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GNOSIS 3/2007
Il Forum



Status del Kossovo: alla vigilia di un'epoca

a cura di Emmanuela C. DEL RE



Siamo alla vigilia di una svolta epocale. L'urgenza di risolvere l'annosa questione del Kossovo è ormai tanto sentita che finalmente si parla di date precise, almeno per presentare un rapporto sulla questione, il prossimo 10 Dicembre e di numero di giorni di negoziazione a disposizione, ovvero centoventi. Questo dà il senso di una dimensione temporale anche qualora, ed è probabile, non si riuscisse a tenere il passo. Gli scenari che si prospettano sono diversi, dalla possibile dichiarazione d'indipendenza unilaterale alla conferma dello status quo, al raggiungimento di un compromesso tra le parti.
La situazione è in continua evoluzione. Il gruppo di contatto a sei (Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Russia e Stati Uniti) alla fine dello scorso Luglio ha deciso di adottare una nuova formula per la mediazione nella questione del Kossovo: è stata infatti creata una troika composta da incaricati speciali di UE, USA e Russia. Rappresentante dell'UE nella troika è Wolfang Ischinger, ambasciatore tedesco in Gran Bretagna, che ha una certa esperienza nell'affrontare le questioni balcaniche.
Dopo 13 mesi di mediazione condotta da Ahtisaari, e il deciso rifiuto delle sue proposte da parte della Serbia, sostenuta dalla Russia, e degli Albanesi del Kossovo, sul nuovo sistema di mediazione si sta investendo molto. Tuttavia, da più parti ne viene sottolineata la complessità, visto che per condurre la mediazione bisognerà trovare un accordo all'interno del gruppo di contatto (piuttosto eterogeneo nelle posizioni), un accordo all'interno della troika, e tra i due organi stessi.
La mediazione dovrebbe proporsi come filtro tra posizioni e forme di comunicazione, quella di Belgrado e Pristina, spesso inconciliabili. Le posizioni delle parti, Kossovo e Serbia, sembrano ancora irremovibili, sia al livello delle istituzioni, sia dell'opinione pubblica. Secondo Ischinger (Der Standard, Agosto 2007), il raggiungimento di un compromesso tra le parti sarebbe mille volte meglio di una soluzione unilaterale, ma l'ipotesi del compromesso sembra ancora lontana. Come convincere le parti? Non è solo una questione di do ut des, è una questione che mette in gioco l'essenza stessa di due mondi tra loro lontani.
Il Primo Ministro del Kossovo Agim Çeku ha recentemente affermato che il Kossovo si aspetta che il risultato delle negoziazioni sia l'indipendenza, e nel caso in cui questo non avvenisse, gli Albanesi sono pronti a proclamare l'indipendenza unilateralmente, la nota opzione UDI, “Unilateral Declaration of Independence”. E gli USA non sembrano distanziarsi da questa ipotesi, tanto che la Rice a Luglio ha affermato pubblicamente che gli Stati Uniti si stanno impegnando perché il Kossovo sia indipendente, e "ci arriveremo, in un modo o nell'altro" (Reuters, 20/7/2007). La questione è stata presa seriamente anche dai Serbi, il cui Ministro degli Interni Dragan Jocic ha sollecitato la comunità internazionale a ricordare agli Albanesi del Kossovo che un simile atto sarebbe illegale (Tanjug, 26/8/2007).
La tensione in merito è molto alta. Questa, peraltro, è una delle ragioni che fa ipotizzare possibili disordini in futuro, che secondo alcuni trovano conferma in dichiarazioni come quella di uno dei leader dell'associazione dei veterani dell'UÇK, Abdyl Mushkolaj, che ha affermato che chi ha combattuto per il suo Paese è pronto a farlo di nuovo (Balkan Insight, 2/7/2007). Il problema della questione della sicurezza sul territorio resta dunque fondamentale, e nella discussione sullo status emerge di continuo il problema dell'eventuale futura composizione delle forze di sicurezza in Kossovo, dopo la definizione dello status. Un'ipotesi più volte ventilata da più parti in Kossovo è quella che l'UE crei una sua forza ad hoc. E' più probabile che la KFOR resti, qualora non si raggiungesse l'accordo sullo status.
Su tutto aleggia la Russia, il cui potere di veto costituisce la vera spada di Damocle per le parti in campo. Una Russia che ha in passato alternato momenti di forte interesse per la questione del Kossovo e momenti in cui ha volto lo sguardo altrove. La contrapposizione con gli USA che la Russia ha assunto finora, secondo alcuni avrebbe avuto l'effetto di aumentare il peso dell'UE nelle negoziazioni. Inoltre, come afferma anche Oliver Ivanovic, uno dei più noti leader della comunità serba del Kossovo, l'impasse tra USA e Russia ha riportato l'attenzione della comunità internazionale sui Serbi del Kossovo la cui voce è troppo spesso sottovalutata, anche da Belgrado (Balkan Insight, 30/7/2007). La Serbia sente la Russia vicina e riconosce di aver avuto da essa sempre forte sostegno, ma sa che in questo senso deve adottare una strategia a lungo termine, considerato che il suo futuro è orientato verso l'UE.
Ma l'attore più importante in campo di cui tener conto è e deve essere la popolazione. In Europa giunge poco della cronaca dalla realtà locale in Serbia o in Kossovo, se non quando si verificano fatti eclatanti. Sappiamo però che restano aperte questioni difficilmente risolvibili anche qualora venisse definito lo status, e che, anzi, in alcuni casi le tensioni potrebbero acuirsi. Pensiamo, ad esempio, a tutte le questioni connesse alla convivenza sul territorio di Albanesi e Serbi, a casi come Mitrovica, dove pur nella stessa città le due comunità vivono drasticamente divise. Di tutte le soluzioni immaginate per la definizione dello status nessuna sembra superare la dimensione etnica, connessa a quella territoriale.
Vi è anche l'ipotesi di una spartizione su base etnica del territorio del Kossovo, che spaventa, perché sarebbe di difficile attuazione, anche nel caso in cui venisse adottata come ultima spiaggia e con il consenso delle parti. Tuttavia quella della popolazione non è solo una questione di confini, è una questione socio-economica delicatissima. Secondo un rapporto dell'UNDP pubblicato nell'Aprile di quest'anno, metà dei giovani del Kossovo, sia Albanesi sia Serbi, vorrebbero emigrare, giovani che costituiscono più della metà della popolazione. La “European Stability Iniziative” sostiene che l'emigrazione, tradizione in Kossovo da decenni, continua a costituire la fonte di reddito principale per le famiglie e deve continuare ad esserlo, dati gli scarsi investimenti e aiuti nelle attività agricole e imprenditoriali (ESI, Cutting the lifeline. Migration, families and the future of Kosovo, www.esiweb.org). Eppure è la gioventù, che cresce pensando di emigrare, che ha scarsa fiducia nelle istituzioni e nel futuro, che dovrà "costruire" di fatto il proprio paese all'indomani della definizione dello status. Nel delineare il futuro del Kossovo, in cui l'età media è molto bassa e le famiglie sono le più numerose d'Europa, non si può non tener conto dell'enorme potenziale della gioventù e delle sue esigenze.
Infine, una riflessione merita l'Italia, membro del gruppo di contatto, con una presenza militare significativa e di successo nella KFOR, e molte missioni umanitarie e culturali in Kossovo e Serbia, dove è impegnata anche in molte attività commerciali.
L'Italia, capace di dare un tocco personale alle grandi questioni internazionali, ma anche criticata per non comprenderne, a volte, la rilevanza immediata, sostenendo un ruolo di profilo troppo basso. Interrogarsi su come l'Italia potrebbe realmente contribuire in questo processo, è essenziale.
Questo forum raccoglie voci eterogenee, sia istituzionali sia indipendenti, autorevoli ciascuna nel proprio ambito. Riunisce allo stesso tavolo il Ministro dell'Ambiente del Kossovo, l'albanese Ardian Gjini e il noto opinion leader serbo Ivan Vejvoda, insieme a Lucio Caracciolo, Gerald Knaus, Ennio Remondino e chi scrive, analisti e giornalisti europei, esperti della questione. Il forum ha dunque l'ambizione di far cogliere quanto poliedrico sia il pensiero sul tema, quanto sfaccettati gli aspetti che ad esso sono connessi e che da esso scaturiscono. Le intenzioni di chi lo ha curato sono di far comprendere, che una discussione tra le parti sulle questioni fondamentali, al di fuori del contesto della negoziazione è possibile, e che su queste forme di incontro bisogna puntare molto. La questione del Kossovo non deve essere vista come una spina nel fianco da estrarre al più presto e poi dimenticare, ma si deve invece comprendere che il futuro del Kossovo è il futuro dell'UE e degli altri attori, in una prospettiva geopolitica e geostrategica molto ampia.
Il Forum è stato chiuso il 25 Settembre, alla vigilia della consultazione del 28 Settembre 2007 a New York, in cui Belgrado e Pristina si siederanno faccia a faccia, e il destino di una popolazione multietnica, ma anche le responsabilità della comunità internazionale e dell'UE in particolare, definiranno la distanza tra loro.


