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GNOSIS 3/2007
STORIE DI CASA NOSTRA

Il 'Prefetto di ferro' che umiliò la mafia


articolo redazionale

Il racconto trae spunto da alcune note biografiche del Prefetto Cesare Mori che consentono di immaginare ed esplorare, in trasparenza, da una parte l'evoluzione e il radicamento della presenza mafiosa in Sicilia e dall'altra le aspettative, i disagi e le contraddizioni degli attori delle prime esperienze antimafia sia a livello di polizia che a livello politico strategico. Sono suggestioni di fantasia che recuperano testimonianze dirette del Prefetto* e mimano pensieri che avrebbero agitato gli operatori anticrimine del tempo, anche rispetto all'esperienza del “Prefetto di ferro” negli anni '20. Non casuale è, pertanto, la scelta di chiudere il racconto con la pubblicazione del telegramma con il quale Benito Mussolini “liquida” il suo rapporto con Mori.
(foto da http://mnemonia.altervista.org/)

Il Prefetto sa di aver perso e di non aver tempo per una rivincita. Distesa sulla sua vecchiaia, sembra ancor più breve la sua statura.
Spezzata da tante amarezze, logorata da troppe orme, quasi a consumarla. Il Prefetto non se ne duole.
Sa bene che l'importante è combattere, fare il proprio dovere.
La sua vita è stata un rosario di sconfitte, eppure ogni volta che è stato rimosso e messo a riposo, nella muffa della memoria, è stato poi richiamato a più alti allori.
Certo, il suo è stato un peregrinare tra barricate e ferite purulenti, faticoso e compromettente. Ma ciò non ha mutato il suo sentimento della vita.
Non ha smesso di restare dritto contro le avversità, pronto ad ogni richiesta da rimettersi in gioco.
"Lo Stato ha bisogno di te!" Ogni volta la stessa perentoria gratificante illusione.
I governanti di turno hanno interpretato con la stessa urgenza la necessità di estirpare il male che infetta di volta in volta il patrio suolo.
A Ravenna, Trapani, Bari, Roma, Firenze, Bologna e Palermo si è scontrato come una tempesta su anarchici, repubblicani, squadristi fascisti, criminali vestiti da attrici o da sindaci e soprattutto… con la mafia.
Quella mafia bandìta e cercata, sporca di zolla o profumata di salotti, scritta con il sangue o su fogli elettorali….
Mafia che gli è sembrata, da giovane a Castelvetrano come nella vecchiaia famosa palermitana, un bubbone fetido che può essere curato ma che, quando si va in profondità, svela legami parassiti diffusi in tutto il corpo della società.
Lui il bisturi l'avrebbe voluto usare, convinto che tagliando le parti malate con decisione, il corpo sarebbe guarito. Dopo una lunga convalescenza, certo, ma avrebbe acquisito un vigore nuovo.
Eppure…
Chi lo ha armato, ha provveduto sempre, sistematicamente, anche a togliergli il fucile, quando la mira s'avvicinava troppo alle finestre del potere.
Nonostante ciò, lui ogni volta ha accettato la scommessa e i rischi, nei conflitti a fuoco mortali come nelle sedi di movimenti e finanche nei salotti eleganti dove le parole danzano al passo del tradimento.
Ricorda bene la principessa amica e amante di un quadrunviro del fascio, che nelle pause dei suoi intrallazzi tesseva le spesse reti che lo imbrigliassero. La immagina ancor ora mentre le sue delicate mani librano in alto il calice allegro per festeggiare l'allontanamento dell'odiato Cesare Mori.
Come molti, come troppi.
"L'uomo di valore può raggiungere l'unanimità dei dissensi. L'unanimità dei consensi è riservata al fesso integrale cronico" continua a recitare, più una consolazione che una speranza. Non si è mai sentito un fesso. Ha cercato sempre, invece, di essere e di apparire un uomo con il valore dell'onore.
Delle avversità non si è mai crucciato, il Prefetto.
Avvezzo alla malasorte. Da sempre.
Chino sulla croce dei ricordi, balbetta tra sé e sé.
"Sono nato nel tradimento, ma me ne sono nutrito così a buone dosi e dall'inizio che ne ho ridotto l'effetto."
Il Prefetto insigne l'ombra di un dolore sordo che viene da lontano.
Non era stata sua madre a lasciarlo dopo il parto sulla ruota di legno pavese che accoglieva gli indesiderati? Era stato accolto dalla pietà burocratica del brefotrofio, per sette anni in, anticamera del suo futuro in caserma. Era stato battezzato Primo Nerbi forse proprio le mani femminili che lo avevano lasciato e tradito lo avrebbero poi ripreso, legittimandolo in una realtà familiare di rispetto in un matrimonio che sanava il peccato originale.
Così, anche se rivestito e rinato in Cesare Mori, non avrebbe potuto stupirsi oltre della risacca d'amore e di consenso che la vita riserva agli uomini, discontinua traiettoria, avanti… indietro…in alto…poi giù…di nuovo in alto… gioco della luna sull'afra salsedine della marea, destino della sua professione, ineluttabile percorso dell'antimafia.

