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GNOSIS 4/2007
Lo Piccolo
caduta di un Capo in ascesa


Fabrizio FEO


05.11.2007 - Palermo: arresto Salvatore LO PICCOLO


La cattura di Salvatore Lo Piccolo e del figlio Sandro, due temuti capi mafiosi, latitanti da anni e considerati, fino all'arresto, il nuovo vertice di Cosa nostra, consegna un'istantanea dell'organizzazione che ha indotto qualcuno a frettolosi e pericolosi ottimismi.
Ottimismi che non hanno assolutamente ragione di essere, se è vero che "Cosa nostra" è soprattutto 'un modo di pensare'.
I dati che emergono, per alcuni versi sconcertanti e anomali, possono, invece, essere assai utili per una lettura in profondità della fase che l'organizzazione sta attraversando.
Non dobbiamo limitarci a cercare di capire chi prenderà il posto dei Lo Piccolo o, comunque, chi salirà sul gradino più alto dell'organizzazione.
Dobbiamo guardare, invece, ad alcuni aspetti dell'arresto dei Lo Piccolo. Da qualche tempo i due non camminavano mai separati per timore di agguati. Così padre e figlio sono stati catturati insieme. Comprensibile certo. Non bisogna dimenticare però che non siamo al cospetto di mafiosi di seconda o terza fila. Dunque, se è vero che per i capi la regola è "uno deve sempre restare libero", quanto accaduto equivale alla violazione di un 'comandamento' fondamentale.
Non solo: due elementi di vertice dell'organizzazione facendosi catturare in un sol colpo hanno messo in discussione la stabilità (già precaria) della consorteria. E poi: possibile che un capo come Salvatore Lo Piccolo non avesse altro guardaspalle di cui fidarsi se non il figlio Sandro? E, se è così, tutto questo non rivela una estrema fragilità - precarietà - nei vertici e nella struttura di Cosa nostra?
E ancora: un'altra regola dettata al latitante ( più che altro dal buon senso) è quella di non calpestare troppo a lungo il terreno che scotta. I Lo Piccolo sono rimasti, invece, per molto tempo nell'area di Carini. La consideravano la loro retrovia sicura e avevano speso molte energie per pacificarla.
Indagini e arresti, compiuti in quella zona nei mesi immediatamente precedenti alla loro cattura, rivelano che in diverse occasioni, proprio in quella zona, i Lo Piccolo erano sfuggiti alle manette e solo per un soffio.
"A lui gli hanno fatto la zampata tre volte", cioè, è sfuggito alla cattura tre volte, diceva, senza sapere di essere ascoltato, il capomafia di Torretta (località poco distante da Carini) dove Salvatore Lo Piccolo era stato latitante.
Imperdonabile "leggerezza"? Desiderio di affermare il proprio carisma in una sfida estrema con lo Stato? Necessità - per restare saldamente al comando di una Cosa nostra sempre più turbolenta - di essere nell'unico luogo appena fuori Palermo in cui potevano sentirsi davvero sicuri e, al tempo stesso, non troppo lontani dalla città? Oppure confidavano in coperture che sono venute improvvisamente a mancare?
Terzo elemento. L'importanza e la qualità del materiale sequestrato dagli investigatori, più ancora della quantità, dicono che i Lo Piccolo non si spostavano solo con i documenti necessari a trattare gli affari correnti, ma di fatto con un intero 'ufficio'. Nessun luogo era davvero sicuro o è stata una ulteriore 'leggerezza'?
Circa trecento 'pizzini', lettere d'affari, richieste di favori, annotazioni su estorsioni e su 'messe a posto'(le 'pratiche' delle tangenti imposte alle imprese), contabilità, elenchi di entrate e uscite, corrispondenza, missive (di cui una di dieci pagine), annotazioni su appalti, messaggi appena redatti, numeri del codice con cui i mafiosi da qualche tempo indicano personaggi 'coperti' e picciotti che svolgono compiti delicati. E perfino una trentina di 'pizzini' inviati a Salvatore Lo Piccolo da Bernardo Provenzano, raccolti dentro una busta.
Un tesoro per investigatori e magistrati!
