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GNOSIS 4/2007
Come cambia il terrorismo qaedista

Le cellule spontanee come 'bombe a tempo'


Guido OLIMPIO

La facciata del “terrorismo dispiegato” di ispirazione qaedista che opera con attentati continui, soprattutto nello scacchiere mediorientale, cela una realtà che si è venuta delineando soprattutto dopo gli attentati di Londra e la scoperta della “banda dei dottori”: le cellule spontanee. Pochi, senza legami, senza bisogno di grandi spese, capaci di attentati micidiali, secondo tempi e modi non preventivabili. Nelle pagine che seguono, un interessante e documentato viaggio in questo universo nascosto.




foto Ansa
Il qaedismo è un movimento con grandi capacità di adattamento.Coglie le trasformazioni sul terreno, assorbe i molti colpi portati dalle forze dell’ordine, cambia le forme di finanziamento, diluisce le sue cellule in aree grigie, dove ci sono molti potenziali militanti ma pochi “veri” terroristi.Dettaglio non da poco, quest’ultimo, perché permette di sopravvivere a indagini ed eventuali processi.A ciò si aggiunga un cambio tattico di primaria importanza. Avendo perso, in parte, la retrovia afghana, in seguito all’intervento delle truppe alleate, i qaedisti hanno ricreato un simulacro di struttura logistica. In modo più stabile, dove la presenza qaedista è marcata: è il caso del confine afghano-pachistano e di alcune aree sunnite in Iraq. In forme più flessibili, in regioni dove i numeri non permettono di realizzare santuari: è il caso della zona subsahariana e della Somalia.
I campi come le cellule, per dirla con le parole di uno specialista, assomigliano molto alle dune del deserto. Si formano e disfano a seconda del vento che tira.
Nello stesso tempo Al Qaeda-centrale – quella che si raccoglie attorno alle icone Osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri – pur senza un coinvolgimento diretto in operazioni “militari”, ha mantenuto un primato a livello propagandistico. Il grande volume di filmati video, messaggi audio, diffuso da una macchina ben oliata, ha permesso ai capi di restare al centro dell’attenzione. Un merito indiscusso va a Internet. E’ con il web che il movimento mantiene i contatti, emana un’immagine uniforme, permette a militanti di origini diverse di parlare lo stesso linguaggio.
Oggi Bin Laden – ammesso che sia davvero lui – resta la fonte di ispirazione, il modello, il suggeritore. Mentre i collaboratori più stretti pensano a come ripetere l’assalto all’America. Questi, in ogni caso, hanno bisogno di tempo, di uomini particolari e del momento propizio. Potremmo affermare che Al Qaeda ha usato le sue “Special Forces” nel blitz dell’11 settembre ed adesso si affida alla fanteria.
Attorno al simbolo Osama si è sviluppata in modo orizzontale una realtà in continua trasformazione. E’ quella delle cellule spontanee. Gruppi di fuoco che nascono in modo autonomo – o quasi -, si preoccupano del proprio addestramento, si auto-indottrinano con Internet, si autofinanziano.
Secondo Marc Sageman, ex agente Cia, psichiatra e sociologo, ci troviamo di fronte ad un “fenomeno ascendente”, ad un movimento dal basso verso l’alto. Non sono reclutato da un cattivo maestro, ma sono io che mi offro inserendomi in un rapporto di forze globale. E non parliamo di piccoli numeri. In estate, l’MI5 britannico ha calcolato che nel paese fossero attivi “200 gruppi”, per un totale di 1600 persone. Di nuovo, il vincolo con Al Qaeda è a geometria variabile: c’è, non esiste, c’è ma è parziale.
Un altro esperto, il francese Gilles Kepel, parla dei “ragazzi del videoclip”. C’è chi si fa il proprio blog per scambiare idee e chi invece lo piega al proprio obiettivo di miliziano. Nel giudizio di molti ricercatori è come se Al Qaeda contasse su due apparati distinti ma capaci comunque – se necessario e quando è possibile – di comunicare. Il primo coinvolge i qaedisti originali, i professionisti del terrore, con alle spalle solide esperienze. Il secondo è quello dei seguaci amatoriali. Sono loro ad occupare uno spazio in Occidente, dando l’idea, grazie ai mezzi di comunicazione moderni, che sia davvero esteso. Intanto la vecchia guardia studia – secondo i tempi degli islamisti, quindi sul lungo termine – azioni consistenti.
La nuova generazione del jihad non ha bisogno del predicatore, non deve frequentare una particolare moschea. L’area di aggregazione radicale è molto ridotta. Può essere il nucleo di amici, il clan familiare (ideale contro le infiltrazioni), il quartiere, la semplice abitazione dove convivi con qualcuno che la pensa allo stesso modo.
In qualche modo sono delle vere e proprie “bombe a tempo” che possono essere innescate sia da un messaggio indiretto del vertice qaedista – pensiamo ad un video trasmesso da qualsiasi tv satellitare – sia da un “emiro” (capo militare) locale. E questa figura non necessariamente deve avere un background di alto profilo, come l’esser stato in Afghanistan o in Bosnia. E’ solo il personaggio con maggior carisma oppure colui che conosce le password per accedere a siti Internet dove è possibile leggere la letteratura integralista. Una volta la parola-chiave era il numero di telefono di Peshawar (Pakistan) dove agganciare il contatto per i campi di addestramento. Adesso è il grimaldello per aprire il mondo virtuale della guerriglia.
Ed è interessante notare come queste cellule – spesso composte da 3-4 elementi – abbiano un corrispettivo nel fenomeno dei “lupi solitari” bianchi. Giovani isolati e disturbati che decidono di prendersela con la società che li circonda. Si armano e fanno strage all’interno di un campus, in un liceo, in un centro commerciale. Una tendenza che ha il suo terreno di crescita negli Stati Uniti ma sta contagiando rapidamente – di nuovo grazie a Internet – i paesi del Nord Europa (Germania e Finlandia, in particolare).