Lucio CARACCIOLO
Emmanuela C. DEL RE
Ardian GJINI
Gerald KNAUS
Ennio REMONDINO
Ivan VEJVODA


D. Perché la formula adottata precedentemente per le mediazioni non ha funzionato? Quella attuale è migliore? Quali saranno le conseguenze?

Ardian Gjini - Quello che era stato proposto nella mediazione condotta dal presidente Ahtisaari a Vienna, corrispondeva a come noi vogliamo che sia il Kossovo, come devono essere le disposizioni costituzionali, le garanzie per le minoranze, i legami con gli altri paesi. Avevamo risolto le questioni che tutti considerano importanti e forse, all'inizio, tutti pensavano che fosse sufficiente riuscire a mettere insieme tutti i paesi impegnati nella negoziazione e riconoscere un Kossovo indipendente con quelle caratteristiche. Certamente le cose sono cambiate da allora, perché la Russia ha deciso di impedire che il piano procedesse, perlomeno in questo caso, e quindi è stato deciso di adottare una nuova formula di mediazione condotta dalla troika. Non credo che da questo sistema possa venire nulla di nuovo, perché lo scopo è quello di trovare un terreno comune tra Serbia e Kossovo, e la maggior parte dei paesi comprendono bene che questo non è realmente possibile al momento. Penso che ad un certo punto dovremo tornare a quello che era stato fatto con Ahtisaari, perché spiegava il Kossovo, spiegava quali sono le garanzie non solo per le minoranze ma per la comunità internazionale, garanzie su ciò che abbiamo intenzione di fare in Kossovo. Abbiamo preso tempo. Ora ci sono 120 giorni a disposizione per la negoziazione. Molto probabilmente è un periodo di tempo necessario ad alcuni paesi per accettare la soluzione che dovrà essere attuata in Kossovo, e, ripeto, finiremo con il tornare alla proposta di Ahtisaari.

Ivan Vejvoda - La precedente negoziazione condotta da Ahtisaari non è riuscita per un motivo, secondo me, e cioè perché non era una vera negoziazione, era piuttosto un ibrido tra la cosiddetta diplomazia navetta (shuttle diplomacy) e le due parti, Serbia e Pristina, che alla fine non hanno veramente avuto l'occasione di confrontarsi direttamente. Quindi penso che dopo Ahtisaari bisognava dare inizio ad una terza fase, con la troika. Certo, è vero, la questione sta nel fatto che ora si deve raggiungere un accordo a più livelli nel gruppo di contatto e poi all'interno della Troika stessa, ma quest'ultima sembra aver trovato un accordo su come il processo deve essere portato avanti. Credo quindi che al momento questa formula sia più pratica e che possa essere più proficua delle precedenti. Penso che la conseguenza positiva potrebbe essere quella di raggiungere un accordo solido almeno nella troika, se non addirittura tra Belgrado e Pristina, ma non saremo in grado di vedere i risultati se non dopo l'incontro che si terrà a New York il 28 Settembre prossimo, quando le parti si incontreranno direttamente per la prima volta.

Gerald Knaus - La questione più importante non è come viene organizzato un processo diplomatico, e neppure il carattere del mediatore. Piuttosto, il problema sta nella mancanza di volontà delle due parti, Serbia e Kossovo, di raggiungere un compromesso sulla questione della sovranità. Nessun mediatore e nessun meccanismo può aggirare questo problema. Lo sforzo che il gruppo di contatto sta facendo al momento mi sembra essenzialmente un tentativo di guadagnare tempo, un modo per l'UE, in particolare, di vedere se sia possibile raggiungere un consenso al suo interno sull'eventualità di procedere con il riconoscimento unilaterale del Kossovo più o meno sulla base della proposta di Ahtisaari. In alternativa quello che può succedere è o una divisione dei membri dell'UE, per cui alcuni riconoscerebbero un Kossovo indipendente e altri no, oppure un ulteriore rinvio della decisione, e la continuazione dello status quo. Ahtisaari ha previsto questo fin dal principio, così come Wolfgang Ischinger oggi.

Lucio Caracciolo - I mediatori mediano fra se stessi, come sempre succede quando rappresentano un gruppo pletorico e disomogeneo. Il punto è capire se esiste effettivamente una possibilità d'intesa fra le parti oppure no. Alla fine, è probabile che i mediatori non otterranno nulla e che ci troveremo ad affrontare vecchi o nuovi fatti compiuti su un terreno già molto instabile. Il fatto è che comunque i Russi non cederanno sul Kossovo se non in cambio di concessioni, come la spartizione della Georgia, che Washington non accetta.

Ennio Remondino - In lingua italiana corrente, "mediazione" significa cercare una "media" tra posizioni differenti od opposte. Ahtisaari, è l'opinione di molti, non è stato in grado di ottenere alcuna "media" e alla fin fine s'è limitato ad ufficializzare il suo fallimento di "mediatore" proponendo, come soluzione, ciò che veniva richiesto da una parte sola. Semplice ratifica dei "dati di fatto". Si può anche immaginare (soltanto immaginare) una carenza di "terzietà" da parte dell'arbitro, vuoi per suoi eventuali preconcetti, vuoi per preconcetti di una parte nei suoi confronti (cessate il fuoco di Kumanovo), vuoi per il prevalere di volontà "terze" preponderanti (Usa). L'attuale formula di arbitrato a tre, quantomeno, costringe le parti internazionali coinvolte al faccia a faccia, ognuno a fare i conti brutali con costi e ricavi (politici e non soltanto) delle sue scelte. Di positivo vedo soprattutto il superamento momentaneo di una decisione internazionale pesantemente "Anti". Il problema resta quello dell'assenza di un "Per", del progetto, dell'obiettivo, salvo che non sia il semplice e brutale tirarsi fuori dai guai determinati dalla precedente scelta dissennata d'intervento armato della Nato. Nel permanere della politica estera imperiale-unilaterale dell'amministrazione Bush, resta probabile che le conseguenze dell'attuale scontro tra Stati Uniti e Russia, il prezzo maggiore da pagare, sia alla fine a carico del soggetto politicamente più debole (perché diviso), cioè dell'Unione europea a livello planetario. Della Serbia nell'ambito dei Balcani.

Emmanuela C. Del Re - La mancata fortuna della formula di Ahtisaari stava anche nel momento storico. Vi è un tempo per tutto nella storia. La maturazione della soluzione è lenta, e non essendo il problema stato affrontato a ferro caldo all'indomani della guerra, ora è anche più lenta. Bisogna pensare che l'idea dell'indipendenza del Kossovo per i Serbi costituisce un processo culturale e ideologico molto delicato, che tocca corde profonde. La formula di Ahtisaari forse sembrava distanziarsi un po' troppo da questa dimensione, presentando un pacchetto completo cui si poteva solo dare o negare l'assenso. La nuova formula forse, proprio perché implica accordi a più livelli, soddisfa l'esigenza dei Serbi che il processo si giochi nell'ambito di una struttura complessa anche per la comunità internazionale. E' giusto che si riconosca che gli attori principali sono Serbia e Kossovo, e non solo tutti gli altri.

D. In che modo ridurre la distanza tra politica pensata per la strategia internazionale e politica del quotidiano, nel caso del Kossovo?

Vejvoda - Penso che sia essenziale comprendere che questa è soprattutto una questione che riguarda l'UE. Per prima cosa perché questo è un territorio europeo. Certo, anche gli USA e la Russia, paesi molto importanti nel mondo, hanno interesse ad affrontare e risolvere la questione del Kossovo. Gli USA già dagli anni '90 hanno contribuito alla ricerca di una soluzione per il problema. La Russia era presente in Kossovo, ma poi lo ha lasciato nel 2003, dimostrando di fatto il suo scarso interesse per la questione del Kossovo. E' l'UE sotto la guida dell'Ambasciatore Ischinger che ora conduce le negoziazioni, e per noi questa complessa sfida deve essere vista come qualcosa da affrontare nella cornice dell'UE. Se pensiamo poi all'enorme presenza dell'UE nella regione dei Balcani, attraverso il processo di allargamento, attraverso la negoziazione e le candidature, questo dimostra che per andare avanti e per trovare qualsiasi soluzione per il Kossovo in futuro, l'unico ambito possibile è quello delle dinamiche per l'integrazione nell'UE. L'UE peraltro ha dimostrato grande attenzione per i problemi che derivano dalla situazione locale in Serbia e in Kossovo in vari modi, dagli aiuti dell'agenzia europea per la ricostruzione, senza dimenticare la missione preparatoria dell'UE a Pristina dall'Aprile del 2006 e altre missioni. Sarebbe meglio che l'UE prendesse il posto dell'UNMIK già ora, che la voce dell'UE si facesse sentire di più e che la troika si impegnasse davvero a trovare una soluzione, al più presto, non al più tardi. Per quanto riguarda la questione della coabitazione sul territorio del Kossovo tra Serbi e Albanesi, bisogna dire che vi è una realtà sul terreno che appare ovvia a chiunque abbia guardato alla sfida che si presenta per l'UE e a noi della regione. Mi riferisco al fatto che la parte nord del Kossovo è delimitata e circoscritta dal fiume Ibar. In quella zona, la situazione è molto diversa da quella del centro e del sud del Kossovo, e penso che qualsiasi futura soluzione o compromesso si prospettino dovranno tenere in conto questa realtà.

