppo frequenti i momenti di stasi del gioco e manca l’effetto dell’inseguimento della muta dietro la preda (il pallone, ndr), se nel rugby gli schemi sono troppo rigidi e schematici, se nel football americano sono presenti troppe interruzioni, nel calcio, all’opposto, i momenti morti sono rari, le sequenze di azioni continue, la tensione, nelle partite più accese, è senza interruzione e con i giocatori avversari considerati semplicemente ostacoli piazzati tra i cacciatori, la preda (il pallone) e la meta da raggiungere.
Questo rito ancestrale, celebrato da “giocatori/eroi/guerrieri”, coinvolge a dismisura i tifosi che, attraverso slogan, insulti, minacce e comportamenti isterici, trasferiscono a loro stessi la tensione della squadra per cui tifano. Secondo Morris: “Se venisse eliminata questa pressione emotiva il significato fortemente simbolico dei rituali tribali andrebbe perduto, il loro senso profondo sarebbe schiacciato. L’unica possibilità consiste nel mantenere questa tensione, questa intensità di partecipazione e, allo stesso tempo, di soffocare le sue forme di espressione estreme, distruttive. Il guaio è che quando un fuoco brucia è difficile da controllare e la tribù del calcio deve ancora inventare l’estintore adatto a tutte le proprie esigenze”.
Il tentativo d’inquadrare dal punto di vista scientifico il rapporto tra “calcio, squadra, tifosi e violenza” ha stimolato finanche gli esperti di fenomeni di massa. Secondo il modello sociologico di orientamento marxista (riconducibile alla Scuola di Francoforte) il football rappresenta una manifestazione marginale della società moderna che viene riconvertito in un “magnifico oppio” per i popoli oppressi e rappresenta un simbolo lampante dell’alienazione moderna. Secondo questo paradigma sociologico i gruppi Ultrà non sono altro che l’ultimo stadio di una evoluzione collettiva di un processo di metamorfosi nel rapporto masse/violenza ampiamente trattato – nel 1921 – da luminari come Gustave Le Bon, nell’opera la Psicologia delle folle. Secondo Le Bon nella folla (o nei gruppi semiorganizzati come quelli Ultrà) la personalità cosciente individuale svanisce, mentre i sentimenti e le idee si orientano lungo una sola direzione formando una sorta di anima collettiva. Tale entità è, secondo lo psico-sociologo francese, quasi sempre intellettualmente inferiore al singolo individuo e si caratterizza per l’impulsività, la violenza, la ferocia, ma anche per gli entusiasmi e gli eroismi peculiari dei gruppi sociali primitivi. “Le folle”, amava ripetere Le Bon, "si possono accendere d'entusiasmo per la gloria e l'onore, si possono trascinare in guerra senza pane e senz'armi".
Se la suggestiva definizione di Gustave Le Bon (nata sull’onda dell’esperienza personale dell’osservazione dei moti durante la Comune di Parigi nel 1871) può essere accostata sia alla rivoluzione delle Banlieues che alla violenza di massa di alcuni gruppi Ultrà, essa non è ancora sufficiente per consentire una risposta completa a dei quesiti fondamentali: perché solo nel calcio rileviamo gruppi così compatti, estesi, impegnati e coinvolti a tempo pieno nel tifo di una squadra? Perché delle persone possono arrivare al punto di ritenere l’”essere Ultrà” la priorità assoluta della loro esistenza? Ognuna delle ragioni identificate dagli addetti ai lavori e dagli studiosi delle varie discipline concorre a chiarire questi processi (processi ampiamente trattati nel primo numero dell’ottobre 2004 della rivista GNOSIS), ma tre aspetti (semplici ed elementari nella loro essenza) sembrano - in ultima analisi - creare le condizioni affinché il football origini nelle masse quella anima collettiva, quella sub-cultura che porta ad un senso di identità e valore personale attraverso il riconoscimento/coagulo con i propri simili.