La dottrina

La nascita delle cellule spontanee è stata certamente favorita dalle difficoltà operative. I controlli adottati dalla comunità internazionale hanno ridotto la possibilità di recarsi nelle terre d’accoglienza jihadiste.
Prima dell’11 settembre era quasi uno scherzo partire per l’Afghanistan. Non solo. Una volta arrivati i volontari erano gestiti da “case” che ne curavano la preparazione, occupandosi di alloggio, cibo, armi, documenti. Oggi è sicuramente più arduo andare, ma soprattutto è più rischioso tornare in Occidente. Altra considerazione. Una volta in Afghanistan o in Iraq – la seconda destinazione del “turismo jihadista” – l’adepto deve passare subito all’azione. In molti casi i capi non si accontentano di qualcuno pronto a sparare. No, vogliono gli attentatori suicidi. E malgrado quello che si racconta non tutti – specie se si è cresciuti in Occidente – sono pronti al passo finale.
Restare in Europa o negli Stati Uniti offre al militante poco formato di avere maggior tempo per maturare la sua scelta. Non è una mossa definitiva. Nel senso che l’estremista ha la possibilità di condurre una doppia vita. La prima, regolare, all’interno della società che lo ospita. La seconda, illegale, tra le pareti di un appartamento: è in questa fase che si spoglia degli abiti civili per indossare, in modo virtuale, quelli del “guerriero sacro”.
La recluta può rimanere in queste condizioni per anni, accontentandosi di vivere la propria esperienza a livello teorico, fantasticando in modo però ossessivo la sua voglia di martirio e azione, allenandosi mentalmente per un attacco che magari mai si materializzerà. Solo pochi – ed è una fortuna – passano alla fase operativa.
Con questo non vogliamo ridimensionare la minaccia ma solo conferirle la giusta dimensione. Anche perché questa realtà non si è formata solo per “ripiego”.
Alla base delle cellule spontanee vi è un progetto elaborato dal più importante tra i suggeritori dell’eurojihadismo. Mustafa Nasr Setmariam, alias Abu Musab Al Suri. La sua storia personale permette di capire perché sia così rilevante.
Siriano, membro di un’ala radicale della Fratellanza, buon conoscitore di tecniche terroristiche, Setmariam ha un vantaggio rispetto ad altri estremisti. E’ vissuto a lungo in Europa. Prima in Gran Bretagna, dove ha curato per molti anni la pubblicazione del bollettino “Al Ansar”, organo del Gruppo islamico armato algerino. Quindi si è spostato in Spagna, dove si è fatto una famiglia. Ma, aspetto significativo, il siriano ha frequentato i campi afghani creando rapporti con diversi protagonisti della nebulosa integralista e diventando, di fatto, un ispiratore minore assai ascoltato.
Avendo compreso l’importanza della circolazione delle notizie, Setmariam si è affidato a Internet mettendo sulla rete un ponderoso trattato di 1600 pagine dal titolo “Appello alla resistenza globale islamica”. Un documento molto seguito negli ambienti oltranzisti in Europa e in Nord Africa.
Il punto di partenza di Al Suri è inerente a come un militante può sopravvivere nel mondo post-guerra fredda. Il siriano, che ha sperimentato sulla sua pelle rivolte fallite e complotti, è convinto che il vero tallone d’Achille sia la struttura gerarchica incastonata in un' organiz-