L'Eccellenza in pensione accavalla le gambe corte, disegnando una giostra nel vuoto, davanti alla poltrona.
I suoi baffi sorridono, annegando nella malinconica rabbia senile.
Davanti a lui un Capitano dei Carabinieri Reali, di altra epoca e di incerta età.
Di quel tipo di sbirro che invecchia precocemente di fatica e poi ferma gli anni in una vecchiezza vispa. La sua presenza lo turba, fa decantare i ricordi e riemergere una pena a lungo celata ma mai sopita.
""Eccellenza, mi trovavo a Venezia e non potevo non venire a Udine a trovarla. Come è diverso qui il clima dalla nostra Sicilia…"
Non rivede da tempo i suoi "soldati" e gode della inaspettata visita di quel muto collaboratore, con cui ha consumato gli stivali nelle regioni aspre della Sicilia, a Ganci, Corleone, tra i sassi delle Madonie.
Lo ha conosciuto quando comandava le squadriglie miste di poliziotti, carabinieri, vigili e forestali, contro il brigantaggio dei renitenti, nel trapanese. In quel 1915 in cui le trincee al fronte alpino erano l'incubo dei giovani siciliani fuggiaschi tra i monti e pronti ad alimentare le bande criminali.
Sino a quando, dopo Caporetto, quando ancora il Piave era chino silenzioso e sconfitto, lo mandarono a Torino, centro delle insurrezioni. Dove le sue mani dure e legnose servivano ad arginare la rivolta tra le pareti annerite delle fabbriche.
Lo rincontrò a Palermo, dieci anni dopo, quando la sua vita ha ripreso ancora il corso d'onore, dopo una pausa lunga e rancorosa.
"Te li ricordi, Capitano, quei giorni di ubriacatura, di sudore e di speranza?"
"Eccellenza, se mi permette, non tutti erano felici, allora. Certo, io gioivo. Nelle terre di mafia tra gli sbirri si crea uno spirito di guerra, una sorta di fratellanza, perché si dividono la paura, le frustrazioni ma anche i successi. Lei ci ha fatto sentire una schiera, senza più le distinzioni tra poliziotti o Reali Carabinieri … militi, vigili, forestali… tutti dietro di lei… Ma dopo sparatorie, ferimenti, marce logoranti… dopo quella che lei chiama ubriacatura…. Dopo cosa c'è stato? Vuole sapere cosa è successo quando è andato via da Castelvetrano? Ci nascondevamo. I mafiosi arrestati sono usciti molto presto, pavoni davanti ai nostri uffici. Con l'aria di perseguitati che finalmente possono urlare non solo la loro innocenza ma soprattutto la colpevolezza di quegli sbirri fanatici che se la sono presa con i galantuomini. Mi hanno messo in un ufficio. Dovevo nascondermi.
Non gli piacciono discorsi del genere. Preferiva astenersi dall'esprimere giudizi su di una vicenda che scoloriva, se non inserita nel suo originario contesto. E' facile, ha sempre pensato, è facile giudicare lontano da quei tempi urgenti, bellicosi, folli come folle è ogni guerra. Violenti perché esasperati dall'ineguatezza di ogni civile sfruttamento allo scopo.
Tutti voleva dimenticare. Noi, perché disarmati e senza più onore. Loro, i mafiosi, perché quando uno si sveglia vuole dimenticare gli incubi.