Il primo aspetto è così evidente d’apparire lapalissiano: il tifo esasperato, organizzato e di gruppo sopravviene solo se il competitor sportivo è una squadra e non un singolo individuo. Questo non significa che negli sport individuali (pensiamo al tennis, al pugilato, all’atletica leggera, ecc.) non troviamo tifosi scatenati che seguono le gesta del loro atleta/eroe, ma la loro passione - quando trascende nella “identificazione psico-emotiva” - s’interrompe con la conclusione della carriera del campione.
Il secondo fattore è quello “territoriale”. La squadra è denominata in funzione del quartiere, borgo, paese, città ove è nata e si è evoluta. In questo modo si crea un rapporto stretto con gli abitanti dell’unità territoriale da dove emergono i primi atleti e i più fedeli e accesi tifosi. Se la squadra rappresenta un ambito sempre più vasto e si eleva sul piano sportivo, diminuisce il rapporto atleti/territorio, ma - nel contempo - aumenta il numero dei sostenitori che diventano sempre più acriticamente fanatici. Nasce così un fortissimo senso di identificazione e di appartenenza che in caso di vittorie epiche e straordinarie (a livello sia nazionale che internazionale) oltrepassa la collocazione “territoriale” e dilaga in zone lontane centinaia di chilometri dal luogo dove è sorta la squadra.
Ma è il terzo fattore, “il tempo”, quello che - sommato ai precedenti - spiega il perché il tifo nel calcio si è sviluppato in questo modo e, in ultima analisi, come è nato il fenomeno degli Ultrà. Mentre, come si è visto, negli sport individuali il “tifo acceso” si conclude con la fine della carriera dell’atleta (rimane ovviamente il mito e il ricordo struggente, ma in questo caso non si tratta più di fans appassionati e impegnati full time a seguire il proprio “eroe”), negli sport di squadra a forte connotazione “territoriale” la squadra può teoricamente vivere in ogni tempo e creare un rapporto con i sostenitori che si tramanda di generazione in generazione. Questo non vuol dire che le gesta dei singoli campioni siano soffocate dalla passione per la squadra (si ricordano ad esempio delle squadre – come nel caso del - per la sola presenza di un fuoriclasse), ma che il fattore “gruppo “ e il senso di appartenenza sopravvivono alla vita professionale dei calciatori. A differenza di ideologie e schieramenti politici, che possono sopravvivere decenni per poi trasformarsi oppure scomparire (l’evoluzione politica in Italia negli ultimi cinquant’anni ne è una riprova), squadre come il Real Madrid o come la SPAL, team come quello del Manchester o come quello della squadra più antica d’Italia (il Genoa) sopravvivono agli eventi. Trascorre il tempo, i campioni vanno e vengono, le vittorie sono spesso vetusti ricordi, ma il tifo non cambia: acritico, indistruttibile, non logorato minimamente dal tempo e dalle sconfitte. Basta ricordare – a titolo di esempio - che in Italia è consistente, tra le persone che hanno superato i sessanta anni, il numero dei sostenitori del Torino. Sono tifosi che non hanno mai visto il capoluogo piemontese e che non assistono ad un trionfo dei “granata” da quasi trent’anni; eppure la loro passione - nata durante le gesta del “Grande Torino” (squadra in grado d vincere cinque scudetti consecutivi prima di sparire tragicamente in un disastro aereo) - non è scalfita dal tempo e si tramanda con toni a volte “epici” alle nuove generazioni. Questo rapporto straordinario tifosi/squadra esiste solo nel calcio. Negli altri sport di squadra (forse perché poco radicati nel territorio oppure perché il bisogno vitale di sponsor porta una rappresentativa a mutare continuamente “nome” e colori sociali) il fenomeno Ultrà è sì presente, a volte con tratti di estrema aggressività, senza tuttavia raggiungere l’estensione e l’intensità storica riscontrata nel football.