zazione centralizzata. Appartenere ad un “partito” è importante, ma può essere controproducente. Se uno cade nelle mani della polizia, si tira dietro tutti. Inoltre l’avanzata delle forze occidentali nel mondo arabo – processo iniziato dopo l’invasione del Kuwait e il dispiegamento di truppe straniere in Arabia Saudita – ha cambiato la realtà del nemico. Da un'occupazione indiretta, attraverso il supporto a regimi amici, si è passati all’occupazione diretta. Quindi l’obiettivo numero uno è attaccare gli stranieri in ogni occasione e con qualsiasi strumento.
In questa cornice, insiste Al Suri, è possibile adottare il “jihad individuale” che può collaborare, quando si presentino le condizioni, con i compagni che operano sui fronti veri e propri, come l’Afghanistan o l’Iraq. Per Al Suri le cellule spontanee devono crescere attorno ad un principio chiave: “nizam, la tanzim”, ossia sistema, non organizzazione. Nel senso di un sistema operativo che permetta al singolo come ad un insieme di persone di aderire alla lotta senza che debba essere messo in piedi un network.

foto Ansa
I responsabili storici si limitano ad indicare delle linee generali di comportamento: esattamente quello che è avvenuto negli ultimi anni.
Ma cosa è che tiene insieme gli individui del “sistema”? Al Suri scrive: “Un comune obiettivo, una comune dottrina programmatica, un piano di auto-educazione”.
Nel trattato, il “docente” insiste sul fatto che la stessa regola vale per l’addestramento. Non più in campi, basi, centri facilmente individuabili dalla moderna intelligence, bensì “in ogni casa, ogni quartiere, ogni villaggio”. Una lezione, come vedremo più avanti, ben assimilata dai discepoli di Al Suri.
Gli insegnamenti del teorico ricordano molto da vicino quanto è avvenuto nella prima fase del qaedismo.
L’attentato del 1993 contro le Torri Gemelle a New York è stato messo a segno da un team creato specificatamente per l’operazione. E’ quello che la CIA, nell’ormai lontano 1995, definì “terrorismo ad hoc”. All’epoca, però, la gang di Ramzi Youssef aveva un legame solido con i vertici di Al Qaeda e solo nella fase finale si è mossa in modo autonomo. Il siriano punta decisamente ad un’evoluzione. Cinque elementi si mettono d’accordo, trovano i mezzi e colpiscono. Sarà poi la casa-madre a rivendicare dando l’idea che la cellula autonoma si sia mossa su indicazioni superiori. L’importante, ribadisce Al Suri, è che il nucleo si muova lungo tre passi determinati: volontà di fare, preparazione, esecuzione.
Nell’ottica dell’ideologo saper sparare e mettere bombe non è sufficiente. E’ necessario un grande lavoro di indottrinamento che tempri l’individuo in vista delle prove difficili che lo attendono.
Al Suri, oltre a costituire un punto di riferimento malgrado oggi sia nelle mani degli americani, ha fatto scuola. Una ricerca svolta dal Centro Studi dell’Accademia di West Point (Stati Uniti) ha dimostrato come la vera fonte di ispirazione per centinaia di simpatizzanti/attivisti non sia solo Bin Laden, quanto piuttosto, pensatori di medio livello. Sono loro a comparire nei testi e nei siti letti dai militanti, sono loro a dettare le “tavole della legge” per il neoterrorismo, garantendo anche una legittimità religiosa a chiunque voglia abbracciare la lotta armata.