E pensare che Emanuello i pizzini più scottanti li ha inghiottiti non immaginando di morire e dunque di 'restituirli' dopo una autopsia!
Certo i Lo Piccolo non hanno avuto il tempo di fare la stessa cosa e con tutta quella mole di materiale non avrebbero di certo potuto- e, quindi, portando con sé quel bagaglio di informazioni prezioso per qualsiasi 'nemico' non sono apparsi 'particolarmente accorti'-. Tenendo anche conto che potevano avvalersi di una mobilità ben diversa da quella di Provenzano, malato e ancor più braccato.
Il materiale sequestrato offre enormi opportunità di sviluppo per le indagini, una volta sottoposto ad un serio, meticoloso, spesso lento, lavoro di decodifica e ricerca: ed è quello che hanno fatto investigatori e magistrati palermitani nei primi due mesi seguiti alla cattura dei due Lo Piccolo.
Ma i pizzini, i documenti, il libro mastro delle estorsioni, le indagini sui nomi di tanti insospettabili in contatto con i capi di Cosa nostra arrestati e su affari neppure immaginabili fino a quel momento, non possono che assorbire solo una parte degli sforzi degli inquirenti.
Serve, infatti, anche l'analisi di quanto possano rivelare le contraddizioni, quelle fin qui elencate, ed altre circostanze singolari, che si colgono in particolare nel percorso e nel modo di operare di Salvatore Lo Piccolo. Segnali da non sottovalutare, forse essenziali per migliorare la comprensione di cosa stia veramente accadendo dentro Cosa nostra.
Alcuni interrogativi forse non verranno mai risolti, ma intanto guai a leggere tutto in modo semplicistico. Non basta dire che il tessuto connettivo di questa organizzazione è deteriorato, che le "sbavature" nella condotta di esponenti, anche importanti, di Cosa nostra vanno prese per quelle che sono e che si deve solo approfittarne!
Approfittarne, d'accordo, ma non senza l'impegno a capire come stiano veramente i fatti evitando così di dare per vinta, o quasi, una guerra che, invece, sta solo per ricominciare (magari contro una "Cosa" non solo molto diversa da quella che conoscevamo ma ancor più micidiale).
Andiamo con ordine.
Il dato che si coglie, guardando allo stato attuale di Cosa nostra secondo i canoni "ideologico-culturali" e l'ordinamento tradizionale di mafia, è quello di una organizzazione che sembra mostrare segnali di estrema difficoltà non dissimili da quelli già riscontrati nelle potenti 5 famiglie newyorkesi. Per capirci: i Gambino dell'epoca Gotti e i Bonanno del periodo Massino, schiacciati dal moltiplicarsi e dall'aggressività di altre mafie, dal lavoro dell'FBI, ma, anche, dalla gestione di capi non all'altezza della "tradizione" e della situazione (assorbiti dalla ricerca di guadagni facili e da beghe e guerre degne di gangs di quartiere ma anche indeboliti da importanti pentimenti ai vertici).
Dentro Cosa nostra Americana, come in Cosa nostra Siciliana, qualcuno potrebbe aver pensato che non ci possa essere 'salvezza' né 'sviluppo' negli affari se le due organizzazioni non operano in simbiosi.
Forse sono legate a questa consapevolezza le indicazioni di una rinnovato stretto legame tra famiglie siciliane e famiglie della mafia italo- americana (non solo quelle statunitensi, ma anche quelle collegate canadesi).
Una "questione" che probabilmente va oltre il problema del rientro in Sicilia dei perdenti della guerra di mafia degli anni ‘80. Un "problema" quello dei rapporti d'oltreoceano che forse Salvatore Lo Piccolo non gestiva - e non poteva gestire- da solo. E che questa sia qualcosa in più di una semplice sensazione la si può notare se si mette bene a fuoco la figura di Lo Piccolo.