Ma può una ricostruzione (per degli aspetti suggestiva) delle motivazioni socio-emotive, che sono alla base del fenomeno Ultrà, essere sufficiente a spiegare le basi di una violenza di gruppo che, sempre di più, sembra appartenere alla sub-cultura del “clan” e per questo motivo disciplinata da regole come quelle della ”faida” e della rappresaglia etnica o politica? Tutto questo diventa comprensibile se si accetta l’ipotesi che siamo di fronte - in realtà - ad un gruppo di “tifosi diversi” dai supporters più moderati, i quali condividono regole ferree spesso dettate da codici non scritti (provenienti in qualche caso da un leader carismatico), una simbologia condivisa (gli emblemi e i colori della squadra), dei fattori di riconoscimento (sciarpe, bandiere, striscioni), dei riti di gruppo a forte contenuto simbolico (cori, coreografie, danze, ricerca della maglietta del proprio campione al termine dell’incontro, ecc), una storia passata – come sostiene Desmond Morris - di “gesta eroiche, di cui ogni membro è allo stesso tempo testimone e protagonista.”.
Spesso l’ingresso di un nuovo adepto nel gruppo Ultrà è sancito da riti con cui il neofita deve dimostrare di possedere comunanza con il gruppo, affidabilità, audacia, a volte un “virile rigore ideologico” se non – in alcuni contesti – capacità di aggredire e sapersi difendere dai “nemici”. Quasi tutti i gruppi richiedono agli affiliati il rispetto della gerarchia e il superamento, tra i membri, delle provenienze culturali, economiche e sociali. In un microcosmo Ultrà si creano, inoltre, due dinamiche precise nell’anima collettiva: da una parte si assiste all’appiattimento del singoloestraneo. Se costui è anche sostenitore di una squadra considerata “avversaria” diventa automaticamente un nemico e una minaccia per il gruppo. Se l’estraneo al gruppo appartiene alle Forze dell’Ordine - e si contrappone alle manifestazioni dell’entità Ultrà - oltre ad essere nemico diventa “infame” e quindi viene trattato in quanto tale. Una “energia eversiva” pronta ad esplodere di fronte a qualsiasi atto del “nemico”, valutato unilateralmente dall’Ultrà come “ingiustificato e iniquo”.
Ma ogni tifoso è un potenziale Ultrà? Ogni Ultrà è predisposto a trasformarsi in un sovversivo, pronto ad attaccare tifosi avversari, poliziotti e carabinieri?
Anche in questo caso occorre evitare semplificazioni e preconcetti interpretativi. Ma se appare forviante ritenere che chiunque segua - in modo più o meno caloroso - le vicende della propria squadra sia predisposto a dare vita ai fenomeni descritti da Le Bon, non può essere sottaciuto che il “mestiere dell’Ultrà” (a volte proprio di mestiere si tratta) nasce e prolifera all’interno del “tifo estremizzato”.
In questo ambito vale il “principio” che la scienza criminologica applica alle ricerche epidemiologiche sul fenomeno della “droga”. Appare, infatti, realistica l’asserzione che non tutti i fruitori di droghe “leggere” diventano consumatori di droghe “pesanti”, ma che tutti coloro che usano stupefacenti come l’eroina hanno - in passato – di certo assunto sostanze come l’hascisch. Analogamente, si può affermare che non tutti i tifosi diventano Ultrà, non tutti gli Ultrà sono “violenti”, e non tutti gli Ultrà (più o meno violenti) professano ideologie politiche estreme e antagoniste, ma che certamente i sostenitori violenti (e/o politicamente estremisti) sono cresciuti all’interno del più vasto e composito mondo del cosiddetto “mondo delle curve”. Una sorta di “piramide socio-demografica” con una base di circa venti milioni di persone che, in Italia, seguono in qualche modo le vicende di una squadra di calcio. Al vertice della piramide troviamo una costellazione di gruppi pronta (e a volte addestrata) a mettere in atto assalti come quelli verificatesi davanti alla Caserma di Via Guido Reni a Roma o di fronte allo stadio Massimino di Catania.
Ma come si compone e quanto è esteso il mondo dei tifosi e la sottotipologia degli Ultrà nel nostro Paese? Nel maggio-giugno 2005 la Demetra, per conto della LaPolis-Limes, ha effettuato un sondaggio - su un campione rappresentativo della popolazione - allo scopo di delineare il profilo del “tifo calcistico” in Italia. I risultati della ricerca, curata da Fabio Bordignon, Luigi Ceccarin e Ilvo Diamanti, sono stati pubblicati nel supplemento N° 3/2005 della Rivista LIMES.