Il modello

Il 26 agosto è apparso sul web un breve manuale intitolato "Come arruolarsi in Al Qaeda".
Non è chiaro quando sia stato scritto e l’unico dato certo è che è stato redatto da qualcuno vicino alla componente egiziana del movimento. Il testo è interessante perché rappresenta un modello per formazioni spontanee.
Qualsiasi musulmano, sostiene l’autore, deve considerare il jihad come un obbligo personale e dunque è autorizzato a formare una cellula islamista senza attendere il riconoscimento di Al Qaeda. Il documento spiega come formare e organizzare il team, come raccogliere fondi e selezionare un bersaglio. Lo stratega non ha in mente grandi assalti. Una cellula, scrive, “può assassinare l'ambasciatore americano" e per farlo "non richiede che un'arma e un proiettile".
Al pari di Al Suri, il manuale esorta alla preparazione. Eccone un passaggio: "Senti che hai la volontà di armarti, combattere e uccidere gli invasori e che è nostro dovere chiamare al jihad allo stesso modo che alla preghiera…Tutto ciò che è richiesto è una decisione personale ferma nell'adempiere quest'obbligo, la partecipazione al jihad e la resistenza…".
Seguono quindi delle regole che aprono le porte del combattimento a chiunque. "Devi realmente incontrare Osama Bin Laden in persona per diventare un soldato del jihad? Devi essere riconosciuto da Al Qaeda come uno dei suoi membri per diventare un combattente del jihad? Se i comandanti di Al Qaeda fossero uccisi, il jihad sarebbe eliminato? Che cosa faresti se Al Qaeda oggi non esistesse? Come può essere Osama Bin Laden diverso da te, anche se tuttavia ha creato e organizzato il jihad globale? Chi ha addestrato Osama Bin Laden o Abdallah Azzam quando andarono in Afghanistan per diventare i primi combattenti arabi del jihad?"
L’autore risponde ai quesiti indicando un sentiero. “Non devo conoscere Bin Laden per essere un combattente del jihad. Inoltre, non c'è nemmeno bisogno di conoscere un combattente del jihad per diventarlo. E non ho nemmeno bisogno del riconoscimento di Al Qaeda… Come primo passo, immagina che Al Qaeda non esista e che tu sia interessato al Jihad. Che cosa faresti in tal caso? Se tu conosci dei giovani, uno due o più, nel tuo quartiere, nella tua moschea o all'università, che sono tanto appassionati ed entusiasti del jihad quanto te, vieni ad un accordo con loro per formare una cellula il cui obiettivo sia quello di aiutare l'Islam e solo l'Islam…All'inizio la tua cellula non dovrebbe avere più di cinque membri, tutti di assoluta fiducia… La cellula deve avere un comandante, una shura, un consiglio. Il comandante deve avere consapevolezza di essere lui Osama Bin Laden per i membri della cellula...Ogni cellula dovrebbe avere una fonte di finanziamento. Quando hai diversi membri, troverai di sicuro fondi per la tua cellula… Allora devi comperare le armi e stabilire un piano. Discuti una strategia con i membri, controlla gli obiettivi importanti del tuo nemico e studiane le mosse. Fissa un obiettivo: per esempio, assassinare l'Ambasciatore americano - è così difficile? E' davvero così difficile per qualcuno che ha già colpito l'America nel suo territorio?”.
Il sito egiziano richiama, in modo chiaro, gli insegnamenti di Al Suri e cerca di collocare il terrorismo individuale nel piano globale. "Qual è la differenza tra te e l'eroe dell'attacco a New York, Mohammed Atta, che ha pianificato un'operazione che ancora oggi fa tremare il mondo ogni volta che se ne parla? Assassinare l'ambasciatore non richiede altro che un'arma e un proiettile. Uno si potrebbe travestire da venditore ambulante per pedinare il bersaglio, cosa che non dovrebbe costare molto…Le cellule devono mantenersi in contatto tra loro, ma mai in modo convenzionale o diretto. Il legame deve essere spirituale. Anche se i contatti sono indiretti, dovete incontrarvi una volta al mese, mai per due volte di seguito nello stesso posto. Incontri più ristretti e privati devono essere organizzati una volta alla settimana…Dal momento in cui una cellula viene formata, i suoi membri devono essere divisi tra membri segreti, membri che non agiscono apertamente e non sono ricercati dalle autorità, membri che sono ricercati o sono stati arrestati in passato o che sono schedati dagli apparati dell'intelligence. I membri segreti devono fare un lavoro di intelligence, raccogliere informazioni, finanziamenti, reclutare nuovi affiliati e garantire assistenza nelle operazioni. Gli operativi che non sono ricercati dalle autorità hanno compiti militari, come assassinare un bersaglio o colpire infrastrutture nemiche. Devi essere consapevole di avere fratelli ovunque e che loro stanno aspettando le tue azioni e quelle dei tuoi amici, anche se non vi conoscono di persona o di nome…”.
Ogni cellula del jihad è un microcosmo del jihad globale.


