GNOSIS 4/2007
STORIE DI CASA NOSTRA Lo chiamano il Capo |
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Di clandestini sembra pieno il mondo...per questo con le masse cresce anche il numero dei trafficanti...sincronizzati naturalmente in uno stesso disegno criminale...ciascuno nel suo anello che compone una catena d’acciaio. “Capo, non devono partire oggi?” “Non ancora. Il mare è alto. Troppo. Rischiamo di perdere la merce..” “Non è andata male, l’altra volta… Abbiamo aumentato il costo dell’imbarco, perdiamo solo quello della traversata se non ce la fanno…” “Le barche devono arrivare…” Il suo tono seccato allontana i gregari che si perdono nella loro scia di sorda e paurosa accondiscendenza. Il Capo si allontana veloce ma non sfugge oggi ai suoi pensieri. Deve incontrare “Walid l’egiziano”. E’ ansioso. Di quell’ansia ingiustificata. Intensa, nonostante cerchi di nasconderla, soprattutto a sé stesso. Di Walid può fidarsi. Non c’è dubbio. Da anni lavorano insieme e ogni volta dimostra la stessa totale affidabilità. C’è anche confidenza. Per aver vissuto insieme anni difficili. “Ehi Capo, gli affari ti vanno bene, ho saputo anche che i tuoi parenti stanno bene… Chi porta il guadagno a Dakar, per i tuoi parenti, mi dice che il peso delle borse aumenta. Sarai soddisfatto!” La sua risata sottile come un ghigno nasconde un velo di affetto. “Anche a te vanno bene, se aumenti sempre il costo dei tuoi servizi” “I rischi crescono come erba maligna e dobbiamo pensare a tante persone… Te le ricordi … eh Capo … le nostre promesse? Te la ricordi Lampedusa? La nostra Lampedusa? “ Ecco di cosa ha timore. Di quel ricordare che lo fa sentire nudo, a disagio, esposto ai brividi di nostalgia e al senso di colpa che voleva rimettere, senza riuscirci. Walid si accorge sempre di quel disagio e gli piace, forse per riflettersi un po’ in quella sensazione dimenticata, forse per non perdere del tutto la magia dell’emozione che aveva ormai rimosso e che solo con l’amico di un tempo ritrova…. Claudicante ma sopravvissuta voglia di vegliare i sentieri della sua memoria antica. Oggi, però, l’egiziano coglie una vena di dolore nell’amico, un rumore crescente nella sua anima che lo preoccupa. “Ehi Capo, tutto bene?” “Si, Walid, parliamo di affari…” “No, Capo, dimmi qual è il problema… Qualcosa non va? Qualcuno dei miei ti ha mancato di rispetto? Qualche problema qui con gli italiani?” “No. Ho imparato la tua lezione. Mai problemi con gli italiani. Quello che chiedono devi dare, senza fiatare. Qui c’è la mafia che non perdona ma che ti lascia fare se gli lasci un boccone. Sembrano fantasmi, gli italiani. Gli scorri accanto e se fai finta di essere solo la loro ombra, se sorridi astratto come il vento allora ti lasciano in pace, qualunque cosa tu possa fare poi di nascosto. I mafiosi .. beh quelli in certe aree fanno paura. Li riconosco ormai. Pago se devo pagare. Cerco sempre, però, di girare alla larga…” “Non gli importiamo. Però ora qualcuno inizio a conoscerlo meglio. Per piazzare qualcuno dei nostri, per dargli da mangiare, per inserirlo nella strada… con cd o borse… noi gli garantiamo una rete di distribuzione e per loro va bene, se non provi a fregarli. Io sto attento. I miei ragazzi non perdonano se qualche clandestino sbaglia. Non deve accadere. E se anche qualche volta succede, beh, passa la voglia a chi disubbidisce…” “Era meglio prima… quando ci occupavamo solo del trasporto… aveva un senso… era come aiutare…” “Capo… lo sappiamo anche noi…. È un business …loro sono merce, capito? Non puoi specchiarti in loro, perché vedresti l’abisso che perde …. Da quel mare fangoso non ti salvi … E’ un business … Sono merce … hai capito?” Walid si