GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 3/2006
Le ideologie nel terzo millennio

I movimenti dopo le utopie


Pio MARCONI

L’inizio del nuovo millennio ha provocato un deperimento dei grandi progetti di alternativa alla società presente. Il fenomeno riguarda sia i movimenti di contestazione sia la politica dei governi. Il saggio che proponiamo prende spunto da alcune recenti pubblicazioni per proporre una riflessione sul senso che assume il rifiuto di costruire nuovi modelli di società. L'assenza di utopia è motivo di riflessione anche nei movimenti alternativi. Una politica delle piccole cose, dei programmi minimi può essere utile come antidoto delle grandi teorizzazioni successive al 1968 ma rischia anche di non rappresentare diffusi bisogni sociali. L'eclissi delle utopie dovrebbe rendere più facile il governare ma spesso riduce gli stimoli alla innovazione e rende impossibile la formazione del consenso.


foto ansa


Le due utopie

Paul Berman ha condotto, in un’opera del 1996, oggi ampliata e riproposta con una analisi sull’Italia degli anni ’70, una ricostruzione del ritorno delle utopie nella seconda metà del Novecento (1) : un ritorno che ha coinvolto sia l’Occidente della razionalità capitalistico/mercantile, sia le società industriali pianificate dell’Est europeo e dell’Asia, sia il Terzo Mondo, in via di sviluppo, in aspro conflitto, ancora connotato dalla presenza di fedi che guidano la progettazione sociale e la gestione della politica o che le contestano. Si tratta di una ricostruzione di storia di idee, culture e controculture svolta con toni modesti e apparentemente di pura cronaca, ma non priva di spessore teorico e capace di introdurre elementi nuovi nell’interpretazione del XX secolo. Fanno da sfondo al lavoro di Berman, arricchendolo, le grandi teorie di Karl Mannheim e la contrapposizione, operata da questo studioso, tra ideologie ed utopie.
Per Mannheim, utopia è un progetto di organizzazione sociale contrapposto all’ordine presente, “inattuabile dal punto di vista di un ordine sociale già affermato” (2) (cioè realizzabile nel quadro di un cambiamento della struttura sociale) mentre le ideologie rappresentano messaggi fallaci/inefficaci (3) . In aggiunta il lavoro di Berman è anche una risposta a quelle analisi del ‘900 che lo definiscono come teatro quasi esclusivo di ideologie (4) , come secolo caratterizzato da scontri di idee orientate a giustificare la conquista e il mantenimento di poteri assoluti o totali.
Nel ‘900, soprattutto nella parte iniziale e finale del secolo, si intrecciano, con ripetuta alternanza, ideologie e utopie, propaganda etica e modelli di società alternativa al presente. Con gli anni sessanta, in particolare, sempre secondo Berman, le ideologie vengono alterate o distrutte da una potente iniezione di utopia. Una utopia che non si manifesta come illusione disarmata ma che appare capace nel tempo di operare grandi trasformazioni, anzi di garantire cambiamenti inaspettati o impossibili ponendosi dal punto di vista esclusivo dello stato di cose esistente, della realpolitik e delle rappresentazioni “di parte” della società e del conflitto politico.
Il carattere anti/ideologico e non/ideologico delle utopie del 1968 lo si vede nel potenziale dirompente che esse hanno. La costruzione di una nuova società modellata in quel crogiolo utopico mina, alle fondamenta, tradizionali visioni del mondo. La spinta alla libertà e alle eguaglianze, affrontando questioni sino ad allora inesplorate (le eguaglianze di etnia, di genere e di generazione), vulnera una ideologia del socialismo ristretta alle conseguenze sociali della produzione capitalistica.
Per questa ideologia l’ineguaglianza si manifestava soprattutto o soltanto nel teatro della fabbrica: non in quello della società, della scuola, della famiglia. L’utopia dell’eguaglianza forgiata in quei mesi e in quegli anni colpisce anche un aspetto ideologico del pensiero liberale: la pretesa che la competizione nel mercato favorisca, anche senza introdurre forti modificazioni delle norme fondamentali e del costume, una eguale distribuzione di opportunità nell’ascesa sociale. Il sistema di utopie del 1968 ferisce gli equilibri politici delle democrazie dell’Europa occidentale ma è dotato di una forza capace di superare i tradizionali assunti di campo e le ideologie che avevano ammantano le posizioni in conflitto. Il difetto di libertà è visto sia nei paesi dell’Occidente, nei quali alla libertà economica non si accompagna eguaglianza nel lavoro, nella competizione, nel costume, nella scuola, nella famiglia, sia nei regimi dell’Est nei quali in nome di una parvenza di eguaglianza materiale si comprimono le basi della democrazia e si sottopone la società al dominio di una casta burocratica.
Scrive Berman che “intorno al 1968, un’esaltazione utopica serpeggiò nell’universo studentesco, e anche in molti universi adulti” (5) . L’esaltazione fu generata dall’irrompere di eventi grandiosi: “quattro enormi rivoluzioni stavano agitando il mondo in contemporanea” (6) .