Il caso europeo

L’Olanda, la Danimarca, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, l’Italia. In questi Paesi comunitari le cellule spontanee sono già apparse in modo marcato o sporadico. I terroristi che hanno assassinato il regista Teo Van Gogh (2 novembre 2004) avevano qualche legame con la nebulosa del terrorismo marocchino ma sono cresciuti in Olanda. Potremmo definirli “un gruppo di amici” convertiti al radicalismo estremo.
I vincoli – magari sotterranei – con il qaedismo “professionale” non sono stati determinanti se non come forma di emulazione.
Lo stesso è avvenuto nella vicina Danimarca dove le autorità hanno arrestato numerosi elementi autogestiti. Pur avendo rapporti esterni – in Bosnia, in Svezia -, si sono formati sul territorio danese, senza prendere ordini da un' entità superiore.
Queste sono forme oltranziste a bassa intensità, non sofisticate, con mezzi ridotti. Tanto è vero che sono state sempre scoperte prima che potessero agire e quando sono riuscite ad agire sono state poi individuate.
L’isolamento operativo della cellula è un vantaggio e, al tempo stesso, un punto debole: quando esce allo scoperto deve impiegare le sue – scarse – forze. E’ raro che possa tornare all’assalto. Però è facile che diventi modello. E’ ciò che si è verificato in Gran Bretagna. Il gruppo responsabile delle bombe del 7 luglio 2005 ha scelto obiettivi in modo autonomo, si è fatto le bombe nel bagno di casa utilizzando materiale civile, è partito per l’ultima missione senza alcun supporto logistico. Solo dopo la strage, Al Qaeda ha messo il turbante sull’attentato con uno strano video dove c’erano Ayman Al Zawahiri, ideologo del movimento, e uno dei terroristi. Per gli esperti si è trattato di una rivendicazione postuma e ancora oggi si dibatte se la cellula avesse ricevuto istruzioni dall’estero. Alcuni dei terroristi avevano compiuto un viaggio in Pakistan forse usato come copertura per un summit operativo. Una volta rientrati in Gran Bretagna hanno però agito “in solitaria”. Un commando composto da cittadini inglesi di origine asiatica e caraibica che incarna la figura dello Jundallah, il soldato di Allah. Il 21 luglio è entrata in azione una seconda cellula, questa volta con radici africane.
Di nuovo: manca il gancio con la casa-madre qaedista e non esistono rapporti con quelli del 7 luglio. I possibili contatti con gli ambienti fondamentalisti del Corno d’Africa non sono stati in ogni caso determinanti. Lo schema si ripete, in modo più netto, con i falliti attacchi a Glasgow e Londra nel 2007. Fino al momento dell’attentato i membri del team vivono da perfetti cittadini. Hanno famiglia, lavoro, appaiono integrati. E’ significativo che i media la definiscano “la cellula dei dottori”.
Molti di loro erano infatti medici. Quando scavalcano il confine della legalità è troppo tardi per fermarli. Per fortuna hanno fallito. Un passo falso legato al carattere spontaneo. Solo uno degli elementi potrebbe aver ricevuto qualche forma di training, per il resto la sola arma che avevano era la determinazione spinta fino al desiderio di martirio. Il comportamento risponde ai criteri indicati da Al Suri. Usa quello che hai per attaccare, l’importante è la tua volontà.