siede e apre una coca cola. Beve assetato. Il liquido gli cola sul mento, bagna la giacca. Lento s’infrange sui pantaloni. Il Capo assiste alla scena. Quel rigurgito di cascata gli ripete in lontananza l’eco triste di sciabordii lontani, nell’ansa dolorante della sua memoria. Si siede e cede ai suoi pensieri. “Walid che ne sarà di noi? Che facciamo qui?” Riprende a parlare con un nodo in gola. Si avvicina all’amico. Stringe le sue spalle. Riconosce i resti di quei muscoli che lo hanno tenuto a galla nel mar di Sicilia, che lo hanno stretto a sé quando l’imbarcazione della Marina li ha tirati su a bordo e li ha vestiti di una coperta spessa come corteccia, calda come la certezza di essere salvi. “E’ stata dura. Alcune volte rifletto su quanta strada abbiamo fatto. Te li ricordi i nostri tempi? Te li ricordi i compagni? Quanto tempo siamo stati in quel deserto senza nome, orfani di cielo, anche di nome, senza terra, senza famiglia, con il solo desiderio di non morire prima di iniziare a sperare. Per quella vaga speranza noi abbiamo sopportato rapine, lavori faticosi, chilometri di pietre a piedi nudi. Derubati, abbiamo lavorato per avere almeno la possibilità di intraprendere il viaggio più economico, più rischioso. Ciechi, abbiamo pregato. Abbiamo cantato…Te lo ricordi il maestro?” “Si, me lo ricordo. Era un Baay Fall. Lavorava sodo ed era un uomo buono. Era fiero di aiutarci. Perdeva la pazienza solo quando trovava … come li chiamava… Baay faux, mendicanti che non riconoscevano e non riflettevano l’ascesi del nostro amico. Lui non migrava. Era lì per trovare un amico…” “Non sono bastati i suoi consigli. E Monsieur te lo ricordi? Lui parlava solo francese… diceva che troppe erano le lingue … il pulaar, il wolof, lui voleva parlare il francese perché la sua rabbia di vivere doveva essere capita da tutti, soprattutto da quelli dell’altra parte del grande mare. Avrebbe voluto andare a Parigi. Lui diceva sempre che ci sarebbe arrivato, un giorno… E quel pazzo che recitava le poesie e che ripeteva la storia del Banty Mam Yall, pezzi di legno di Dio … Dio non ci conta, altrimenti ci abbrevia l’esistenza in un soffio….“ “Erano belli i suoi racconti, suo padre aveva fatto l’indipendenza, aveva vissuto gli anni difficili e poi la speranza di un futuro migliore… Cosa era accaduto alla sua famiglia? Quale disgrazia economica? Come appassisce una vita, una comunità? Quale maleficio rovina una tribù e la rende mendicante? Anche sulla barca recitava poesie, prima che tutti gli altri lo zittissero, prima che le onde lo rendessero sussurro nell’abisso.” Walid sorrise. “Mi chiamano l’egiziano. Io non vengo dall’Egitto. Lo sai. Nel nostro mondo ci si dimentica da dove si viene. Si vuole dimenticare. Prima che svernassi sulle sponde del Nilo, come clandestino, ho percorso tutto il continente. Conosco le rotte e i sentieri dei trafficanti. In cinque anni ho ripetuto i percorsi molte volte, cercando di far tesoro delle esperienze. Non ho voluto rimanere in quei campi affollati di sfruttamento che s’affacciano ai confini della speranza… verso il Marocco, l’Algeria, la Libia…ho girato… ho conosciuto… ho imparato… sino a quando ho compreso che i migranti sono animali che seguono le correnti e che qualche rete prima o poi raccoglierà. Però alcune reti hanno maglie larghe o nodi spezzati, e rischi di perderti. Altre sono tanto strette da soffocarti. Devi scegliere quelle giuste. Anche per questo faccio questo lavoro…” “Vuoi dire che lo fai per carità?” “No. Per arricchire. Per avere ricchezza. Per vivere poi tranquillo, perché non debba essere io il pesce nella corrente. Ormai sappiamo quello che succede sotto la lama del Maghreb. C’è un’ordalìa