Dai dati rilevati emerge che un italiano su due (il 43% dei soggetti con età superiore ai 14 anni) segue il calcio ed è sostenitore di una squadra. Il restante 57% della popolazione è completamente disinteressato al mondo del calcio. I ricercatori hanno ripartito i tifosi in tre sottocategorie in base ad un diverso grado di passionalità nel sostenere la propria formazione calcistica. Il 25% circa dei tifosi dichiara di seguire in maniera “moderata” le vicende della sua squadra (probabilmente ogni tanto guarda qualche partita in televisione, si accalora in una “discussione tra tifosi”, solo se costretto, non ha quasi mai acquistato un quotidiano sportivo, ecc.). Quattro tifosi su dieci intervistati si giudicano coinvolti nelle vicende della propria squadra (tra costoro sicuramente ritroviamo quanti a volte si recano allo stadio e sono ampiamente informati sulle vicende del proprio club). Si tratta di persone che - in caso di trionfi della formazione del cuore - non disdegnano di partecipare alle manifestazioni di massa per la vittoria e diventare – per qualche giorno – tifosi particolarmente focosi.
Il restante 35%, infine, dei tifosi intervistati dalla Demetra si dichiara supporter “militante”. Se il sondaggio dovesse essere confermato da altre indagini demoscopiche, l’universo del cosiddetti tifosi “militanti” dovrebbe essere stimato tra 5/6 milioni di persone. Tra questa massa consistente di persone sicuramente provengono quanti si considerano Ultrà. Occorre, comunque, ribadirlo che solo una minima parte dei tifosi “militanti” è pronta a trasformarsi in un temibile hooligans, altrimenti il problema - sia dal punto di vista sociale che dell’ordine pubblico - avrebbe dimensioni devastanti. Inoltre, è ovvio che non tutti gli Ultrà si rendono responsabili di violenze, spesso - tra i gruppi più organizzati - ci sono soggetti che si occupano solamente di predisporre le trasferte, di preparare le coreografie, di dare vita a radio private che, 24 ore su 24, dissertano sulla squadra del cuore.
I tifosi più accesi sono (secondo il campione esaminato per conto della LaPolis-Limes) in prevalenza maschi, con età inferiore ai 34 anni, in prevalenza studenti e operai. L’estrazione sociale dei cosiddetti “tifosi militanti” è composito, ma nel caso degli Ultrà ”duri e puri” è quasi sempre medio-bassa. Questa affermazione è indirettamente confermata dal fatto che il movimento Ultrà da tempo ha, come campagna di lotta privilegiata, il caro prezzi dei biglietti e degli abbonamenti. Molte delle “cariche” effettuate in passato fuori degli stadi avevano scopo di travolgere il servizio d’ordine ed entrare senza biglietto allo stadio. Durante le trasferte, inoltre, sono frequentissimi i piccoli furti, specie negli autogrill. A detta degli autori di questi saccheggi si tratta in realtà di una sorta di “spesa proletaria” finalizzata a contenere le spese - giudicate insostenibili – che il tifoso deve accollarsi.
Altro elemento significativo emerso dal sondaggio è dato dal fatto che frequentemente chi “tifa per una squadra di calcio è anche uno che prova antipatia, se non a volte odio, verso una formazione considerata nemica e verso i tifosi che la rappresentano”. Questo sentimento di “tifo contro” è - ovviamente - più intenso e frequente (il 62%) tra i cosiddetti tifosi “militanti” e, in alcune circostanze, supera come intensità emotiva addirittura il “tifo per….”.