La prima fu una rivoluzione delle culture, fatta di proteste, di contestazione delle autorità, di integrazione - nella società civile e poi in quella politica - degli afro americani, di rottura con le discriminazioni di genere e con la censura di alcune identità sessuali. I temi della prima rivoluzione furono quelli della eguaglianza e della parificazione dei diritti, in un mondo che raccomandava la competizione per il successo, che privilegiava il merito, che predicava l’innovazione, ma che legava i destini personali allo status (famiglia, cittadinanza, etnia, genere) e al rispetto di codici di etica orientati alla conservazione sociale.
La seconda fu una rivoluzione dello spirito, fatta di nuove ricerche sulla religiosità, sull’essere, sul senso dell’agire, sulla meditazione (7) . La nuova spiritualità trovò per Berman espressione non solo nei mille rivoli che conducevano al mare della religiosità irrituale (la riscoperta delle religioni orientali, la diffusione del buddismo, la cultura della preghiera, il nuovo sincretismo, le fedi ereditate dal passato e quelle create nella modernità, le conversioni di massa a religioni non tradizionali) ma anche nella istituzione religiosa più centralizzata: la chiesa romana. Un sintomo nuovo qui è visto da Berman nel Concilio Vaticano II, nel sorgere di nuove teologie, nella redazione dei nuovi catechismi cristiani.
La terza fu la rivoluzione mondiale contro l’imperialismo occidentale. Negli anni sessanta, “si rafforzò l’impressione che i movimenti di liberazione marxisti leninisti fossero in grado di trionfare in qualsiasi sperduto angolo di mondo contadino, che le superpotenze occidentali non potessero farci un bel nulla, che la follia high-tech della civiltà occidentale avesse trovato la sua nemesi” (8) . Anche qui un processo di modernizzazione oltre che di liberazione. I movimenti politici del Terzo Mondo si ammantavano di un linguaggio marxista per giustificare lo scontro con il potere imperialistico. Ma oltre a ciò affermavano la inconciliabilità dei colonialismi, vecchi e nuovi, e di ogni tipo di subordinazione di nazioni in un sistema di scambi che per essere efficace ha bisogno di svolgersi sui piani della parità e dell’eguaglianza.
La quarta rivoluzione avveniva su di un altro fronte e cominciava a minare i totalitarismi dell’Est europeo e le costruzioni del socialismo realizzato. “La possibilità che movimenti di sinistra si ribellassero attivamente contro il comunismo di stampo sovietico e che potessero addirittura abbattere le tirannie di stampo sovietico diventò improvvisamente una realtà a Praga. Sia pure per un breve momento, la sconfitta del comunismo divenne, per la prima volta immaginabile” (9) . La caduta dei regimi dell’Est non si profilava come il frutto della guerra fredda, dell’isolamento dell’impero del male, ma come conseguenza di una insorgenza, di popolo e di élites, dotata di forti coloriture utopiche.
Lo spirito del ’68 delineava per Berman una complessa società caratterizzata da un forte desiderio di liberazione e legata inizialmente a culture politiche che contestavano sia la moderna economia di mercato sia le istituzioni rappresentative che lo avevano tradizionalmente accompagnato. La nuova società non sarebbe stata quella della competizione degli interessi e della separazione tra politica ed economia, coronata dal sistema liberale rappresentativo, ma una società nella quale politica ed economia dovessero fondersi e nella quale il controllo delle decisioni venisse esercitato dal basso. “Sarebbe stata una società di democrazia diretta, con caratteristiche rustiche (stile Terzo Mondo), raffinate (stile Cecoslovacchia), anarchiche (stile consigli operai), o permeata di controculture (…) in ogni caso mirabile” (10) .
L’analisi di Berman prosegue con la descrizione di un nuovo pensiero utopico che si manifesta dopo il ’68: utopie dotate di una forte carica dirompente che recuperavano i fondamenti della politica liberaldemocratica moderna cambiando in parte i punti di riferimento delle utopie che le avevano immediatamente precedute. La democrazia liberale prima elusa o demonizzata è ora vista, non solo nei paesi dell’Est ma anche nelle metropoli dell’Occidente europeo, come dotata di un carattere innovativo/dirompente.
Alle vecchie idee di cambiamento radicale dell’ordine sociale e di democrazia diretta, si sostituirono nuove idee dotate di un eguale spinta utopistica. “Ci fu la versione francese (il cui avvio fu agitato dal movimento dei nuovi filosofi); la versione del blocco orientale (con gli studenti socialisti del 1968 che, scontando gli anni di galera, si erano trasformati in dissidenti liberali sostenitori dei diritti umani)” (11) .
Dall’aspirazione alla democrazia diretta questa nuova costruzione utopica passa all’apprezzamento della democrazia rappresentativa, in diverse versioni: socialdemocratica o liberale. Molti fra quanti avevano sostenuto l’utopia egualitaria, osserva Berman, passano poi a scoprire la necessità di una rivoluzione liberale e democratica. Due atteggiamenti diversi dotati di una medesima carica di utopia. “Con l’irrompere di rivoluzioni liberali in svariate regioni, dal Mar Baltico al Sud Africa (…) la vecchia speranza di riorganizzare il mondo su basi completamente nuove e infinitamente più democratiche (…), la speranza e il sogno proibito dell’utopia sembrano ancora una volta accarezzabili” (12) .