Gjini - Tra le motivazioni strategiche per cui siamo ancora in questa situazione vi è la questione del nord del Kossovo. Abbiamo provato ad affrontare la questione e abbiamo sostenuto il più possibile alcuni elementi del piano di Ahtisaari per poter gestire la situazione. Il piano contribuirebbe a creare uno spazio per l'integrazione della minoranza serba del Kossovo nella società kossovara, e permetterebbe non solo il mantenimento ma anche lo sviluppo di legami tra i Serbi del Kossovo e la Serbia, sia nel campo dell'istruzione, sia della cultura, dell'economia e in tutti gli altri aspetti importanti della vita perché essi possano vivere bene in Kossovo. Eppure questo non è sembrato sufficiente alla Serbia tanto da accettare un Kossovo indipendente, cosa che potevamo aspettarci dalla Serbia, ma non è stato sufficiente neppure perché la Russia lasciasse che questo processo andasse avanti. In Kossovo sappiamo bene che incorporare i Serbi nella società kossovara, integrarli, renderli parte della società, non è qualcosa che può accadere dall'oggi al domani. Per riuscirci bisognerà che il Kossovo e la comunità internazionale si impegnino per un po' più di tempo, ma crediamo che questo sia il modo migliore, perché così si minimizzano le conseguenze del passato. In effetti ci sono delle conseguenze con cui ci confrontiamo, conseguenze delle politiche di Miloševic, della guerra, dell'esistenza della Jugoslavia, di tutti quegli eventi che hanno avuto luogo in passato. Prestiamo molta attenzione a questo problema e il piano che abbiamo presentato intende seriamente minimizzare tutte le conseguenze negative che potrebbero emergere. Ogni altra soluzione che pure potrebbe sembrare più semplice, non farà altro che amplificare le possibili conseguenze del passato.

Del Re - La politica dovrebbe partire dalla conoscenza. Di Serbi e Albanesi si sa poco o nulla. Ricordo un bel film americano, "Wag the dog" in cui si ipotizzava che gli Stati Uniti inventassero di sana pianta, con l'aiuto dell'avanzata tecnologia odierna dei media, una guerra finta presentata solo in televisione, per convenienze politiche in periodo di elezioni. La guerra era ambientata in Albania e io, per deformazione professionale, notai subito che non solo gli Albanesi venivano definiti di cultura slava, ma le persone e le ambientazioni erano tipiche della Bosnia, della Serbia, non certo dell'Albania. Un film hollywoodiano, con Dustin Hoffman, ma il regista non si era neppure preoccupato di informarsi sul soggetto del suo stesso film. Mi sembra, questa, una metafora per descrivere la situazione attuale in Kossovo, che è diventato il campo su cui si giocano partite diverse. La distanza tra la politica strategica mondiale e quella del quotidiano è incolmabile se non adottando l'approccio della distanza stessa, e cioè a dire che le due cose non dovrebbero intrecciarsi, per evitare di contaminarsi. Bisognerebbe che si ragionasse come su due binari distinti, ma entrambi importanti e con lo stesso peso politico, che viaggino paralleli, e che come le parallele non si incontrino: il binario degli interessi geopolitici e geostrategici e quello degli interessi sul terreno nella quotidianità. Fino ad ora molti sono stati i finanziamenti, gli aiuti, i progetti, ma spesso sono stati influenzati da criteri politici; dipendono, di fatto, dai criteri politici. Vorrei invece che la questione energetica con le sue implicazioni geostrategiche tra UE e Russia, ad esempio, si giocasse sul piano geopolitico sul binario 1, e che il problema energetico di Serbia e Kossovo, gravissimo, venisse affrontato sul binario 2, per evitare che la questione globale ricada su quella locale, come invece è spesso accaduto, a spese della popolazione. Proprio dividendo gli ambiti si riduce la distanza tra le due sfere politiche, che solo in un mondo ideale, abbiamo visto, si intrecciano realmente.

Knaus - La proposta di Ahtisaari, così come lo stile del suo approccio alla questione, era focalizzata proprio sulla questione dello status dei Serbi in Kossovo. E' difficile dire quale procedura potrebbe fare di più per proteggere i loro diritti. Naturalmente perfino provvedimenti costituzionali molto favorevoli dovrebbero comunque poi essere attuati. Il caso di Mitrovica, in particolare, lascia molte questioni aperte che dovranno essere risolte in futuro. Peraltro, anche la proposta di Ahtisaari lascia molte questioni aperte, e, ancora, un atteggiamento ostile della Serbia potrebbe rendere l'attuazione anche più difficile. E' ovvio che se l'impegno internazionale si concentrasse solo su questioni relative alla pace e alla stabilità e non cercasse di trovare risposte alla seria e sempre peggiore crisi economica e sociale in Kossovo, fallirebbe presto nell'ambizione di portare stabilità. La disoccupazione in Kossovo colpisce sia i serbi sia gli Albanesi in modo estremamente negativo.

Remondino - La cronaca quotidiana "sul campo" ha il silenziatore imposto dal pudore. Sarebbe la cronaca di un fallimento. Troppe bugie da disvelare. Fallimento vergognoso dell'intera missione civile Onu, i cui costi esorbitanti hanno partorito il topolino. La malafede sostanziale di quasi tutti i protagonisti. Gli intenti statunitensi reali dietro la spinta ai bombardamenti. L'ingenuità presunta (o la furberia di fare finta che…) della parte europea della Nato, formalizzata negli accordi di Kumanovo e nella risoluzione 1244, da subito trattati come carta straccia. L'arroccamento albanese che su quelle garanzie statunitensi s'è potuto permettere una semplice successione di No, privilegiando, tra l'altro, la sua classe politica più compromessa e limitandone il necessario ricambio. L'assenza di revisione politica reale del "miloševismo" in casa serba. A dirla giornalisticamente: una guerra nata nella bugia, condotta nella bugia, e conclusa nella successione di bugie e di pessima amministrazione. La gestione degli atti d'accusa sui crimini di guerra da parte del tribunale internazionale dell'Aja ha completato il disastro.

Caracciolo - Il principio di fondo della partita per me è il seguente: nessuna soluzione è possibile senza il consenso delle parti. Se non è possibile trovare il consenso, meglio congelare il problema “ad infinitum”, tipo Taiwan. Cercando di tener buoni i contendenti con incentivi vari, se necessario con la forza. Una soluzione non condivisa da una delle parti sarebbe infatti casus belli. Ad esempio, l'indipendenza unilaterale dei kosovari albanesi lasciando intatta la 1246 significa dare ai serbi la formidabile arma di una risoluzione Onu che comunque ne legittimerebbe la resistenza.

D. Su quali elementi - di tipo politico, economico, sociale, ideologico, culturale - potrebbe far leva la mediazione per trovare un linguaggio che permetta la comunicazione effettiva tra le parti?

Gjini - Ebbene, penso che la soluzione per il Kossovo sia stata, in un certo senso, mediata prima della guerra e durante la guerra. Il fatto che il Kossovo dovesse diventare indipendente con forti garanzie internazionali è diventato un adagio popolare. Questo dunque non è qualcosa che la gente si è inventata negli ultimi due anni, e la ragione è che per più di un decennio tutti vedevano l'indipendenza come soluzione per il Kossovo, perfino prima della guerra. Tutti sapevano che questo era il problema che doveva essere risolto. Si parlava di diverse opzioni. La prima era che il Kossovo rimanesse parte della Serbia. Già da molto tempo si capiva che questo non era possibile, perché gli Albanesi del Kossovo non lo avrebbero accettato, visto tutto ciò che era successo negli ultimi cento anni. Tutti rifiutavamo di essere parte della Serbia perché pensavamo che la Serbia avesse perso il diritto di governare la provincia a causa di quello che avevano fatto nell'ultimo secolo, e cioè che volevano tenersi il Kossovo, ma senza gli Albanesi. Era una opzione estrema, improponibile per il XXI° secolo. L'altra opzione estrema era che il Kossovo si unificasse con l'Albania. La popolazione non era del tutto contro una simile soluzione all'inizio, ma poiché tutti gli altri la vedevano come estrema, l’abbiamo accettata come soluzione estrema e non abbiamo optato per essa. E questa è la seconda opzione che è stata esclusa dal tavolo di negoziazione. La terza proponeva di dividere il Kossovo tra Albania e Serbia. Anche questa è stata vista come una soluzione estrema, per la sofferenza umana e la frustrazione che avrebbe causato, perché avrebbe implicato un cambio di popolazione sul territorio, movimenti di persone, e tensioni tra i due paesi che si sarebbero protratte nel tempo. Anche questa era una opzione estrema. E allora tra le tre opzioni estreme, quella di avere un Kossovo indipendente che conservi i suoi attuali confini con il 90% e passa di Albanesi e le altre minoranze, con forti garanzie che, come ho detto, noi abbiamo recentemente concesso nella costituzione elaborata con Ahtisaari, viene vista come una soluzione di compromesso in Kossovo. Credo che la maggior parte della gente nel mondo pensi che si tratti di una soluzione da compromesso tra tutto ciò che ci si potrebbe immaginare che accada qui. La prospettiva dell'UE sarà di grande aiuto per procedere con una nuova soluzione quando dovremo mettere in atto tutte le garanzie previste dalla costituzione. Crediamo che ci vorrà un certo sforzo, un po' di tempo, ma questa è la soluzione più praticabile per il Kossovo e per la Serbia.