La ricerca di Bordignon, Ceccarini e Diamanti non poteva dispensarsi dal cercare di verificare l’eventuale correlazione tra la “passione” calcistica e quella politica. I dati ottenuti hanno evidenziato come i cosiddetti tifosi “militanti”, oltre ad essere più coinvolti sul piano politico, siano più vicini alle cosiddette ideologie massimaliste. Se, infatti, tra quanti sono disinteressati al mondo del calcio, i cosiddetti “delusi/disillusi” dalla politica rappresentano la percentuale più elevata (il 38,7%), tra quanti sono tifosi “militanti” tale percentuale scende al 26%. La passione verso il mondo della politica dei “tifosi militanti” non deve indurre a credere che vi sia tra costoro un “alto” livello di elaborazione sociologica, economica ed ideologica. L’attrazione è spesso istintiva, superficiale, legata soprattutto ad un’assonanza di linguaggi, simbolismi, slogan, e alla presenza di un nemico – comune ad entrambi gli estremismi – che sono le Istituzioni. Tuttavia se - fino agli anni Ottanta - alcuni settori della politica in qualche modo tentavano di politicizzare in senso propositivo le curve e l’”energia istintuale” che essi manifestavano, negli ultimi anni il processo si è invertito. I politici di professione, infatti, ricorrono sempre più frequentemente al linguaggio delle “curve”, un processo che qualcuno ha ragionevolmente definito la “calcistizzazione della politica”, in contrapposizione alla “politicizzazione del calcio” tipica dei primi anni Settanta.
Come evidenziato nel precedente articolo contenuto nel numero dell’ottobre 2004 di questa rivista, il fenomeno Ultrà ha subito - negli ultimi decenni - una sorta di metamorfosi politica con un incremento tra i tifosi di quanti vanno nella direzione dell’ideologia di estrema destra. Secondo un censimento della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione (DCPP) del Ministero degli Interni, all’inizio del 2005, a fronte di circa 250 organizzazioni Ultrà, che si definiscono “politicamente neutrali” ve ne sono 84 (l’18,8%) che si riconoscono nell’ideologia marxista-leninista, mentre 115 gruppi (il 25,7%) si richiamano alle concezioni politiche della destra oltranzista. Tuttavia giova sottolineare che quando gli Ultrà si scatenano con atti di violenza l’elemento “politico/ideologico” passa quasi sempre in secondo piano rispetto all’elemento “appartenenza” a tifoserie nemiche per motivi “campanalistici”.
Le organizzazioni Ultrà politicamente schierate anche se contrapposte sembrano, negli ultimi anni, trovare ragioni per una sorta di alleanza fuori e dentro gli Stadi rispetto a un nemico comune: le Forze dell’Ordine. Gli scontri con questi ultimi rappresentano ormai la maggior parte degli episodi che vedono coinvolti gli Ultrà, mentre sempre di meno sono le battaglie tra supporters avversari. In tale contesto non sarà forse casuale che le ultime due vittime (Raciti e Sandri) siano state registrate a seguito di scontri tra queste due entità.L’incremento della contrapposizione tra Ultrà e Forze dell’Ordine deriva, con molta pro-

foto Ansa
babilità, sia da una maggiore presenza (ed efficacia) dell’azione di contrasto che dall’accresciuta pressione (e intolleranza) delle Istituzioni e della società civile, nei confronti della tifoseria violenta. Le leggi che negli ultimi anni sono state promulgate prevedono misure sempre più severe nonchè un incremento dei poteri conferiti alle Autorità di Pubblica Sicurezza. Ciò ha determinato un’insofferenza maggiore tra gli Ultrà, avversione che consente il superamento di ogni discriminazione politica e di ogni rivalità calcistica, per quanto radicate esse siano, in quanto si estrinseca verso una “nuova minaccia esterna”.
La presenza di un nemico esterno e comune (le Istituzioni con il loro “braccio armato”) ha consentito – paradossalmente – la nascita di autocoscienza e identità per l’intero movimento Ultrà italiano. Il processo sociologico e semantico
è lo stesso: si ha bisogno di un nemico per nascere, per affermare un’identità propria, si ha bisogno di un nemico per continuare ad esistere. Tale processo è così avanzato che un sociologo come Franco Ferrarotti – autore del saggio “All’ultimo stadio” – non esclude la nascita di un “partito trasversale degli Ultrà”. “Partito” che si sente d’imporre la propria “agenda politica” nelle sue trattative con le Istituzioni e che riesce (attraverso l’utilizzo degli SMS e d’Internet) in brevissimo tempo ad organizzare una “efficace azione di protesta” e degli attacchi “militarmente adeguati” alle Forze dell’Ordine, a seguito della morte di Gabriele Sandri.