Una tendenza alla spavalderia - per la verità antica -, un modo di vivere che in molte manifestazioni è l'esatto opposto di quanto prescritto dalle 'regole' mafiose, rende Salvatore Lo Piccolo, ex braccio armato del padrino di San Lorenzo e Partanna, Saro Riccobono (vittima della lupara bianca durante la guerra di mafia degli anni ottanta), assai diverso da Bernardo Provenzano e non solo per un dato generazionale. Pur senza cultura Provenzano possedeva grande acume e particolari doti diplomatiche e politiche, la stoffa del capo, insomma: inimmaginabili nell'uomo che qualche decennio prima era stato soprannominato, anche con riferimento alla foga nello sparare, "Binu u tratturi".
Dote accertata di Lo Piccolo,sicuramente è il fiuto: capire, insomma, dove tira il vento. Grazie all'istinto, infatti, prima si è salvato dalla mattanza degli anni ‘80, saltando sul carro dei corleonesi, e poi è diventato indispensabile per Provenzano. Il fiuto, ancora, lo ha salvato dal 'contratto' (la condanna a morte) messo sulla sua testa dal boss Nino Rotolo, ma non dalle manette.
Cosa si dirà ora Salvatore Lo Piccolo meditando nella cella sulla fine della sua carriera? Il carcere è il risultato di qualche grosso errore o, in questo caso, solo il male minore?
Poi ci sono alcune "debolezze". Alcuni aspetti della sua disponibilità economica e del suo potere di capo Salvatore Lo Piccolo amava ostentarli e ancor di più il figlio Sandro …Plateale anche il modo di siglare la pace tra famiglie a Carini: in un ristorante con decine di picciotti capi e gregari …come se non ci fosse bisogno di nascondersi!
Un atteggiamento, complessivamente, in netta contraddizione con l'immagine di una Cosa nostra che, all'insegna della cautela, recupera e rispetta le regole. L'immagine e l'idea di Cosa nostra cara a Provenzano: eppure, paradossalmente, è la stessa immagine solida, rigorosa, obbediente alla "regola" che i Lo Piccolo volevano trasmettere al resto dell'organizzazione ….propagandandola attraverso il "decalogo".
Scritto a macchina, in caratteri tutti maiuscoli, il decalogo 'Diritti e doveri" del perfetto mafioso dice testualmente al primo comandamento che : "Non ci si può presentare da soli ad un altro amico nostro, se non è un terzo a farlo". Poi intima:"Non si guardano mogli di amici nostri". E ancora: "Non si fanno comparati con gli sbirri". Al quarto la vita sociale : 'Non si frequentano né taverne e né circoli". Dal quinto al nono sono citate, invece, le regole del comportamento da tenere dentro l'organizzazione: disponibilità, precisione, rispetto delle donne e dei soldi degli altri mafiosi.
Il decimo dà precise disposizioni per le affiliazioni, su 'chi non può entrare a far parte di Cosa nostra': 'chi ha un parente stretto nelle varie Forze dell'Ordine' o 'chi ha tradimenti sentimentali in famiglia' e 'chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali'.
Con i fogli del ‘decalogo’, gli investigatori hanno sequestrato un'immagine sacra con la formula rituale di affiliazione: 'Giuro di essere fedele a Cosa nostra. Se dovessi tradire, le mie carni devono bruciare come brucia questa immagine'.
Un ‘decalogo’ fatto per i 'picciotti', non per i capi, sembrerebbe dire il comportamento dei Lo Piccolo.
Alla fine come meravigliarsi che non valga nemmeno per molti gregari…incluso Francesco Franzese, ricercato per un ergastolo inflittogli dai giudici di Messina e arrestato il 2 agosto del 2007, l'uomo che avrebbe fornito agli inquirenti elementi preziosi per seguire le tracce dei Lo Piccolo!
L'ammissione di Franzese in Cosa nostra è una delle violazioni delle regole del decalogo, uno degli sbagli che più costeranno cari ai Lo Piccolo, che, comunque, qualche dubbio sul futuro pentito l'avevano avuto.
E' lo stesso Franzese a raccontarlo: 'Salvatore Lo Piccolo non aveva una buona considerazione di me - ha detto ai magistrati - perchè aveva visto che portavo un tatuaggio e probabilmente sapeva che avevo fatto uso di droghe..'.