In Germania, per motivi diversi, sono falliti due complotti dove i protagonisti godevano di ampia indipendenza. Il primo era stato organizzato da una micro-organizzazione di giovani di origine libanese. Hanno provato, senza riuscirci, a far esplodere un ordigno rudimentale su un treno. Il nucleo aveva qualche rapporto – molto fumoso – con il movimento Hizb Hut Tharir ma secondo gli 007 ha fatto tutto in proprio. Internet e la propaganda jihadista hanno sostituito i corsi in Afghanistan. Poche nozioni per costruire una bomba con il propano hanno rimpiazzato le sedute dedicate agli esplosivi nelle basi di Kalden (Afghanistan).
Il secondo “plot”, emerso in settembre, ha invece rappresentato una variante. I terroristi erano convertiti tedeschi o giovani di origine turca ma a radiocomandarli, a distanza, era Gofir Salimov, capo dell’Unione del jihad islamico uzbeko. La minuscola fazione li ha accolti, preparati e li ha poi rispediti a casa assegnando loro la missione. Alla “spontaneità” si è sommata l’assistenza a distanza.
Un modus operandi destinato a crescere. Le formazioni tradizionali qaediste non rischieranno più di impiegare i propri soldati e si affideranno invece ai cosiddetti “emiri dagli occhi blu”, i convertiti occidentali o cittadini europei di origine orientale. Nel corso del 2007 sono, infatti, aumentate le segnalazioni – soprattutto da Gran Bretagna e Germania – sulla presenza di “bianchi” nella prima linea di Al Qaeda.
In Italia, un’indagine della magistratura di Perugia, ha dimostrato come ormai esista una Second Life del terrorismo, un mondo virtuale di guerra santa e martirio. Un imam restava seduto per ore davanti al computer quasi che fosse una trincea al fronte. Scaricava anche 20 mila documenti alla settimana: video di imboscate, prediche incendiarie, istruzioni militari. Il pc diventa Accademia, palestra, poligono di tiro, laboratorio, fonte di dottrina. Tutto può essere fatto senza mai uscire dalla propria camera. Tutto può essere mostrato, senza temere di essere scoperti, ad un cerchio ristretto di fedelissimi.
In alternativa, l’individuo procede autonomamente sul sentiero jihadista. E’ il classico esempio di lupo solitario. Qualcosa di simile è stato scoperto a Nancy, in Francia, nel maggio 2007. I servizi anti-terrorismo hanno arrestato un franco-algerino che, attraverso un forum su Internet, è riuscito a mettersi in contatto con Al Qaeda nella terra del Maghreb. L’estremista è passato, in breve tempo, dalla solidarietà ideologica a quella attiva. Con una serie di messaggi si è, infatti, detto pronto a compiere attentati contro obiettivi in Francia. Una forma esasperata del cosiddetto “volontariato per il martirio”. L’adepto non si preoccupa di agire da solo perché non si considera tale. Internet lo colloca in un esercito con unità presenti ovunque. Un click sul mouse, l’arrivo di un'email equivalgono ad un ordine impartito da un comandante.