Lei ci ha svegliato. Ha rigettato noi e il nemico nell'ansia di nuove battaglie.
Lei è ritornato a Palermo, Prefetto con poteri speciali. Per questo avevamo ancor più paura temevamo si ripetesse la triste esperienza. Con il senno di poi, non ci sbagliavamo.
Il Prefetto è assorto, parla sommesso:
"Io avevo la stanchezza di Bologna addosso. Ancora non smaltivo la rabbia di quegli squadristi fascisti che davanti alla prefettura cantavano, con la melodia di "me lo dai quel fazzolettin", destinato ad altre promesse e a sensuali approdi, le parole assassine:

"Mori Mori
Tu devi morire
Con quel pugnale che abbiamo affilato
Mori ammazzato tu devi morir"


Dopo la marcia su Roma, quel teatrino disarmato che ha innescato i falsi tempi di oggi, i nuovi capi non potevano tollerare un Prefetto che aveva usato le maniere forti con gli squadristi che imperversavano… Così mi hanno messo a riposo…"
Il Capitano sorride:
"Ma l'hanno richiamata, quando il Duce si è accorto che avrebbe dovuto dividere il potere in Sicilia con la mafia. Gira ancora una storia, non si sa se sia vera ma è sicuramente probabile, che a Piana dei Greci il boss don Ciccio Cuccuia abbia detto al Duce che era inutile la sua scorta perché alla sua sicurezza avrebbe provveduto lui stesso.
Toccato sulla scorza dell'Ego supremo, ha preso a cuore il destino di quella Sicilia" in cui il Duce si sentiva ospite, un protetto! Deve però aver avuto ben presente la difficoltà dell'impresa, se con ironia il Duce si domandò se lei fosse capace di usare con la mafia le maniere forti adottate con i " suoi squadristi".
Il Prefetto apre il cassetto della sua scrivania "senti cosa scrive il Duce: Vostra Eccellenza ha carta bianca, l'autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problemi, noi faremo nuovi leggi "
Non ero io di "ferro". Era lo Stato. Cosa fare quando interi paesi, forse un tempo ostaggio dei mafiosi ma progressivamente sempre più complici, ti sono ostili? Quando proprietari terrieri, gabellotti, commercianti, imprenditori, amministratori, tutti fanno sistema? Un sistema che aliena lo Stato?
Certo, i filosofi scomodano ogni avvedutezza giuridica, ogni fattore di giustizia, di regole.
Bastano? Sono bastate? Se non avessi imprigionato donne e bambini, entrambi vedette e vivandieri, come avrei spezzato quel cordone ombelicale che alimenta i mafiosi latitanti? Se non avessi assediato … bada bene, assediato … cioè esisteva un "noi" fuori e un "loro" dentro, nemici sino alla morte … dunque se non avessi assediato o affamato, tu pensi che i boss sarebbero stati arrestati?
Il Capitano abbassa gli occhi. Sente la zavorra dei ricordi opprimergli il petto.
"Eccellenza, tante volte ho provato vergogna. Abbiamo compiuto azioni di guerra come fossimo in un territorio straniero.
Io sono siciliano. Di Corleone. Quando l'ho seguita, anche sulla terra in cui sono cresciuto, ho avuto la percezione che la stessi occupando, per conto di un esercito lontano".
Io, come i miei uomini, abbiamo compreso dove ci stesse portando. Dobbiamo salvare l'isola, ci ripetavamo. Eppure talvolta ci siamo sentiti strumenti nelle sue mani. Sotto i nostri passi, le pietre delle Madonie non risuonavano… non ci riconoscevamo….
Il prefetto si alza dalla sedia. I suoi occhi si stringono, nervosi, come a misurare meglio le parole…
"Per conto dell'Italia. L'Italia risorgimentale, unitaria. Né straniera né lontana. L'Italia dell'intero "stivale", dei contadini, dei mezzadri, dei proprietari….degli onorevoli.
Che terra ho trovato?
Lavoratori sfruttati, proprietari vessati o collusi rispetto ad un sistema criminale che si legittima attraverso l'utile comune.
Soggetti istituzionali che cercano consensi o protezione riconoscendo e rinforzando il ruolo mafioso a danno degli apparati dello Stato.
Come restituire quelle belle terre al Re? Con quale metodo congruo? Si … congruo?
Perché parate, belle parole, intenzioni e promesse se ne possono propinare quanto e più appaia necessario. Ma in concreto?
Potremmo moltiplicare i delegati di polizia, carabinieri o l'esercito ma la sola presenza diventa un'icona. Ci vuole dunque un'azione sicura, massiccia e diffusa per estirpare "senza se e senza ma" la mala pianta, anche rischiando che si spezzi qualche ramo sano …"
Ne è convinto il Prefetto, se avesse potuto, avrebbe stretto tra le sue mani Scilla e Cariddi per fonderle e inchiodare l'isola al continente.
Lui che è sembra stato abituato a folli rincorse verso l'impossibile. All'esercizio della forza, a scelte dure. Come quando aveva lasciato l'esercito, dopo l'accademia di Torino, in segno di ribellione, perché secondo il regolamento non avrebbe potuto sposare la sua Angiolina, priva di dote ma ricca d'onore.
Così era entrato in polizia.
Sempre pronto a inseguire una chimera e mirare al fine senza preoccuparsi troppo del mezzo, del come raggiungerlo. Disposto a pagare conti salati.
Gli bruciava la sconfitta?
No. Quando non dipendeva da lui, ma dal contesto malato delle istituzioni, che non gli permettevano di terminare l'opera iniziata. Per questo era sempre pronto ad iniziare di nuovo, ad accettare sfide ardue come l'antierversione o l'antimafia. Era come se riprendesse un discorso lasciato a metà…
Confidava, questo sì, di arrivare se non a risolvere il problema, almeno a comprendere i suoi aspetti invisibili e più pericolosi.
E' facile, ha sempre pensato, coprirsi di gloria con bollettini di arresti, di assedi risolti, di assassini scoperti.
A lui non è mai bastato, anche se ne ha goduto ampiamente.
Ha preferito impersonificare lo Stato, così da avere il coraggio, e spesso l'ossessione di amputare le sue parti compromesse con il nemico.