Passare su qualche peccato vada pure, ma farsi sfuggire o addirittura ignorare un particolare che poteva minare definitivamente la credibilità del DNA mafioso di Franzese è imperdonabile …. Non è chiaro infatti se i Lo Piccolo sapessero che Franzese aveva "sbirri in famiglia". ''Mio nonno materno - ha spiegato Franzese - era maresciallo dei Carabinieri e mio nonno paterno era un maresciallo dell'Esercito'. Comunque i Lo Piccolo avevano bisogno di nuove leve -ha aggiunto Franzese - avevano l'esigenza di riorganizzarsi e di arruolare il maggior numero di persone nella citta' di Palermo e ritengo che 'fosse questa, forse, la ragione per cui non andarono per il sottile, sia con me sia con altri'.
Anche per il modo di imporre il pizzo, i Lo Piccolo, al contrario di Provenzano, non sono andati per il sottile!
Proprio dai 'pizzini' sequestrati - insieme ad un bel po’ di Rolex nel covo di Franzese- viene fuori la prima contabilità completa delle estorsioni al tempo di Salvatore Lo Piccolo.
I dati del Ministero dell'Interno dicono che i Lo Piccolo con il pizzo incassavano mediamente 75 mila euro al giorno. Secondo quanto emerge dalle inchieste della Squadra Mobile di Palermo solo nel quartiere di Partanna Mondello Lo Piccolo raccoglieva ben 120 mila euro al mese. Il risultato di un’azione a tappeto che aveva imposto la tangente anche ai piccoli commercianti, un cambio di strategia dalla regola del 'pagare poco pagare tutti' al 'pagare tutti e basta e chi si tira indietro salta' che ha prodotto gli attentati a depositi, distributori di benzina, ruspe e betoniere. Molto rumore,crepe nella coltre di rassegnazione e di silenzio.
Non a caso tra i ''pizzini'' sequestrati dagli investigatori nella villa di Giardinello c'era un elenco con i nomi di venti imprenditori palermitani iscritti ad 'Addiopizzo', il comitato che ha sfidato Cosa nostra incitando i commercianti a ribellarsi al racket delle estorsioni. Forse i mafiosi volevano colpirli per avere aderito proprio a questo comitato che, a Palermo, sta svolgendo un ruolo di importantissimo stimolo delle coscienze a sostegno di chi vuole ribellarsi al sistema mafioso.
I soldi delle estorsioni venivano riciclati nel traffico di droga, impiegati per pagare regolarmente i soldati, incrementare gli arruolamenti, ma anche per pagare i lauti stipendi dei capi.
Appena assunto il controllo di Cosa nostra a Palermo Salvatore Lo Piccolo, infatti, aveva deciso di aumentarsi lo ''stipendio'': 40 mila euro al mese, quasi il doppio di quello di Bernardo Provenzano. E questo già dice molto. Al figlio Sandro 25 mila euro; altre laute somme per la moglie e i figli del padrino, mentre ai ''picciotti' uno ''stipendio'' base di mille euro al mese, variabile a seconda dell'incarico, con l'autorizzazione a fare affari in proprio ogni tanto, ma solo con il beneplacito del padrino.
Era sicuramente attento a garantire sicurezza economica alle truppe Salvatore Lo Piccolo, ma non solo: era, infatti, contemporaneamente impegnato a cercare la rotta per navigare in un mare in tempesta, con pezzi dell'equipaggio quasi ammutinati o, peggio ancora, vogliosi di impiccare il capitano all'albero maestro.
Equilibri instabili tra mandamenti mafiosi, all'interno delle stesse famiglie e tra fazioni: i boss detenuti come Santapaola, Bagarella, i corleonesi della prima ora, i perdenti della guerra di mafia degli anni ‘80.
Proprio il rientro dei perdenti, i cosiddetti 'scappati', in prima fila gli Inzerillo (sopravvissuti al bagno di sangue deciso dai corleonesi e graziati a patto di non tornare mai più in Sicilia), è stato al centro dello scontro tra Salvatore Lo Piccolo, da una parte, e Nino Rotolo e Antonino Cinà, dall'altra. Il primo, favorevole al rientro, gli altri due, garanti dell'ortodossia corleonese, decisamente contrari.