Vejvoda - Le posizioni di Belgrado e Pristina sono impraticabili. Pristina vorrebbe essere indipendente e Belgrado vorrebbe mantenere la sovranità e l'integrità del territorio della Serbia. Quando si va oltre e più a fondo nell'analizzare le dichiarazioni delle parti, specialmente per quanto riguarda la parte serba, ci si accorge che in realtà c'è una volontà di raggiungere un compromesso. Potrei citare molte affermazioni degli ultimi due anni da parte del Ministro degli Esteri e del consigliere del Primo Ministro che parlavano di una volontà serba di concedere agli Albanesi in Kossovo di auto-governarsi con un alto grado di autonomia. Il Ministro degli Esteri attuale ha detto che c'è la volontà di dare al Kossovo la possibilità di creare un rapporto con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, comprendendo la necessità di avere crediti e prestiti per poter risolvere la situazione economica nel Kossovo. Penso che siano molto importanti anche le dichiarazioni che sono state fatte negli anni passati e di recente anche dal presidente Tadic in un'intervista rilasciata a un quotidiano portoghese. In quelle dichiarazioni si diceva che le forze militari non verrebbero usate per mettere in discussione la definizione dello status. E' vero vi è stata una dichiarazione a proposito di un intervento militare da parte del segretario di Stato Prorokovic la settimana scorsa rilasciata al New York Times, ma penso che sia il Presidente sia il Primo Ministro della Serbia abbiano ripetuto che verranno usati mezzi diplomatici e istituzionali e non militari. Questo è dovuto anche ai continui contatti tra l'esercito serbo, tra il capo di stato serbo e i comandanti NATO a Napoli e i comandanti della KFOR nel Kossovo stesso. Bisogna veramente sottolineare l'intensità di quei contatti, perché dimostra una volontà di coordinarsi in caso di instabilità o violenza cosicché le linee di comunicazione tra le forze militari serbe e la NATO siano sempre strettamente in contatto per evitare fraintendimenti. Più in generale vorrei aggiungere che penso che qualsiasi attore a Belgrado o Pristina che istigasse alla violenza o che permettesse che accadessero episodi di violenza, pagherebbe un alto prezzo in futuro. Credo infatti che i politici sia a Belgrado sia a Pristina siano ben coscienti che il giorno dopo la definizione dello status del Kossovo, qualunque sia, dovranno fare un viaggio a Bruxelles perché la regione in generale, e Belgrado e Pristina in particolare, dipendono finanziariamente ed economicamente dai fondi delle maggiori istituzioni europee, la EBRD e altre. Naturalmente il desiderio della Serbia e di altri paesi nella regione è quello, ad esempio, di entrare nel WTO, e così vi è una forte consapevolezza della responsabilità reciproca tra i paesi della regione, e in questo caso Belgrado e Pristina hanno una responsabilità riguardo agli sforzi della comunità internazionale e più specificatamente dell'UE, per andare avanti. Per questo credo che lo sforzo della mediazione nei prossimi tre mesi fino al nuovo anno sia cruciale nel tentare di mettere la retorica in pratica e per vedere se c'è la possibilità di decidere tramite le negoziazioni indirette e il dialogo, se si possa arrivare a qualche approccio, a qualche concessione. E' quello che il grande politologo Bernard R. Crick chiamava l'alto prezzo della pace, con questo intendendo che quando una parte rinuncia a qualcosa, poi otterrà un futuro prospero. Questo a dire che se anche Pristina farà una concessione, questo rientrerebbe in quel contesto di valori europei e di dinamiche istituzionali europee cui essa stessa dichiara di ispirarsi.

Caracciolo - Sul fatto che comunque Kosovari albanesi e Serbi di Serbia non dovranno convivere e cooperare, quale che sia lo status del Kossovo. E' quindi loro interesse trovare un accordo. Inoltre, bisogna rendere ben chiaro che il mondo può sopravvivere a un mancato accordo sul Kossovo. E che questa provincia, così come il resto dei Balcani, non è l'ombelico del mondo.

Knaus - La conditio sine qua non perché il dialogo abbia un senso in questa fase è la risoluzione della questione dello status in Kossovo, sebbene appaia chiaro che un riconoscimento unilaterale dell'indipendenza del Kossovo da parte dell'UE porterebbe ad un rapido aumento delle tensioni tra l'UE e la Serbia. Molto dipenderebbe da come la leadership serba, che è divisa sull'importanza di una politica costruttiva verso l'UE, reagirebbe dopo lo shock iniziale. E' ragionevole aspettarsi che i politici serbi pro-UE alla fine accetteranno un Kossovo indipendente così come hanno accettato l'integrità della Bosnia e l'indipendenza del Montenegro. La questione è quanto ci vorrà prima che questo accada. E' chiaro anche che una parte importante dell'èlite politica serba e della popolazione non accetterà l'indipendenza del Kossovo in tempi brevi. La politica della Serbia, così come il suo rapporto con l'UE resteranno complicati qualunque sarà il risultato del dibattito sullo status del Kossovo.

Remondino - Iniziare con l'affermare che non c'è più un solo cattivo definito nella storia, ma che le pagelle internazionali si compilano sulla base dei comportamenti attuali, d'ogni giorno, sarebbe già una grande novità. Prima gli Standard poi lo Status, si disse. Dopo la sommossa organizzata del marzo 2004, divenne Standards and status. Oggi, dopo Ahtisaari, dire un No chiaro alla soluzione di Status senza standard che si prospettava, varrebbe già a fare chiarezza sul quesito chiave di chi, oggi, all'interno del Kossovo non vuole "standard" di legalità per i suoi cittadini.

Del Re - Mi sorprende sempre vedere come quando si parla di mediazione o negoziazione, si parta sempre dall'aspetto tecnico, dalla formula, dall'obiettivo finale di ciascuna parte. Credo che invece enorme importanza abbia il percorso di comunicazione, che in questo caso è decisamente interculturale. Anni di unità, pur in forma autonoma, nel comune destino della Jugoslavia non sono riusciti a creare un linguaggio comune che potesse mediare tra mondo serbo e mondo albanese. La discussione sullo status dovrebbe tener conto che si tratta di una comunicazione interculturale, tra frameworks culturali diversissimi, in cui l'elemento ideale e simbolico è predominante. Ci si chiede perché le posizioni siano irremovibili, soprattutto per quanto riguarda la Serbia. Non basta citare il fatto che il Kossovo è considerato il luogo di origine del mito di fondazione della nazione serba, con la famosa battaglia di Kosovo Polje del 1389, perché ciò apparirebbe retorico. Ma è una questione di identità culturale profondissima, che anche gli Albanesi sentono, visto che proprio in Kossovo ebbero origine i movimenti intellettuali che hanno poi portato all'indipendenza dell'Albania e che hanno fondato la cultura albanese dalla fine del XIX° secolo. Che la cosiddetta comunità internazionale abbia ormai imposto uno stile di comunicazione standard, soprattutto in ambito politico, e che le culture debbano necessariamente stemperare le proprie peculiarità di comunicazione nelle negoziazioni, è un dato di fatto, una convenzione necessaria. Che però quando si punta al compromesso si debba tenere in conto che si tenta di mediare tra sfere culturali diverse, dovrebbe essere ovvio. Chi media dovrebbe essere in grado di operare su più livelli, dando a ciascuno il suo, sul piano storico, culturale, economico, sociale. La Serbia dovrebbe potersi riscattare dalla storia recente e vedersi riconosciute le grandi potenzialità che ha già dimostrato di avere, soprattutto nella società civile. Il Kossovo dovrebbe potersi finalmente sentire adulto, sentire di aver raggiunto la maggiore età agli occhi di chi media. Se i mediatori non saranno in grado di parlare più culture, non lingue, il dialogo resterà un dialogo tra sordi, e la soluzione verrà sempre percepita come imposta, o come una sconfitta, non come un consenso ottenuto.