in movimento, c’è una folla che nessuno chiama, nessuno attrae… che è illuminata solo dalla folle speranza di proseguire, di raggiungere quel mondo che sia abbastanza lontano e tanto diverso da quello che lascia. Dietro una stella che non riluce e che spesso confonde il pellegrino. Magari pensano di tornare, un giorno, ma il loro pensiero è rivolto a quelli che ce l’hanno fatta a raggiungere “l’altra parte”… se ce l’hanno fatta loro perché non noi? … Ripetono sino all’ossessione, provando compassione e pena per quelli che restano ... Potranno essere innalzate le barriere più alte delle montagne, potranno mettere navi nel Mediterraneo… potranno vigilare ogni onda .. ma i sentieri si riempiranno ancora di gambe in fuga, di tormentate speranze e di spinte contro le muraglie che separano dal sogno. “Caro Walid, oggi la situazione rischia di cambiare. Prima era diverso.. ma oggi è difficile…” “Non sempre. E’ vero che il mare è chiuso, troppe sentinelle, troppi approdi chiusi. Ma è anche vero che oggi siamo molti a trafficare e sappiamo come coordinarci. Conosciamo le alternative e se va male da una parte possiamo trovarne tante altre. Poi.. te li ricordi i campi ai confini del Nord Africa? Come ci tenevano ordinati, tra una rapina e un controllo, tra sfruttamento del lavoro e raccoglimento in preghiera…? Quei campi erano uno Stato nello Stato. Che poi significa nessuno Stato. Pensi che i Paesi al confine possano tollerare di tenere per troppo tempo una massa tanto destabilizzante? Pensi che non abbiano paura che qualcuno possa approfittarne e magari utilizzare quella massa per deviare il corso della storia di quelle regioni? Per questo fanno finta di non vederli, i migranti, e quando sono tanti da fare ombra alle loro case, allora lasciano tracimare quella massa umana dove non faccia danni… allora chiudono le porte facendo sbattere rumorosamente i battenti e aprono le finestre perché si possa comunque uscirne…” “Non pensi di tornare?” “Dove?” Walid sorride e tossendo prosegue “io non ho Dove.” “Capo, hanno chiamato da Lampedusa. Dicono che hanno mandato nei CPT quelli della settimana scorsa. Dicono che sono nervosi. Si agitano, le promesse non sono mantenute…” “Digli di stare calmi. Poi farò sapere quello che devono fare.” Rivolto a Walid si acciglia: “Walid, perché mettere in giro quelle notizie che in Italia avrebbero dato il soggiorno libero a tutti? Avete aumentato anche il costo della traversata, per questo motivo.” “E’ una mezza bugia. Quando sono pieni i Centri gli danno il foglio di rimpatrio. Ma li lasciano andare, perché devono farlo da soli. Che vogliono di più? Possono andare via… non sono più sotto controllo. Devono solo comportarsi bene, perché altrimenti …” “Non mi piace. Qualche volta non funziona…” “…E’ la fortuna… “ “Meglio sarebbe stato lasciarli tutti sulla spiaggia e che se la cavassero da soli. Ma assicurare anche la destinazione finale, questo è difficile…” “Ma rende. Non tutti lo fanno, ma ormai chi migra non mira solo all’approdo ma ha un appoggio intermedio verso cui orientarsi. Un parente, un amico…Hai visto quello che ha fatto Ahmed il marocchino? Sequestrava i clandestini fuggiti e poi chiedeva il riscatto. Tutti hanno qualcuno, ormai che li attende, che è pronto a pagare ancora. In qualche parte dell’Italia, della Francia, della Spagna, della Germania…Pagano… poi li metti su di un treno… Dio li aiuti!” “Non è così. Ahmed è stato arrestato…” “…e ora è rientrato nel suo Paese e al suo posto c’è il cugino. Cosa cambia?” Walid è un agronomo, dove ora non c’è terra da coltivare. Ce ne sono molte di aree sfortunate, in Africa. Avrebbe voluto essere egiziano. Marocchino. Anche senegalese. In quel