L’esperienza americana

Gli Stati Uniti hanno vissuto il dopo 11 settembre nella paura di un nuovo attacco e le loro difese sono state alzate per prevenire un colpo. Il muro ha retto, anche se il prezzo in termini di privacy e diritti del cittadino è stato salato. La protezione contro il nemico esterno non ha però impedito – e non poteva essere diversamente – la nascita di numerose cellule amatoriali, nessuna delle quali è però riuscita a superare lo stato embrionale; numerosi gli episodi.
Una banda creata nel sistema carcerario della California, un manipolo di afro-americani in Florida (I sette di Liberty City), una formazione con ramificazioni nei Caraibi, un gruppo di fuoco formato da profughi del Kosovo nel New Jersey. Casi controversi, dove le difese hanno tentato di ridimensionare la pericolosità e le accuse hanno provato a dimostrare l’affermarsi di una minaccia sconosciuta. Subito etichettata da un dirigente FBI come “Pepsi Jihad”.
Questi gli elementi in comune: 1) Base locale; 2) Scarsa preparazione militare; 3) Conoscenza indiretta e modesta dei principi religiosi; 4) Utilizzo di Internet come surrogato per l’addestramento e l’indottrinamento; 5) Appartenenza allo stesso nucleo familiare o a comitiva di amici; 6) Ambizioni nella ricerca degli obiettivi a fronte di ingenuità operative.
Clamoroso, rispetto agli altri, l’episodio nel New Jersey. La cellula era animata da alcuni kosovari che si erano perfettamente inseriti negli Usa. Suggestionati da quanto avveniva in Medio Oriente, hanno deciso di organizzare la loro guerra privata. Se ci fossero riusciti avrebbero attaccato Fort Dix, la caserma che li aveva ospitati quando erano arrivati dal Kosovo. Ma sapevano di non avere le basi religiose. Al punto che il presunto leader della cellula aveva chiesto consiglio ad un amico rivelatosi in seguito un infiltrato dell’Fbi.
Alcuni esperti – sia civili, sia militari – hanno ravvisato punti di contatto tra le cellule spontanee e le gangs urbane. Sono dinamiche, hanno collusioni con il piccolo crimine, rappresentano l’anti-stato o l’anti-autorità. Inoltre non importa come si combatte e chi combatte, ma piuttosto pesa contro chi ci si schiera. Gangs e cellule tendono a operare in modo transnazionale, con violenza indiscriminata e coercizione, prendendo come bersagli Polizia e Stato. Entrambe partecipano, su sponde diverse, alla “netwar”: una guerriglia condotta da gruppi dispersi senza un comando centrale e collegati telematicamente (Internet). Sul lungo termine le bande qaediste potrebbero cercare la collaborazione delle gangs: per dotarsi di armi, per garantire movimenti sicuri ai propri membri, per condurre attività che portino denaro.
Il finanziamento nelle cellule autonome è di volume ridotto. I militanti vivono spesso del loro stipendio, non devono sostenere spese di viaggio, non sono costretti a comprare armi limitandosi ad acquistare prodotti chimici – legali – solo nell’ultima fase del piano. Gli esborsi maggiori possono essere rappresentati dal “settore comunicazioni”. Telefonini di ultima generazione, connessioni veloci a Internet, computers. Sono guerriglieri a bassa intensità e basso costo. Per incrementare il budget qualcuno rischia la collusione con il piccolo crimine: spaccio di droga, traffico di documenti, coinvolgimento nel racket dell’immigrazione. Oppure storna dalla propria attività commerciale una quota da destinare alla causa. In alcuni Paesi occidentali e negli Usa sono stati segnalati casi di rapporti tra i neoterroristi e il grande mercato della falsificazione (borse, magliette, occhiali, orologi).