D. L'ipotesi della spartizione su base etnica del territorio del Kossovo, è percorribile? E se venisse realizzata, che conseguenze potrebbe avere?

Vejvoda - Penso che sia importante in questa nuova fase della troika che tutte le opzioni vengano messe sul tavolo delle negoziazioni. Pristina rifiuta l'idea della spartizione. Alcuni prendono in considerazione anche l’idea di una confederazione o di un modello simile allo status di Hong Kong. Voci. Penso che il ruolo della troika, in questo periodo, dovrà giocarsi a porte chiuse, prima di tutto cercando di vedere se le parti possano avvicinarsi reciprocamente su certe questioni, e poi suggerendo soluzioni che le parti potrebbero considerare accettabili. Tutto questo dovrebbe avvenire durante i mesi di Ottobre e Novembre, nella prospettiva di arrivare al 10 Dicembre, la data in cui dovrà essere presentato il rapporto. E' molto difficile in questo momento affermare quali proposte possano essere accettabili o parzialmente accettabili per le parti, ma io continuo a sostenere che in questa fase tutte le opzioni sono possibili, se le parti tengono seriamente in conto qual'è il percorso pacifico che rinforzerà la stabilità e la legittimità democratica del governo che salirà al potere.

Gjini - Ci sono idee diverse, ma quello che voglio dire è questo: noi abbiamo costruito un'idea. Non noi da soli in Kossovo, ma con quasi tutto il resto del mondo democratico. L'idea di un Kossovo indipendente, prospero e democratico, con forti garanzie per le minoranze, è un'idea non facile da realizzare. Nessuno pensava che fosse facile, ma quando si ha un'idea veramente buona, ci vuole entusiasmo per convincere la gente a portarla avanti, ma ci sono gli scettici, che come pirañas si mangiano l'idea pezzo per pezzo con il loro sollevare milioni di domande su qualunque questione, su qualsiasi cosa facciamo, se quello che proponiamo funzionerà … molte domande come queste. Questo è quello che io chiamo "mangiarsi l'idea boccone per boccone". Ma se vediamo una buona soluzione che richiede un po' più di lavoro, allora ci impegniamo e la facciamo funzionare. Una confederazione tra Serbia e Kossovo sarebbe stata possibile nel 1990 o nel 1998, ma non è possibile ora, e la motivazione sta solo nel rifiuto della Serbia di rinunciare al territorio che è abitato da persone che non vogliono vivere più nello stesso stato e che hanno tutte le ragioni per non volerci più vivere. La Serbia stessa ha dato alla popolazione albanese del Kossovo tutte le ragioni: l'esperienza del passato è davvero molto amara. Dividiamo il Kossovo secondo confini etnici? Questo è uno scenario da incubo, la cosa peggiore che potrebbe accadere nei Balcani, perché ucciderebbe di nuovo l'idea di costruire stati democratici, multietnici, sostenibili, stati che presto stabilirebbero anche buone relazioni tra loro. Dividere significa solo ulteriori divisioni, vorrebbe dire che non solo la nostra generazione, ma anche i nostri figli crescerebbero e diventerebbero vecchi nelle continue tensioni.

Knaus - Non credo che questo sia realizzabile, o che possa seriamente essere preso in considerazione da nessun membro dell'UE o dagli USA. Inoltre, questo vorrebbe dire tradire tutto ciò che l'ONU ha promesso alla maggioranza dei Serbi del Kossovo che non vivono nel territorio che diventerebbe parte della Serbia in caso di spartizione. Solo una minoranza dei Serbi del Kossovo vive nella regione di Mitrovica e più a nord, al confine con la Serbia. Parlare di spartizione sarebbe come dire: se vuoi sentirti sicuro, è meglio che resti a sud dell'Ibar. Questo sarebbe un messaggio pessimo ed è difficile immaginarsi di poter attuare le tutele previste dal piano di Ahtisaari per i Serbi del Kossovo in caso di spartizione. E poiché non è chiaro in che modo verranno definiti i nuovi confini, è molto probabile che altri confini tra Kossovo e Serbia verrebbero discussi, in particolare nella valle di Preševo. Anche se le negoziazioni sulla spartizione fossero serie, non porterebbero maggiore stabilità, semmai creerebbero ulteriori problemi. Peraltro, il problema che la spartizione dovrebbe risolvere resterebbe: una parte consistente di nazionalisti sia Serbi sia Albanesi del Kossovo rifiuterebbe la spartizione come tradimento. Insomma, i rischi sono molti, i vantaggi potenziali pochi.

Del Re - L'idea della divisione è spaventevole. Tuttavia, nei lunghi anni di ricerca sul campo, ho a volte pensato che fosse un'immagine sempre latente nella mente della gente. Non per questioni di razzismo ideologico, ma piuttosto per un logoramento emotivo che si è protratto troppo a lungo. Qualcuno sostiene che si tratti di una soluzione possibile, che con un colpo solo risolverebbe tutti i problemi delle minoranze. Il costo umano ed emotivo della questione non viene però considerato. Anche dopo la guerra, quando a molte fattorie albanesi del Kossovo era stato bruciato il tetto, le famiglie che le abitavano preferivano dormire nella stalla ancora intatta pur di non lasciare quella che consideravano la loro casa. Lo spostamento strategico di persone mi sembra davvero voler affrontare la questione come se si dovessero muovere pedine su una scacchiera. Ancora, una simile soluzione decreterebbe il fallimento totale del lavoro di anni di numerose organizzazioni non governative sul territorio, nonché dei programmi delle organizzazioni internazionali, di UNMIK stesso. Un fallimento che ricadrebbe rovinosamente sui finanziamenti delle grandi istituzioni per i programmi che riguardano la società civile, che io considero troppo magri vista l'importanza dei problemi da affrontare, in confronto a quelli per le infrastrutture, ad esempio, che in proporzione sono enormi. E poi una spartizione costituirebbe un'enorme semplificazione di un problema, quello della convivenza sul territorio del Kossovo di Albanesi e altre minoranze, con la motivazione della protezione di ciascuna parte, che non si esaurisce certo nella questione cosiddetta interetnica. Le condizioni socio-economiche sono le prime a creare insoddisfazione, mancanza di fiducia nelle istituzioni, incertezza nel futuro. Problemi che riguardano tutta la popolazione, che non risparmiano certo gli Albanesi, che spesso sono in conflitto tra loro, non solo con le minoranze. Inoltre, qualora parte della popolazione venisse spostata, dovrebbe adattarsi ad una nuova condizione in un altro luogo, il che, come sappiamo dalla storia, non è facile anche quando ci si sposta in un territorio dove gli abitanti già presenti parlano la stessa lingua. Le famose lessons learned, alla fine non sembrano mai venire recepite, come lezioni, perché altrimenti basterebbe la II° guerra mondiale a illustrare gli scenari possibili di una spartizione. Lavorare sulla società civile, migliorare le condizioni di vita: questa la soluzione che porta ad una convivenza serena.

Caracciolo - Il Kossovo è già spartito su base etnica. Se si proclamasse indipendente, certo non potrebbe governare sulle enclavi serbe e su Mitrovica Nord, a meno di non scatenare un'altra guerra. In ogni caso, difficilmente questa disputa potrebbe essere confinata al Kossovo, perché troppi sono i popoli o i gruppi che considerano del tutto provvisorio lo status quo balcanico.

Remondino - Un Kossovo monoetnico, come si prospetta, rappresenterebbe lo snaturamento e lo squilibrio del paese e di un'intera area. Inutile ripetere tra noi della dirompenza strategica di due stati nazionali albanesi nell'area, e della catena di conseguenze attorno, a partire da Macedonia e Bosnia. La spartizione etnica interna, sarebbe soltanto una sorta di pezza cucita sul buco creato otto anni addietro. Dove e come spartire, e attraverso quale geografia? Pre o dopo la catena di pulizie etniche incrociate? L'Ibar come nuovo confine con la Serbia? E i monasteri cristiani? E le altre isole etniche?

D. Al di là delle questioni giuridiche, quali le possibili conseguenze di una dichiarazione unilaterale d'indipendenza?

Gjini - Ci siamo dati da fare nell'ultimo decennio per far sì che tutta la comunità internazionale si impegnasse, al fine di far diventare la nostra indipendenza un processo veramente fluido. Sarebbe lo scenario migliore. Tuttavia direi che se si parla dell'illegalità della proclamazione dell'indipendenza, allora tutti i paesi che hanno dichiarato l'indipendenza lo hanno fatto in modo illegale. Non c'è un modo legale per dichiarare l'indipendenza. La volontà del popolo costituisce l'essenza dello sviluppo democratico. Vogliamo creare il nostro stato e ci sono state date tutte le ragioni per volerlo. Fino ad ora la larga maggioranza del mondo democratico sostiene che abbiamo dato le garanzie che il nostro stato sarà uno stato normale, uno stato che perseguirà la prosperità, che rispetterà i diritti umani, applicherà la democrazia, e tutto ciò sarà valido anche per le minoranze in Kossovo. Crediamo quindi di avere moralmente tutti i diritti di aspirare a questo. Ci abbiamo messo molto tempo. Ci sono state fatte promesse per lungo tempo, e noi stessi abbiamo dato la nostra promessa definitiva di quello che vogliamo fare. Penso davvero che non ci sia posto per la legalità o l'illegalità quando si parla di dichiarazione di indipendenza. Non c'è nulla che renderebbe una dichiarazione di indipendenza legale nei termini in cui parla la Serbia oggi. Tutte le dichiarazioni sono state illegali ad un certo punto.