caso, voleva convincersene, non sarebbe espatriato, lui. Quei paesi gli piacevano. C’era stato, con gli abiti e il portafogli da turista, allo scopo reale di prendere contatti con alcuni gruppi di cui aveva bisogno per procurarsi imbarcazioni. Dakar e la Grande Cote, Rabat, Algeri, Tunisi, Alessandria d’Egitto… aveva riempito i suoi occhi di quelle perle di cui sinora aveva colto solo i lati oscuri che si portano seco i migranti. Aveva anche ripercorso il Sahel, che anni prima aveva maledetto da clandestino. L’aveva scorso, invece, a bordo di un Pick Up con l’aria condizionata e bibite fresche a volontà. Non gli piace la vita del trafficante, ma è la sua. L’unica. Alla gazella sarebbe piaciuto essere leone. Al leone sarebbe piaciuta una savana diversa. A lui, che si sentiva miracolato, era toccato essere gazzella, un tempo, e leone, ora … per questo non chiedeva una savana diversa, si accontentava di non essere più preda. Il Capo è un senegalese che la povertà aveva frustrato, costretto a sopravvivere a generazioni benestanti che avevano progressivamente perso tutto… anche la dignità per resistere. Come risollevare le sorti? Il nonno gli leggeva le favole. Di tanto in tanto, dopo aver bevuto ataya e gustato la polpa succosa di un mango si concedevano maggiore intimità e le storie si animavano dei ricordi dell’indipendenza e di storie vissute in quelle fasi critiche. Amava leggerle in wolof, anche per ricordargli che la sua gente veniva dal regno di Jolof, regione di Lof, e che le sue radici appartenevano a una grande civiltà. “Capo, allora vai anche a tu a Milano? O mandi solo il tuo amico Mohamud? Sai che di lui mi fido meno… ho saputo che è molto amico di Atahar lo zoppo, il falsificatore. Lui è bravo, procura tutti i documenti che ci servono ma… io non voglio storie con… quelli… Ma… Athar è uno di quei tipi pronti a servire anche il Diavolo per denaro… per quelli che trafficano la droga o che spacciano … per quelli che osservano, vedono i clandestini più rabbiosi, più sensibili alla religione e li mandano a studiare chissà dove… sai, io prego e dò la zakat perché io seguo le tradizioni dei Padri, ma… certi discorsi eccessivi non mi piacciono… insomma Athar è un nodo che se lo stringi troppo finisce per impiccarti. Mohamud è troppo vicino ad Athar, non mi piace. Non vorrei che ci faccia piombare la polizia addosso. Ho letto sui giornali che gli italiani pensano che siamo noi a trasportare i terroristi….” “Non mi sembra che certi soggetti abbiano avuto bisogno delle nostre barchette per arrivare dove volevano…” “Ma ormai si sente di tutto…Inoltre, rifletti … Stiamo diventando troppi. Ti ricordi di quel paesino, nella Brianza, dove siamo andati a lavorare i primi anni? Eravano una decina e ci spaccavamo la schiena. Avevamo fame e soprattutto avevamo paura. Sono tornato, qualche mese fa, a trovare un amico… ormai siamo più numerosi di quelli che ci sono nati. Ora ad avere paura sono loro, anche se tutto sommato i fratelli non compiono chissà cosa.. Sono gli altri….” “Walid, loro hanno paura quando gli stranieri sono di più. Quando sei una minoranza, anche a casa tua, perdi la tranquillità. Noi africani dovremmo saperlo…” “Ma qui non siamo in Africa…” “Si, ma noi portiamo l’Africa nei loro quartieri. Qui, in Italia, mi piace perché siamo ovunque. Sparsi come foglie, è vero. Ma questo consente anche di confonderci, di entrare nelle loro culture. Di integrarci, insomma. Altrove, mi dicono, scelgono di chiuderci in quartieri che ci diano l’illusione di ricreare un po’ della nostra terra. Ma non è scegliere di ghettizzarci? Io, Walid, ho studiato. Ho lavorato. Ho mandato i soldi a casa, dai miei. Ho comprato un Internet point e