Il Capitano guarda con infinita malinconia il suo vecchio capo. Sa bene che neanche la morte potrà scalfire le sue convinzioni. Ne ha sempre apprezzato la coerenza, rigida, ineluttabile. Non stimava la deriva personalistica eccessiva.
Come le sfilate sotto gli archi a mò di trionfo romano, con i prigionieri incatenati, novelli barbari, le pose davanti al fotografo o al giornalista, il fucile ditro le spalle e l'ansia di cacciatore di taglie.
Sbotta infine:
"Lei pensava di essere il Duce della Sicilia. Lei ha commesso, forse, quest'errore. Il Governo la invia sull'isola per restituirla all'ordine nazionale, contro il potere mafioso. Ma lei impone un ordine e un potere troppo personale, troppo marcato, che facilmente diventa ostile sia alla mafia sia al Governo. Soprattutto quando entrambi, poi, sembrano corrispondere e condividere interessi che lei vorrebbe colpire.
Se le ricorda le retate? Il capopattuglia ammanettava l'arrestato e recitava la sua formula: per ordine di S.E. il Prefetto Mori, vi dichiaro in arresto. Era Lei, l'ordine da eseguire. Era lei, lo Stato. A Corleone ha chiuso quei circoli agrari che erano covo dei "fratuzzi", ma che si erano fascistizzati, aderendo al PNF, così da avere copertura. Lei ha arrestato i soci e li ha condotti in Piano del Borgo, in attesa di essere trasferiti all'Ucciardone. Doveva aspettarsi che, non bastando donne bambini, a fermarli, avrebbe fatto ricorso a scudi politici, alla protezione dei suoi stessi committenti. Su quegli scudi ha battuto la testa incurante del rumore tetro che provocava. Su quegli scudi ha perso la guerra, perché non si è accorto che lei combatteva contro se stesso.
Mori si alza, breve e incanutito.
"Io ero lo Stato. Chi altri? L'onorevole Cucco o il generale Di Giorgio, espressione del Parlamento Italiano e parimenti della mafia? Chi altri? Quale Prefetto si è arrischiato in prima persona a capire e combattere sul terreno il nemico? Chi ascoltava confidenti e pentiti? Chi ha arrestato latitanti, boss e briganti? Chi ha osato scavare nelle pareti bianche del palazzo del potere?
A Ganci chi c'era a rastrellare e raccogliere oltre quattrocento mafiosi? Chi?
Con quel nemico la prima cosa da fare è ripulire dalla feccia il territorio.
Feccia visibile, che si ostenta.
Tutti sapevano chi fosse il mafioso. Io l'ho arrestato fosse anche solo perché ne ero convinto io stesso.
Nella giungla si va con il macete, altrimenti si muore!
Poi … certo …avrei dovuto e potuto mirare più in alto. Perché quella di cui parlano in Parlamento come nei giornali, etichettandola mafia, è solo brigantaggio, banditismo radicato e aggressivo, anche se intelligente, talvolta.
Ma facilmente arginabile, se non fosse legato alla mafia, che è altra cosa.
Mafia. E' quella rete che ora si va formando con boss, gente di rispetto, imprenditori e … perché no?…Anche ospiti dei Palazzi nazionali e locali. Di quella rete che ho intravisto sono vittima.