Vejvoda - Penso che la dichiarazione unilaterale d'indipendenza sarebbe la soluzione peggiore possibile, nonchè la più rischiosa per la destabilizzazione dell'area. Il processo di mediazione e la troika dovrebbero fare qualunque cosa per evitare lo scenario della dichiarazione unilaterale d'indipendenza. E' fondamentale che la questione del Kossovo venga inserita un rigido processo istituzionale cui partecipino tutte le più importanti istituzioni nazionali e internazionali, UN, USA, UE, Russia e naturalmente le due parti. Vorrei ricordare che nel Febbraio 2003, quando io ero consigliere politico dell'ex Primo Ministro Djindjic, egli lanciò un'iniziativa per cominciare a risolvere la questione dello status del Kossovo perché diceva di sentire allora che in Kossovo covava l'idea di fare una guerra di indipendenza e che quello sarebbe stato, secondo lui, lo scenario peggiore. Per questo lanciò l'iniziativa di inserire la questione dello status all'interno di un processo istituzionale europeo, democratico e razionale. Siamo nel continente europeo, siamo un aspirante membro dell'UE, dobbiamo adottare le procedure e rispettare le regole della famiglia di cui vogliamo far parte. La dichiarazione unilaterale d'indipendenza sarebbe al di fuori di questa cornice. Ora, naturalmente se facciamo un'analisi seria della mediazione così come è ora, dobbiamo pensare che può portare Belgrado e Pristina a raggiungere un compromesso, ipotizzando che la troika sappia suggerire una soluzione accettabile. La dichiarazione unilaterale resta una possibilità se vogliamo essere realistici, ma le conseguenze sono imprevedibili. Quello che è certo è che renderebbe il processo delle negoziazioni più difficile per l'UE, e renderebbe più difficile anche il possibile subentrare dell'UE al posto di UNMIK. Concludo dicendo che bisogna tentare ogni strada possibile per evitare lo scenario della dichiarazione unilaterale d'indipendenza, perché le ramificazioni che potrebbero derivare da ciò sono imprevedibili. Lo scenario ideale, al momento, sarebbe quello di una nuova risoluzione all'interno delle Nazioni Unite.

Remondino - Intanto, non credo sarebbe irrilevante, un ulteriore atto di illegalità internazionale imposto dagli Stati Uniti di Bush. Con il risultato (forse il vero obiettivo strategico), di cacciare nei guai l'Unione europea. Come riconoscere il prodotto giuridico di un atto di forza unilaterale? Chi lo farà? L'Unione o frammenti di essa? Avremo un Kossovo albanese per Washington, un Kossovo serbo per Mosca e un Kossovo mezzo e mezzo per l'UE?

Caracciolo - Agli americani del Kossovo importa poco, Camp Bondsteel escluso. Forse i kosovari albanesi si illudono di poterli ancora coinvolgere in una guerra contro la Serbia. Washington farebbe bene a chiarire che ciò non sarà. In caso di conflitto, comunque, i primi ad essere coinvolti saremo noi italiani e altri europei. E' ovvio che stabilire la legittimità di una secessione contro una risoluzione dell'Onu apre la possibilità di iniziative analoghe ovunque, Europa compresa: infatti greci, spagnoli, romeni e altri paesi che soffrono di problemi simili non vorrebbero che ciò avvenisse.

Knaus - Gli Albanesi del Kossovo hanno già dichiarato l'indipendenza in passato, nei primi anni '90. Dichiarare l'indipendenza non li aiuterebbe a meno che avessero già ottenuto una decisa promessa di riconoscimento. Ciò che conta è quindi soltanto se gli USA e l'UE riconoscerebbero un Kossovo indipendente e a quali condizioni. A molti governi nell'UE non piace l'idea di un riconoscimento unilaterale al di fuori del processo delle Nazioni Unite, ma ad una maggioranza anche più vasta l'idea del prolungamento dello status quo piace ancora meno. Vi è una rabbia crescente perfino tra gli amici della Serbia per il modo in cui la Serbia ha giocato la carta della Russia, e per il ruolo stesso della Russia che in sostanza dice all'UE di posporre la decisione, di continuare a sostenere l'impatto dell'impegno di amministrare il Kossovo senza però fare alcuna proposta credibile se non il mantenimento dello status quo.

Del Re - La dichiarazione unilaterale d'indipendenza è ai miei occhi uno scenario possibile, perché rispecchia la mentalità degli Albanesi del Kossovo. Tutto deriva dal fatto che i tempi si sono troppo allungati. E' lecito che la Serbia opponga resistenza, oggi, alla questione dell'indipendenza. Bisognava forse agire con tempi più rapidi, all'indomani del conflitto facendo leva sull'onda emotiva che aveva colpito tutti. Se si fossero fatti dei passi allora, forse oggi il processo sarebbe più facile. La Serbia è un paese democratico, dinamico, proiettato verso un futuro europeo, per cui si sente vincolato dalle normative internazionali in materia di diritti umani e tutto il resto. L'idea dell'indipendenza in questo clima sembra molto più distante dalla realtà. Gli Albanesi del Kossovo hanno lottato per decenni, in anni in cui la vita quotidiana era fatta di minuscole battaglie, di stratagemmi per far sopravvivere la propria identità e la propria cultura in un clima di terrore non sempre esplicito ma costante. Che vogliano l'indipendenza è legittimo, perché hanno atteso anni, hanno molto lavorato e raggiunto buoni risultati, certamente per la presenza della comunità internazionale ma anche per una naturale emancipazione e maturazione che avevano già cominciato dai tempi di Tito, quando il Kossovo godeva dello status di autonomia. Si deve tuttavia evitare che si arrivi all'UDI solo perché si deve evitare di esacerbare gli animi, per evitare che la popolazione ne paghi le conseguenze. Desidero sottolineare che la comunità internazionale ha un'enorme responsabilità in questo senso, su cui noi tutti dovremmo riflettere. La questione tra Belgrado e Pristina è diventata una questione soffocata da molte sovrastrutture, nel peggior senso che il termine "geopolitica" può assumere. Le dichiarazioni ad effetto dei leaders europei, russi e americani mi lasciano perplessa. Sulla stampa europea si parla quasi solo delle dichiarazioni di Ischinger o della Rice o dei leaders russi. Sentiamo poco la voce di serbi e albanesi. Tutto sembra giocarsi qualche metro al di sopra della carta geografica del Kossovo e della Serbia. Alla fine, come mi ha detto un Kossovaro, chissà se la comunità internazionale non si distrarrà dal problema del Kossovo con quello che sta accadendo con l'Iran. Parlando con diversi analisti e leaders locali che non posso citare, ho avuto la sensazione che l'UDI da qualcuno sarebbe quasi auspicata perché sarebbe il colpo di scena che ci vuole per scuotere tutti.

D. Come monitorare la sicurezza in Kossovo oggi? Che ruolo possono ricoprire le forze militari nel nuovo scenario?

Vejvoda - La dichiarazione di un possibile uso della forza, o di forzare il processo per arrivare a una soluzione usando la violenza nelle strade è certamente indesiderabile. Credo sia interessante ricordare che le due parti, Belgrado e Pristina, hanno firmato sotto gli auspici della troika una dichiarazione in cui si diceva che avrebbero evitato qualunque affermazione che possa mettere in pericolo il processo. Adesso entrambe le parti usano certe affermazioni di retorica estremista più che altro per uso interno, per guadagnare appoggio per la loro causa. Penso che sia importante sottolineare che il 17 Marzo 2004 c'è stato un appello alla comunità internazionale perché in Kossovo non si riusciva a fermare la distruzione di proprietà serbe, nonché l'aggressione alla popolazione serba e perfino alle mucche nei villaggi in Kossovo. Le regole d'ingaggio della Nato vennero sottoposte a revisione e sono state riformulate in modo tale che adesso la Nato, come ha affermato il comandante, è pronta a bloccare qualsiasi tipo di agitazione violenta. Speriamo che sia proprio così, e credo che nel contatto tra l'alto comando e la Nato, la Kfor giochi un ruolo molto rilevante. Il ruolo delle forze militari internazionali è veramente molto importante sia per mantenere le condizioni sul campo come sono adesso, sia come deterrente per eventi come quello che è accaduto nel 2004, perché, naturalmente, quella sarebbe la prova, specialmente in Kossovo, che gli Albanesi sono pronti a violare le regole del rispetto dovuto a coloro che sono non-Albanesi sul territorio.