ho messo un mio cugino nel money - transfer. Io, però, non voglio essere solo un ospite. Io voglio i soldi necessari anche per mettere su qualcosa qui. Io vorrei essere legale” “Lo so. Mi hanno detto che avrai presto il tuo permesso, a caro prezzo. Mi hanno anche detto che vuoi creare un’associazione… pensavo fosse per tutelare meglio i traffici…. Sai, sono convinto che per rimanere qui non devi essere né povero né ricco. Per rimanere devi essere disperato. Con i guadagni che hai fatto, puoi tornare a casa tua, puoi ricomprare la tua vita dove sei nato…” “Mi manca la ceiba, l’albero dalle grandi radici su cui giocavo da bambino. Qualche volta le barche che procuro per i viaggi sono fatte di quel legno, e le accarezzo, pensando al loro destino di naufragio, pari al mio e di chissà quanti altri. La casa di mio nonno era costruita con il ronier e intorno era pieno di bouganville. Quando sono andato via i fiori rossi, viola e arancio stentavano a fiorire. Segno cattivo. Mio fratello era un medico. Non so cosa sia di lui. Non se n’è mai saputo niente. Aveva cercato di raggiungere la Spagna. Ceuta e Melilla, quando ancora quella via non era stata barricata. Era facile, allora, passare lo Stretto. Ma qualche volta capitava un incidente. Annegato? Ferito o ucciso da bande di predoni? Chi parte perde un po’ l’anima e se è fortunato la ritrova solo quando si ferma a pensarsi un pò” “Non parlare così a Mohamud. Non parlare così con nessuno. Per noi è importante non pensarci migranti. Gli affari li fanno solo quelli che considerano i viaggi un carico di pesce o magari di legno. Basta.” “Lo so. Tutti temono Walid l’egiziano e le sue amicizie in tutta l’Africa e ormai anche in Europa…” Dicono che “abbia lo sguardo del serpente. Io so che sai spiegare le ali nobili dell’amicizia …” “…Devo sentire solo il sibilo … è quello che temono… Bada a te… che Dio ti aiuti!” Il Capo non ama la notte. Non ama la notte italiana. Così diversa dalle sue notti africane, in cui il buio ha il colore profondo dell’anima e il cielo ha un rumore fitto e costante che addormenta le membra. Le notti occidentali sembrano una giostra di colori soffusi. Senza profondità. Il buio scende come una mannaia, presto, troppo presto, spegnendo la luce con un velo di nebbia. In queste notti che sembrano false il capo dorme per dimenticare. Per distogliere il pensiero dal buio che è dentro di lui. Eppure, dopo aver viaggiato lungo tutta l’Italia, è arrivato di notte e subito deve ricevere una comitiva di migranti che vogliono organizzare un viaggio per la Scandinavia. E’ infastidito. Per la notte forse, e perché vorrebbe sconsigliare mete così lontane ai migranti che hanno avuto la fortuna di approdare in Europa. Vorrebbe proporre un viaggio più breve, con tappe che lui può controllare attraverso suoi uomini che vivono in Paesi molto più vicini. È infastidito anche per essere alla fine partito con Mohamud. Un po’ per assecondare Walid, un po’ per sfidare la sua sorte. Nella periferia lombarda scorrono canali in cui l’acqua sembra immobile e fangosa. Le case sono basse e le strade strette. Le piazze sono affollate e si parlano troppe lingue. Africani e slavi occupano spazi circoscritti, come se ogni cantone rispettasse la densità dei flussi migratori. Pochi se la passano bene, a guardare i loro abiti, per lo più malmessi. A nessuno mancano i soldi necessari almeno per una bottiglia di alcool. “Mohamud, chi sono?” “Vengono dai Balcani. Sono anche loro clandestini. Alcuni lavorano nell’edilizia. Altri trafficano in droga. Loro controllano le donne che si prostituiscono. Noi li lasciamo fare e stiamo attenti a non dargli fastidio…” “Cosa c’entriamo con loro?” “Qualcuno dei