Un “partito di Ultrà” (composto, secondo studi recenti della DCPP, da non più di 75.000 persone, ma in grado di trovare il sostegno morale in un universo più consistente) certamente non coordinato e con strutture autonome, ma che si muove in maniera lineare nei confronti del “nemico comune”. Questo ha portato al fatto che numerosi tentativi di mediazione tra Forze dell’Ordine ed Ultrà sono risultati scarsamente fruttiferi. Gli Ultrà vedono – da qualche tempo - come “delatore” chiunque di loro abbia contatti (o prenda accordi) con la Polizia, anche se questi contatti hanno lo scopo di garantire la sicurezza durante le trasferte delle tifoserie. L’irritazione verso le Forze dell’Ordine diventa, inoltre, una barriera insuperabile se l’ostilità è supportata dalla componente politico/ideologica. Formazioni di estrema sinistra (ad esempio, le B.A.L. livornesi) o di estrema destra (che contano adepti vicini a Forza Nuova, come i gruppi che si firmano BISL, Basta Infami Solo Lame) rifiutano, infatti, a priori l’idea che si possa scendere a patti con i rappresentanti dello Stato.
Pur se l’”essere Partito “ non è ancora evoluto in prassi squisitamente “eversive” alcuni segnali giungono dal mondo del Web-Ultrà. Nel sito ufficiale delle B.A.L. livornesi era, tempo fa, riportato una sorta di manifesto del “Fronte di Resistenza Ultrà” (organizzazione che raccoglieva le tifoserie dell’estrema sinistra di Terni, Ancona, Livorno, Savona e Massa). Nel sito veniva scritto: “… Il Fronte non può e non deve limitarsi ad agire unicamente negli stadi, l'impegno sociale deve essere un primario obbiettivo, per questo verranno prese posizioni sulla situazione politica attuale, partecipando (dove possibile) alle manifestazioni come spezzone autonomo, che adotterà una linea propria. Immaginiamo cosa sarebbe potuto accadere se a Genova si fosse presentato uno spezzone di ultras di sinistra, coordinato da una linea indipendente, ed organizzato come un corteo domenicale, immaginiamo quale riflesso avrebbe avuto nelle masse popolari e in tutti i manifestanti…”
La difficoltà a mantenere le posizioni da parte degli Ultrà di estrema sinistra è confermata dal comunicato ufficiale del sesto Raduno Antirazzista Internazionale (RAI) (7-9 luglio 2006 ). Questo comunicato offre l’immagine di un movimento in ripiegamento, in forte difficoltà dinanzi all’affermazione dell’estrema destra. Il raduno ha registrato una minore affluenza rispetto alle precedenti edizioni. La causa è da attribuirsi alla defezione di alcune curve (i “compagni” del Venezia non sono intervenuti; la tifoseria del Perugia è stata bandita per non aver saputo contrastare efficacemente la penetrazione di Forza Nuova sugli spalti del “Curi”) e alla dissoluzione di alcune formazioni “storiche” del tifo di sinistra. Nel citato - Raduno Antirazzista Internazionale - si è deciso che il Fronte di Resistenza Ultras sarà articolato, localmente, in Comitati territoriali di Resistenza Ultras. Questi ultimi dovranno riunirsi, prima dell’inizio del campionato di calcio, per concordare e definire un “percorso di lotta comune” sia contro le organizzazioni politicamente contrapposte che verso il sistema della “repressione”.