Gjini- Ogni paese deve affrontare rischi per la sicurezza, e ogni paese è pronto a cercare di contrastare ogni minaccia alla sicurezza. Il Kossovo oggi si appoggia principalmente alla NATO perché non gli è stato permesso, per ora, di creare quelle sue proprie strutture di sicurezza che noi sosteniamo che sarebbero in grado di far fronte alle minacce. Abbiamo creato alcune strutture, ma facciamo conto sulla NATO e la KFOR. Abbiamo creato il Kosovo Police Service; abbiamo la polizia dell'ONU ancora attiva; abbiamo i Kosovo Protection Corps, un'organizzazione civile che deve essere trasformata nella futura Kosovo Force che costituirà l'embrione del futuro esercito del Kossovo. Che tipo di esercito vogliamo creare? Un piccolo esercito, professionale, che sia in grado di sostenere i paesi della regione e del mondo nel far fronte alle minacce che riguardano tutti. Il nostro esercito non sarà un esercito che cercherà di espandersi e di minacciare i nostri vicini: non abbiamo intenzione di far questo. Non abbiamo bisogno di farlo, crediamo fortemente di non averne bisogno e quindi questo non accadrà. Quando poi si parla di minacce alla sicurezza, dato che siamo nel processo della definizione dello status, non possiamo dire che non vi siano rischi per la sicurezza, ma possiamo dire che la maggioranza della gente vuole la pace, e che noi siamo assolutamente sicuri che non ci saranno minacce da parte del Kossovo finché il processo è in atto. Ci sono sempre delle soluzioni, e noi cerchiamo di trovarle. Abbiamo dato garanzie e non penso che nessuno nella regione o in Europa dovrebbe temere che il Kossovo causi dei guai.

Caracciolo - In teoria le truppe internazionali dovrebbero isolare i facinorosi e eventualmente arrestarli. Ma non hanno la forza e la volontà per farlo. Sono quindi in una situazione pericolosamente passiva, come d'altronde sempre accade nei Balcani fiché non scoppia la guerra.

Knaus - Il ruolo della KFOR e della NATO è di proteggere sia i confini del Kossovo sia le minoranze presenti in Kossovo. Finché la KFOR ribadirà chiaramente la sua determinazione ad assolvere il proprio mandato, questo dovrebbe essere sufficiente come deterrente perché non scoppi seriamente la violenza su larga scala. Naturalmente non si può escludere che vi siano episodi di violenza a livello locale, come ad esempio quelli che hanno avuto luogo a Mitrovica diverse volte nel 1999. Tuttavia, è difficile dire se questo potrebbe sfuggire al controllo. La KFOR ha anche imparato dall'esperienza del 2004. Una minaccia più concreta a medio termine è la violenza politica tra gli Albanesi del Kossovo, che nel caso peggiore potrebbe portare al collasso delle istituzioni sul modello della crisi albanese del 1997. Ma per il momento questo sembra altamente improbabile.

Remondino - Oggi come ieri, vale la logica di chi finanzia, organizza, sostiene: di chi realmente decide. Non credo che esista un servizio segreto tanto sprovveduto, tra i mille presenti in divisa o borghese in Kossovo, a non sapere chi, come e quando. Qualcuno, chi alla fine deciderà, sa certamente.

Del Re - Non credo che vi sia la rivolta dietro l'angolo, e non credo che vi saranno pulizie etniche. Penso piuttosto che in Kossovo vi sia un grado di violenza sempre presente che deriva da un passato difficile, sia a causa della politica della Serbia, ma anche a causa di una struttura sociale che non ha ancora elaborato strategie adeguate a risolvere tutte le crisi che la investono, di qualunque natura esse siano. In Serbia il problema è analogo, anche se diverso nelle caratteristiche. La questione della sicurezza non dipende quindi solo dallo status o dalla storia. Le forze internazionali in campo hanno assolto con successo il loro compito, chi più chi meno a seconda di come hanno gestito il settore di competenza e di come hanno curato i rapporti con la comunità locale. Molto è stato fatto, ma molto si deve fare. E' fondamentale pensare a forze del Kossovo, composte da membri di tutte le comunità presenti sul territorio. L'aiuto internazionale è auspicabile, e continuerà, ma anch'esso dovrebbe continuare ad essere il frutto del contributo di più stati e più organismi internazionali. La mia esperienza con le missioni militari sul campo in zone di conflitto mi ha insegnato che è bene che vi siano più stili di approccio alla questione, per bilanciarsi tra loro. Le regole d'ingaggio devono continuare ad essere orientate verso il contenimento, più che verso l'intervento. Tuttavia sarà difficile, quando lo status sarà definito, pensare solo in termini militari. Un serio problema sarà costituito dal riassestamento interno alla comunità albanese della criminalità e delle frange estremiste, per cui molta attenzione deve essere data a forze di polizia, con forte conoscenza del territorio, delle dinamiche criminali interne, nonché delle reti criminali internazionali e transnazionali, che hanno sfruttato il Kossovo come paese di transito o in qualche caso come crocevia di smistamento. Sono certa che gli Albanesi del Kossovo si impegneranno moltissimo in questa lotta, in cooperazione stretta con le forze di polizia internazionali. Gli Albanesi hanno famiglie solide e vogliono crescere figli sereni.

D. ICome si può convincere la gioventù a restare in Kossovo?

Gjini - E' vero che abbiamo la popolazione più giovane d'Europa. E' vero che siamo usciti dalla guerra, con un sistema completamente distrutto. E' vero che molti kossovari vorrebbero emigrare ora. Ma questo non è solo il caso del Kossovo, è accaduto anche negli altri paesi post-comunisti. Ci sono state forti migrazioni anche dalla Serbia, ma un simile scenario non si è mai materializzato, non è mai successo che metà della gioventù volesse emigrare. Penso che il desiderio di chi emigrava allora fosse quello di sentirsi liberi di scegliere cosa fare più che l'idea di lasciare la propria patria e andare all'estero. Credo che invece il caso del Kossovo oggi sia legato al fatto che abbiamo un alto tasso di disoccupazione, una crescita economica lenta, e tutto ciò può anche essere messo in relazione con la mancanza della definizione dello status. Una volta che la questione dello status sarà risolta, avremo una crescita economica rapida, più posti di lavoro, più prospettive di sviluppo economico. Questa è una delle ragioni per cui non penso che ci sarà un movimento migratorio di massa. Non è accaduto finora, non accadrà in futuro.

Vejvoda - Si, una delle ragioni che ha portato a cominciare il processo di negoziazione due anni fa era in effetti la volontà di creare una situazione economica e sociale positiva in Kossovo. La pressione demografica era enorme e le statistiche rilevavano che circa trentamila diciottenni si sarebbero riversati nel mercato del lavoro ogni anno. L'inesistenza di un'economia in Kossovo, come in effetti l'ESI ha ripetutamente sostenuto, penso che costituisca uno dei cardini della sfida che pone la questione dello status. Non è solo una questione che deriva dallo stato emotivo del momento, ma è una questione che dovrà essere affrontata nel lungo termine. E' forse la questione più importante. Come si può motivare la gioventù a restare e qual è lo scenario futuro che ad essa si prospetta se l'economia non prende l'avvio? E questo naturalmente non è un problema che riguarda solo il Kossovo, ma tutta la regione, perché se in Kossovo le cose non cominciano a muoversi in una direzione economica e sociale positiva, questo può creare problemi per la regione nel suo complesso.

Del Re - Io credo che la voglia di emigrare oggi sia diversa da quella delle ultime generazioni. Incontro spesso giovani kossovari, sia nel loro paese sia in qualche programma internazionale che normalmente riceve duemila domande per 30 posti. Credo che non sia solo la necessità economica, un fatto comunque reale, a spingere i giovani ad emigrare. Il mondo di internet ha cambiato molte cose. I giovani sentono di dover acquisire un know how, di fare esperienza diretta delle cose, di mettersi in gioco. Sanno, e la storia in questo li ha davvero fiaccati, che si trovano ai margini di una comunità internazionale in fermento, in continua evoluzione, e vorrebbero capirne i meccanismi. Peraltro hanno "assaporato" il gusto del mondo internazionale, perché molti di essi hanno trovato lavoro in organizzazioni e istituzioni internazionali che riversatasi sul territorio hanno apportato anche una cultura del lavoro diversa: stipendi molto superiori alla media, anche se con contratti a termine, orari e stili di vita diversi, continui incontri e opportunità. Parlano più lingue, hanno diplomi e lauree, eppure sono al margine. Più che restare, penso che li si debba convincere a tornare, come è accaduto altrove. Le politiche dovrebbero aumentare moltissimo la possibilità per i giovani di muoversi per periodi brevi in contesti internazionali, creare un andirivieni di persone, che diventa anche un andirivieni di idee e iniziative. Non bisogna lasciare che l'emigrazione diventi solo un fenomeno di brain drain. Creare in Kossovo più centri di orientamento, puntare di più sulle donne, come motore della società, intervenendo con programmi già nelle scuole. Permettere accesso a crediti, aumentare le attività di tutoraggio per le iniziative grass root. Come hanno fatto i rifugiati Kossovari che fuggivano verso l'Albania e la Macedonia nel 1999, che sono tornati a casa dopo la guerra e si sono rimboccati le maniche, così i giovani, vogliono - e devono- tutti avere la loro chance, ma secondo me vorrebbero poi tornare.