nostri ha parenti e amici che spacciano. In alcuni quartieri hanno il controllo delle piazze. Gli italiani vengono a prendere la roba, la marocchina, che fumano in abbondanza. Si guadagna tanto…” “Tu cosa c’entri?” “Ci si arricchisce, capo, più del trasporto di quel bestiame…” “Tu cosa c’entri?” Mohamud sa che deve tacere. E’ da qualche tempo che non riconosce più il Capo. Sembra aver raggiunto quella ricchezza che dà alla testa. Che illude si possa vivere senza fame in un Paese straniero. Lui ha approfittato delle imbarcazioni più grandi per trasferire con i clandestini anche la marijuana e la canapa marocchine. Ne aveva chiesta sempre di più, stringendo i clandestini oltre ogni limite. Li avrebbe buttati a mare, se avesse potuto, se il capo non controllasse ogni viaggio e non avesse qualche suo fedelissimo nell’area di partenza a contare quelli che s’imbarcavano. Aveva pensato di spiegargli le cose a poco a poco, magari facendogli brillare gli occhi con i guadagni. Eppure… “Tu mi stai nascondendo qualcosa… Senti bene. C’è una filiera che dobbiamo rispettare. Ciascun gruppo si occupa di gestire traffici dalle aree di concentramento sino a qui. E’ un meccanismo oleato. Delicato. Dobbiamo avere alternative pronte, dobbiamo trovare imbarcazioni e copertura di qualche capitano, in caso dovessimo ricorrere a “navi madre”. Tutto deve funzionare, in sicurezza, perché nessuno marcisca in galera. La droga, no. Quella attira la maledizione e ci fa marcire in galera… Tu sei fuori. Cercati qualcun altro, se ci riesci…” “Ma … ora che abbiamo dirottato il flusso dall’Egitto verso la Calabria, forse va meglio… inoltre… il futuro è in altri traffici… Qui in Italia sembra che quella roba abbia un mercato senza fine. Ormai è come se fosse lecita… Abbiamo il controllo di molte piazze, ci siamo solo noi… Possiamo farcela, abbiamo la strada spianata… pensa, anche gli integralisti alla fine ammettono di farlo… di spacciare, purchè agli infedeli… E’ il futuro.” “Tu sei fuori e bada di starmi lontano…” Mohamud ha la furia del gregario sconfitto, ha l’ansia di arrivare verso un punto indefinito che si allontana ogni volta sempre più. Ha nel cuore quel buio che il Capo ha sempre temuto, quell’oscurità che obnubila e confonde… Ha la rabbia incontenibile di chi è convinto che il suo futuro sia a un bivio. Di chi teme che il futuro d’un tratto naufraghi per la folata di un imprevisto. Mohamud ha un coltello dalla lama lunga. Non avrebbe dovuto portarla, il Capo non avrebbe gradito. Quando la lama saetta come una freccia il petto del Capo si fa morbido e indifeso. Penetra le viscere del Capo che non riesce nemmeno a gemere. La piazza sbiadisce e s’incupisce mentre mille passi si dileguano senza orma. Ubriachi e impauriti. D’un tratto sembra che l’acqua nei canali sgorghi con maggiore irruenza. Il rumore delle onde si fa intenso, lo sciabordìo della barca accompagna il ritmo flebile delle vene del Capo. Avverte le voci di donne e bambini che sfidano la corrente e il timore della spuma che brucia la pelle… Il Capo vorrebbe alzare le mani per coprire quelle scene dalla furia del mare e della sua coscienza… Intravede tra gli abissi mobili cenotafi che vorrebbe scoperchiare…liberare… Poi il buio africano lo culla verso infinità familiari. Il leone rincorre la gazzella … i fiati s’innestano in un velo di paura … il silenzio incombe … incompreso. “Commissario, è malconcio…” “Chiama l’ambulanza… anche se… dubito che serva… ma respira ancora…” “I soliti africani… sarà stato un litigio… ogni giorno… è la stessa cosa…” “Chissà, forse è un regolamento di conti, magari per il controllo delle piazze di droga….”
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