La recente crisi del 2006 (conosciuta come Calciopoli) ha inoltre prodotto sul mondo Ultrà effetti molteplici e differenziati. In particolare lo scandalo è apparso come la conferma più palese del “marcio” che avvelena lo sport del calcio: interessi economici, diritti tv, doping, partite truccate, illeciti sportivi. Gli Ultrà, alla luce delle responsabilità sinora emerse, si sentono autorizzati a continuare la lotta contro un sistema sempre più screditato e contro istituzioni che, ai loro occhi, appaiono colluse e delegittimate. “Calciopoli” ha anche accentuato, dove già esistevano, i contrasti tra Ultràs e dirigenza. A questo riguardo è da segnalare la rinnovata opposizione dei tifosi di estrema destra della Lazio (gli Irriducibili) al Presidente Lotito, considerato primo responsabile delle traversie subite dalla squadra. Opposizione che, in alcuni contesti, ha raggiunto modelli più simili a quelli del crimine organizzato. Lo scandalo nel calcio ha, infine, rafforzato negli Ultrà l’idea che la sconfitta della propria squadra non rientri nell’evento sportivo: essi vivono nel sospetto perenne di congiure ordite ai propri danni. Per gli Ultrà (come quasi tutti i tifosi accesi) le decisioni favorevoli sono considerate dovute, scontate; quelle contrarie frutto di arbitrio o di macchinazioni. Questo ha portato ad un profondo senso d’”immunità”: dopo lo scandalo “delle partite truccate”, infatti, qualsiasi Ultrà, chiunque, potrà sentirsi in diritto di contestare violentemente le decisioni prese dall’arbitro e dai suoi assistenti ed essere convinto – allo stesso tempo – di compiere un “atto di giustizia”. Un’occasione di “giustizia sociale” da non perdere, tanto per le formazioni di estrema destra che per quelle di estrema sinistra. Il rischio – in tale ambito - è che gruppi antisistema, già radicati nelle tifoserie, tentino di innalzare quantitativamente e qualitativamente il livello della violenza, facendo assumere alla stessa una chiara connotazione “eversiva” e che, quindi, un fenomeno di guerriglia, come quello registrato dopo la morte di Gabriele Sandri, diventi una prassi da mettere in atto anche di fronte a “provocazioni” di basso profilo.
Occorre comunque non accentuare oltre misura i “rischi” di una deriva “eversiva” del movimento Ultrà. Indicativo, in tal senso, il sostanziale fallimento del tentativo di coinvolgere, sull’onda emotiva dell’omicidio Sandri, le “tifoserie organizzate” nella manifestazione “no global” del 17 novembre 2007, a Genova. Coinvolgimento auspicato dal leader dei ‘disobbedienti’, Luca Casarini, con una dichiarazione di ‘disponibilità’ del Movimento nei confronti delle tifoserie. Questo non deve, tuttavia, far pensare che la contrapposizione Ultrà - Forze dell’Ordine sia - in un futuro - destinata a scemare, in quanto, episodi di provocazione ad opera delle frange più radicali e ‘politicizzate’, non solo sono possibili, ma, addirittura, molto probabili.
In questo contesto giova ricordare che, ad oggi, negli stadi non è ancora possibile svolgere un’azione di controllo efficace in quanto, nonostante le numerose iniziative prese soprattutto a seguito dell’omicidio Raciti, la curva rimane territorio in mano alle frange più oltranziste degli Ultrà.
Un cambiamento vero e sostanziale nel rapporto tifo/violenza deve coinvolgere l’intero mondo del calcio. Un mondo nel quale i giovani ritrovano spesso le anomalie e le patologie della società in cui vivono e dove i giocatori svolgono, sovente, con i loro comportamenti provocatori, un’azione “dannosa” e sportivamente scorretta. Le società calcistiche, poi, in balia dei loro business e per garantirsi una sorta di pax stadii, agevolano, sempre più, proprio i gruppi Ultrà, per poi prontamente disconoscere qualsiasi tipo di rapporto all’esplodere di gravi incidenti. Una realtà quella del calcio dove (e questo è un aspetto del tutto italiano) gran parte dei giornalisti sportivi, poi, parlano di questo sport come se fossero”strateghi” di guerra. Si rischia, così, purtroppo, di rendere attuale la frase con cui - più di sessant’anni fa - Winston Churchill eticchettò gli italiani: “…Perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.”


foto Ansa



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