da www.carabinieri.it/

Puoi arrestare, uccidere, distruggere ogni cosa per fronteggiare il crimine che si vede, si sente, che è certamente altro da te e da chi rappresenti.
Quando, però, intacchi la tela sottile, in cui i nodi spesso sono tra di noi, nello Stato, allora s'alzano cori stupìti, offesi, pronti ad ogni censura. S'accordano Procure, Stampa, Governo, Associazioni. L'acqua s'intorbida, non ne cogli più il fondo, non si distingue il bianco dal nero e rischi di essere tu il mafioso …".
Il Capitano si sente vecchio. A disagio, davanti al suo vecchio Prefetto, perché all'affetto subentra quella saggezza critica conquistata dalla sola esperienza.
"Eccellenza. Ho pensato tanto a quegli anni eroici. Ho pensato alla mafia, soprattutto quando è sembrato che avessimo sbagliato tutto. Gli arrestati, liberati. Gli inquisiti eccellenti, su scranni ancor più importanti. Eppure alla fine, mi sono sempre ripetuto che la mafia è contro lo Stato.
Non si può combattere se non con armi speciali, spesso tanto eccezionali da parer esse stesse illegali.
Però proprio l'eccezionalità, spesso, quella smodata … insomma la sua … ha in seno il veleno che la uccide.
Sul piano militare è stata una guerra come sul fronte. Senza, però, regole militari.
L'asimmetria della mafiosità che colpisce proditoriamente al cuore di uno Stato inerme e limitato nella reazione deve essere affrontata stabilendo una parità tra i contendenti. Lei ha restituito la simmetria della violenza, adottando talvolta logiche "illegali". Lì, in quei momenti così urgenti, in quelle terre contaminate che contagiano con il morbo della loro violenza, io ho negato a me stesso il pensiero che lo Stato non può derogare dai principi sani, che lo Stato non dovrebbe affermare i suoi valori con azioni che li rinnegano.
Bastava un anonimo, spesso scritto da lei stesso, per mettere "dentro" qualcuno.
Presumendo e interpretando i fatti a modo suo, ha creato castelli di carta, facili da smontare.
Inoltre … lei ha pensato e operato da soldato, ma senza pensare agli armistizi possibili, alle alleanze sottese, ai matrimoni d'interesse tra ideologie e gruppi sociali diversi.
Su quel piano, essenzialmente politico, ogni antimafia barcolla.
Senza contare che, mi scusi Eccellenza, ma i successi in questo campo sembrano alienare dalla realtà e spingere verso crociate non giustificabili, verso spirali di sempre maggiori violenza, di un'onnipotenza ostentata quale detentrice della unica e suprema verità.
La Sicilia, forse, aveva bisogno più di Stato e meno di Cesare Mori".
Il Prefetto ora sorride.
"L'ho pensato anch'io tante volte. Ma la mafia è una brutta bestia. Quando sei convinto di averla battuta, allora si rigenera da un seme superstite, come araba fenice.
Ogni discorso appare giusto o ingiusto, serio o banale. Sulla mafia è vero tutto e il suo contrario. Per questo non finirà. Per questo l'antimafia andrà avanti grazie a soggetti che s'arrogheranno il diritto di capirla, imponendo una visione unitaria del fenomeno, inducendo comunque a compiere un passo, foss'anche sbagliato, ma sempre migliore di quel vagare in tutte le direzioni senza ambire mai a una tappa.
Ma costoro, come me, saranno soli, censurabili e censurati quando è finita la loro stagione.
Si dirà del loro personalismo, dei mezzi smodati, delle garanzie sospese.
Magari tutto ciò avrà anche una ragione, ma quei soggetti, per loro stessi, per il credito politico momentaneo, segneranno l'avanzata dell'antimafia.
Anche loro … come me … alla fine … saranno vittime sacrificali sul piatto di chissà quale avvenente Salomè.
Caro Capitano, i discorsi del Duce sulla mafia, i titoli dei giornali su di me, sul mio siluramento con la nomina a Senatore a vita che tanto ci addolora, svaniranno presto.