E' una delle ragioni dello scontro che è costato a Lo Piccolo la condanna a morte pronunciata da Rotolo.
Rotolo è in galera da oltre un anno, ma Gianni Nicchi, l'uomo cui è stato affidato il 'contratto' sulla testa dei Lo Piccolo, ossia la loro condanna, è ancora latitante.…(probabile che la mattina del 5 novembre i Lo Piccolo e i mafiosi Andrea Adamo e Gaspare Pulizzi si aspettassero una sortita di Nicchi e dei suoi uomini, non certo la Polizia. Perché, altrimenti, portare due pistole ognuno!).
Ora - come ha scritto su 'La Stampa', il giorno dopo l'arresto Francesco La Licata - c'è un vero e proprio vuoto di potere dentro Cosa nostra. E l'opportunità-necessità di far soldi potrebbe non bastare a sedare rancori o a far cambiare idea a quanti, come Leoluca Bagarella e molti grandi capi dietro le sbarre, ritengono di non essere sufficientemente nei pensieri di chi è fuori dal carcere.
Dentro Cosa nostra oggi è forte l'idea della componente che vuol far sentire tutta intera la capacità intimidatoria e la rinnovata voglia di scontro con lo Stato: si potrebbero spiegare così anche le minacce e gli atti di intimidazione contro un giornalista coerente e coraggioso, come Lirio Abbate: segnali della rabbia dei mafiosi, soprattutto dei detenuti.
Certo è che con l'arresto dei Lo Piccolo la 'sede sociale è rimasta senza rappresentanza legale….', come ha scritto La Licata, che ha evocato la possibilità che Cosa nostra torni alla situazione che c'era prima dell'istituzione della 'commissione', quando i dissidi interni non erano ammortizzati da nessun 'organo centrale' e si risolvevano con la legge della lupara.
Ma a questo punto, se è impensabile un 'commissariamento' di Palermo, sotto la tutela del vertice mafioso di Trapani, cioè di Matteo Messina Denaro, è pur vero che il boss trapanese sarà chiamato inevitabilmente a svolgere il ruolo di ago della bilancia.
Matteo Messina Denaro è l'ultimo capo carismatico della vecchia guardia - nonostante l'età relativamente giovane - che sia rimasto latitante.
Difficile che Cosa nostra possa fare a meno di uno 'leader' che ha dimostrato di saper conciliare uso di violenza e spietatezza con il fiuto imprenditoriale e politico.
Matteo Messina Denaro ha un bel 'pedigree mafioso' ma ha anche guadagnato i galloni sul campo e, soprattutto, può contare su un bagaglio - personale e familiare - di solidi rapporti con il mondo della politica. Naturalmente non si può dimenticare che anche lui ha poco di che essere allegro… e sereno... in una terra dove la Polizia ha arrestato, uno dopo l'altro, boss del calibro di Mangiaracina, Virga e Bonafede.
Infine: Cosa nostra non è fatta solo di Matteo Messina Denaro o di Raccuglia, di Lo Piccolo, Rotolo, Bagarella, Riina o Provenzano...
Ha ragione il Procuratore Grasso: Cosa nostra vive brutti momenti.
Eppure quella che qualcuno definì alta mafia, mafia in guanti gialli, terzo livello, quella che imprigiona le coscienze, che fa scelte e governa, è ancora al suo posto.
Per questa mafia, che a guidare le truppe ci sia Lo Piccolo o un altro, che lo faccia dalla città, Palermo o dalla provincia, da Corleone o da un altro paesotto o addirittura dalla provincia vicina di Trapani, poco importa, … se il risultato è garantito.
Ecco perché non basta chiedersi 'chi' governerà ora Cosa nostra; appare assai fondato il ragionamento del Procuratore Antimafia Piero Grasso, già a poche ore dalla cattura dei Lo Piccolo: non basta cercare di capire come reagirà la mafia, ma 'che ne sarà di Cosa nostra?' Interrogativo che potrebbe anche suonare 'cosa' diventerà o 'cosa' prenderà il suo posto? 'Cosa ci sarà al posto di 'Cosa nostra' così come la conosciamo?



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