Conclusione

Se giudichiamo dai risultati si potrebbe affermare che le cellule autonome sono moderatamente pericolose. Questo perché siamo abituati a misurare il terrorismo dal numero dei morti che fa ogni singolo attentato. Gli indipendenti hanno fatto strage a Londra e per il resto hanno quasi sempre fallito. Ma la minaccia va considerata in prospettiva e non circoscritta al puro fenomeno qaedista. Se ripartiamo dai numeri è incontestabile che la cifra del volontariato del terrorismo è in crescita. I casi si susseguono rapidamente e a macchia d’olio. Spuntano in Marocco, in Scandinavia, nell’Europa del sud e negli Stati Uniti. La grande flessibilità, unita ad una ridotta esigenza di logistica, consente agli estremisti di avanzare a “fari spenti”. Inoltre la relativa facilità con la quale si formano queste cellule costituisce un incentivo a crearne di nuove. E le grandi possibilità offerte dagli attuali sistemi di comunicazione – Internet, telefonini, satellitari, Skype – trasformano il locale in globale garantendo una cassa di risonanza pubblicitaria senza precedenti.
Non è azzardato sostenere che alcuni nuclei possano nascere, non solo perché si raccolgono sotto il vessillo innalzato da Bin Laden, ma semplicemente perché vogliono “esserci”. E’ lo stesso motivo che spinge i ribelli iracheni a compiere attacchi dinamitardi spettacolari e a riprenderli con una telecamera. Conta più l’immagine che l’agguato vero e proprio. Il quasi immediato rilancio da parte dei media tradizionali trasforma un episodio secondario in qualcosa di più importante. E la cellula che fino a quel momento è vissuta in una realtà angusta supera in un attimo molti confini: quello del quartiere dove vive, quello della città dove ha reclutato gli uomini, quella del Paese dove ha agito.
Gli “autonomi”, poi, hanno la comodità del facile-da-farsi. Non devi arrampicarti su una montagna afghana, trovare l’imam giusto, passare i test, fare il bayat, il solenne giuramento. Qui è tutto a portata di mano, sotto casa, nell’appartamento dell’amico. Il militante, quando ci crede veramente, è in grado di sostenere due esistenze parallele. Gestisce un negozio e pensa al jihad, porta i figli a scuola e studia i bersagli. La sua abitazione è, nello stesso tempo, tetto sicuro e caserma.
Tutto ciò pone problemi seri all’antiterrorismo. A chi indaga mancano gli indicatori del terrorista. L’autonomo si guarda bene da frequentare la moschea radicale, evita di farsi vedere nella scia dei “cattivi”, sul suo passaporto non ci sono visti sospetti e neppure è costretto a intraprendere viaggi che possano segnalare la contiguità con ambienti terroristici. Eppure arriva un momento in cui i lupi solitari si allontanano dalla loro tana. Dovendo fare tutto da soli, gli autonomi sono costretti ad andare in esplorazione. La ricognizione nei pressi del bersaglio può essere il punto debole, dove finalmente si accende la spia. L’altra grande pista è quella dei controlli su Internet.
Con grande ritardo, finalmente, si è presa coscienza dell’impatto della rete. In Germania hanno suggerito l’introduzione di un monitoraggio aggressivo, una ripetizione di quanto già fanno negli Stati Uniti. Più facile da annunciare che da mettere in pratica. I timori per la violazione della privacy e per i possibili abusi rendono complicato il mestiere del legislatore. Dall’altra parte non è possibile concedere ai terroristi – veri e potenziali – la libertà di comunicare a piacimento; con un aggravante che supera Al Qaeda.
In parallelo ai lupi solitari di Osama ci sono altri predatori, in apparenza innocui.
Giovani isolati, disturbati, magari con problemi mentali gravi che decidono di vendicarsi di presunti torti impugnando un’arma e aprendo il fuoco contro i loro simili. I saloni di un centro commerciale, le aule di una scuola, il parcheggio di un ateneo sono i loro campi di battaglia. Anche questi killer sono autonomi, si preparano in solitudine nelle loro case, preparano video e, novità agghiacciante, si tengono in collegamento con Internet.
I qaedisti uccidono in omaggio ad Al Zarkawi, gli studenti con la pistola commemorano gli sparatori folli di Columbine.


foto Ansa




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