L'Italia dimenticherà questa beffa. Rimarrà qualche tronfia affermazione fascista di aver debellato la mafia, come i giornali di partito sanno recitare a memoria. Ma il resto sparirà. Perché altre beffe si consumeranno. Altre vittime. Altre tragedie. Altre promesse tradite. Altri eroi postumi, isolati e calunniati prima e incensati quando non potranno più nuocere. Questa é e sarà la storia della mafia e dell'antimafia.
Ora sono stanco. Il clima di Udine non mi fa bene. Né le notizie di questa stupida guerra che incede rapida verso la disgrazia…Peccato. Forse se non ci fosse stata questa guerra, avrei potuto sperare di ritornare in Sicilia, magari per il rinfocolarsi di qualche fenomeno criminale. Ma lo Stato, oggi, è distratto. La mafia è un'emergenza solo quando non ve ne siano altre, più colorite ed evidenti ...
Il Prefetto sente il peso della sua vita ingombrare il cuore e affaticarlo troppo.
Il Capitano si sente responsabile di quel tormento si alza chinando il capo con affettuoso ossequio e con voce misurata riprende:
"Eccellenza, sia certo che se non la ricorderanno gli atti ufficiali e la Storia, la mafia non la dimenticherà".
Sa che ho saputo? Che i boss che sono fuggiti in America, gridando vendetta contro di lei, si sono subito inseriti nella mafia italiana che controlla i traffici di quel continente. Torneranno. Più forti di prima.
Io in America non ci sono mai andato.
Ma oggi, dalla Sicilia, parte gente che non è povera e manda dollari anche a chi non ne avrebbe bisogno … insomma, sui metodi, Eccellenza, ancora ho qualche rimorso.
Ma aveva ragione lei …"
Il Capitano soffoca in gola un rantolo di pietoso affetto … poi continua….
"Sa … mio figlio, oggi è un delegato di PS. Un po' grazie a lei, sa quanto le ha voluto bene, quando voleva seguire l'esperienza… Lui ha i nostri giovanili bagliori. Per caso … Eccellenza … ha sentito dire … gira voce … che qualcuno si sta occupando di lei … perché avrebbe detto del Duce: Quel caprone non ha capito che ha perduto la guerra prima di cominciarla. E' possibile che, come al solito, cerchino di colpirla per altri motivi ma essenzialmente per intimidirla e allontanarla da ogni questione relativa alla mafia. D'altra parte non c'è di che stupirsi l’hanno fatto in Parlamento in modo chiaro, diffidandola dal trattare di Sicilia. Però, per debito d'affetto, mio figlio m'incarica di abbracciarla e di dirle che anche l'OVRA le è vicina…".
Il Prefetto si avvicina a quel collaboratore, oramai vecchio come lui.
Ricorda il Duce, quel famoso giugno nel suo studio largo e inutile, troppo lontano da Palermo, quando lo invitò a non cercare più negli archivi giudiziari. Doveva chiudere la "faccenda mafia". Fece appena in tempo a rientrare in Sicilia. Arrivò la nomina a Senatore, il trasferimento e i ringraziamenti ormai solo formali, sebbene vergati a penna.
Da allora la solitudine è diventata una voragine che rende il Prefetto sempre più piccolo sino a perdersi.
Nemmeno la sua biografia, tanto censurata dalla critica di regime é riuscita a dargli respiro.
Ora, davanti al Capitano, quella solitudine s'animava di un vecchio sorriso.
"Caro Capitano, io sto bene. I due si abbracciano. Il Prefetto sussurrra al Capitano nell'orecchio, vezzo di inusitata confidenza: La ringrazio … non si faccia pena, … non mi pesa la vita, …non mi oltraggia la solitudine. La misura del valore di un uomo è data dal vuoto che gli si fa d'intorno nel momento della sventura".


Archivio Centrale dello Stato, Ministero Interno, Prefetti, 1916-1942


* Lo scritto riportato in corsivo è tratto dal testo di Cesare Mori " Con la mafia ai ferri corti", Flavio Pagano Editore.

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