Remondino - Credo che i problemi di sviluppo in Kossovo e Methodia siano largamente antecedenti alla crisi attuale. Far passare l'illusione che la forma dell'indipendenza sia la soluzione dei problemi di sviluppo del territorio, è l'inganno più crudele attorno a cui si muovono diverse malvagità: esterne ed interne.

Caracciolo - Anch'io se fossi un giovane kosovaro, specie se serbo, vorrei emigrare. Per la verità, anche se fossi vecchio. Come dar loro torto? Chi può, fa bene a andarsene.

Knaus - Il problema è semplice: non ci sono abbastanza posti di lavoro in Kossovo, e non ci saranno abbastanza posti di lavoro in Kossovo per assorbire sia l'aumento di giovani in cerca di lavoro, sia l'inevitabile riduzione delle persone che lavoravano nel settore agricolo. Le aree rurali in Kossovo sono seriamente sovrappopolate, gli appezzamenti di terreno posseduti dalle famiglie medie sono troppo piccoli perché la loro attività agricola possa essere redditizia, e non è concepibile che ci sia una crescita nelle zone urbane tale da alleviare questo problema a medio termine. Questo significa che il Kossovo continuerà a dipendere dai flussi migratori per impedire che lo standard di vita peggiori. Questo, tuttavia, non è un problema inusuale: ci sono state migrazioni di massa per ragioni simili dalla Polonia, dagli Stati Baltici, dalla Romania e dalla Bulgaria verso altri paesi UE. E se pensiamo alla generazione precedente, erano i Greci, gli Spagnoli, i Portoghesi ad emigrare. Quello che rende il Kossovo un caso particolare oggi è lo straordinario sforzo da parte dell'UE di bloccare le migrazioni legali, e perfino la libertà di movimento. Questa non è una politica sostenibile, e prima l'UE troverà un modo per permettere migrazioni pianificate dal Kossovo, meglio sarà.

D. In cosa e come l'Italia potrebbe realmente contribuire al processo di definizione dello status e anche in seguito?

Caracciolo - L'Italia dovrebbe dichiarare di poter appoggiare solo una soluzione consensuale della disputa, dato che ogni altra "soluzione" non sarebbe tale. O meglio, l'Italia dovrebbe chiarire che non accetterà fatti compiuti di nessun genere. E che quindi proporrà sanzioni di vario genere contro chi intendesse compierli. In ogni caso, non mi pare che nel Parlamento italiano possa passare la ratifica dell'indipendenza unilaterale, perché non c'è maggioranza.

Del Re - Che l'Italia giochi un ruolo fondamentale nella questione del Kossovo è un fatto, perché fa parte del gruppo di contatto, si è impegnata sul campo con la Kfor, ha forti legami con la Serbia. E' un fatto anche che la presenza dell'Italia nei Balcani è estremamente significativa, da molti punti di vista, soprattutto nel settore delle piccole e medie imprese, nel settore bancario, con programmi di scambio culturale. Dal punto di vista della presenza politica invece, più volte, come ho già detto, siamo stati criticati per aver puntato sul basso profilo. Questione di stile, forse legata a un sistema paese che vede la politica estera non come una partita a carte tra potenze ma come un impegno di varie forze nella società. Ho sempre pensato che l'impatto che hanno avuto gli imprenditori, anche piccoli, in Albania fin dai duri tempi dell'inizio dell'era post-comunista, fosse immenso, a molti livelli. Imprenditori che hanno investito anche quando gli indicatori davano il paese come ad altissimo rischio per gli affari. Penso quindi che l'Italia possa contribuire sia in Kossovo sia in Serbia con la sua grandissima capacità imprenditoriale e in particolare, per quanto riguarda il Kossovo, nel settore finanziario e bancario, settore in cui ha avuto un enorme successo in Croazia, ad esempio. L'Italia ha sempre dimostrato grande apertura nei confronti della questione dei visti, e credo che sia ormai giunto il momento storico in cui la questione debba essere veramente appoggiata. Per quanto riguarda il ruolo politico dell'Italia, la capacità di mediazione interculturale italiana è ben nota e a questa faccio appello.

Remondino - Ad esempio la recente proposta di Sabino Cassese di una confederazione tra stati appare un segno di ragionevolezza nei buio di proposte di ieri. La stessa politica estera italiana attuale, sembra concretamente credibile. Il dire apertamente ai popoli del Kossovo dei problemi che ogni soluzione di forza creerebbe. Fare con le parti in causa un bel discorso, chiaro, sul "chi paga". La Serbia ritiene di poter mantenere il suo semi-isolamento europeo contando sui rubli russi? La parte albanese conta davvero sui dollari avari degli Stati Uniti? I cinque miliardi di euro che l'Unione europea valuta di dover investire annualmente in Kossovo per garantirgli un processo di sviluppo adeguato dovrebbero poter pesare sia a Pristina e Belgrado, sia a Washington e Mosca.

Knaus - La chiave è che l'UE che si concentri sia sulla questione dello status sia sulla creazione di condizioni perché la situazione post-status sia ottimale. In questo l'esperienza dell'Italia può davvero essere d'aiuto. Prendiamo ad esempio un settore economico che è stato un motore per la creazione di posti di lavoro in tutta l'Europa sud-orientale negli ultimi anni, ma che non è riuscito a svilupparsi in Kossovo: il settore tessile e dell'abbigliamento. Cosa dovrebbe cambiare in Kossovo per far sì che i produttori tessili italiani che hanno popolato in così alto numero la Romania e la Bulgaria cominciassero a prendere in considerazione anche il Kossovo? Una volta che la questione dello status verrà risolta, sarà la capacità di rispondere a queste questioni e di agire di conseguenza che determinerà quanto solida potrà essere la società post-status.

Vejvoda - L'Italia è il paese del gruppo di contatto più vicino alla regione dei Balcani, il paese che ha, in un certo senso, maggiore conoscenza, storicamente, della regione fin dai tempi della ex-Yugoslavia. L'Italia ha molti interessi economici, politici e altro nella regione, e quindi, per dirla in parole povere, penso che l'Italia dovrebbe progettare un ruolo più intenso e più visibile in questa fase finale. Vorrei fare riferimento alla lettera e alle affermazioni di Romano Prodi negli ultimi giorni, in cui ha proposto che l'Italia si impegni maggiormente nella politica dell'UE verso la Serbia come paese cruciale nella regione dei Balcani Occidentali, riferendosi alla necessità di candidare la Serbia e anche al bisogno di allentare il regime dei visti per adottare il cosiddetto regime dello Schengen bianco, per fare in modo che i Serbi possano viaggiare liberamente come gli altri. Questo è estremamente importante perché l'effetto psicologico positivo della liberazione dal regime dei visti avrebbe un impatto estremamente positivo sulla società serba nel suo complesso, una società che per molti anni è stata "rinchiusa". Vorrei ricordare che noi adesso abbiamo bisogno di un visto anche per entrare in Bulgaria o in Romania. In conclusione, vorrei incoraggiare il governo italiano, il Primo Ministro e il Ministro degli Esteri italiani a continuare a giocare questo ruolo fortemente attivo, così come l'Italia ha fatto in passato.

Gjini - Penso che l'Italia stia già contribuendo fortemente all'intero processo. Non dovremmo dimenticare che abbiamo l'esercito italiano nella KFOR, in ambito NATO in Kossovo. Gli Italiani hanno avuto molto successo nel Kossovo occidentale nello stabilizzare la situazione, nel mantenere la pace e la sicurezza. E' un sostegno importantissimo per noi, e un enorme input per l'intero processo. L'Italia si è dimostrata, con le altre potenze europee, in linea con la logica che ha portato avanti il processo finora. L'Italia fa parte del gruppo di contatto, e penso che quello che vorrei è che tutti fossero più espliciti. Sono un kossovaro, voglio l'indipendenza, vorrei dunque che tutti fossero espliciti in merito. Penso che l'Italia sia stata abbastanza esplicita a sostegno della soluzione, perché crede, come noi crediamo, che quella soluzione farà sì che in breve tempo, o perlomeno nel più breve tempo possibile, si abbiano dei Balcani Occidentali normali, in cui i paesi che ne fanno parte cominceranno a sviluppare relazioni tra loro e cominceranno ad avvicinarsi all'UE insieme.





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