Progetti e poteri

Nel maggio francese del 1968, l’immagination au pouvoir era stato uno degli slogan più diffusi, capace di produrre effetti duraturi sull’opinione pubblica e di suscitare allarme nel mondo politico. I movimenti chiedevano alle istituzioni pubbliche, alle forze politiche, ai poteri economici, alle organizzazioni del lavoro, un ritorno al progetto, una rifondazione dei motivi profondi della coesistenza tra individui, un ripensamento radicale dei rapporti sociali, una nuova definizione degli spazi per i conflitti e della natura dei conflitti. In alcuni casi l’appello era rivolto direttamente al popolo o alla “classe”, nel presupposto che le rappresentanze tradizionali fossero state incapaci di eseguire i mandati loro conferiti. Chiedevano che si definisse dove andare e come andarvi, per animare una nuova stagione di impegno politico, per controllare il senso di alcune conquiste definite di portata storica, per edificare un mondo nuovo che non potesse degradare a mondo antico, cadente, usurato, per evitare che la rivoluzione provocasse ad opera dei suoi stessi attori la più oscura delle controrivoluzioni. L’utopia voleva animare la rivoluzione ma impedirne il tradimento.


da www.mediasessantotto.net

Le due utopie descritte da Berman esprimevano una contestazione degli equilibri sociali, politici e culturali esistenti, suscitavano forti reazioni da parte di istituzioni, partiti e Stati (sia burocratiche sia democratiche, sia delle maggioranze sia delle opposizioni, sia dell’Ovest sia dell’Est). I movimenti sembravano voler travolgere, con un nuovo desiderio di ricostruzione, tutto quanto fosse esistente.
Le due utopie che si manifestarono tra gli anni sessanta e gli ottanta erano in grado di dialogare, non solo a distanza, con i poteri. Dialogo fatto di aspre sollecitazioni al cambiamento, in alcuni casi di scosse capaci di indurre il crollo di possenti personalità od edifici politici.
I temi che le alimentavano erano ricavati da teorie e principi che stavano alle origini della politica e della società moderna: la secolarizzazione, la responsabilità individuale, la separazione tra Stato e società civile, l’autonomia dello Stato dalla religione, l’autonomia dell’individuo nella ricerca della verità (etica, scientifica, sociale) e nella creazione artistica. A un ceppo di teorie forgiate nell’avvento della società moderna, si univa la radicalità degli obiettivi, definibili sia nello spazio sia nel tempo. L’utopia disegnava progetti capaci di regolamentare vasti territori: geografici e sociali e si differenziava soprattutto dal punto di vista del tempo. Il progetto utopico aveva senso solo se capace di tradursi in una realizzazione immediata.
Lo slogan tutto e subito, che unisce la quantità/spazio con il tempo, esprimeva bene quella specifica cultura della radicalità di obiettivi/tempi/mezzi.
La costruzione utopica doveva inoltre regolamentare, certo in modo nuovo, irrispettoso e irrituale, rapporti e conflitti sociali sui quali lavorava da decenni e da ben più di un secolo la politica ufficiale. Una parte dell’utopia riprendeva temi propri della tradizione socialista e comunista europea ritornando alle origini di questa. Nel maggio francese c’era chi si voleva vendicare della condanna inflitta da Lenin all’estremismo, “malattia infantile”, denunciando di rimando la degenerazione senile del comunismo, al governo o all’opposizione. In altri casi riemergevano utopie sfortunate (dal punto di vista del consenso di massa) come quella anarchica o forme di fusione tra modelli e teorie diverse.
L’utopia però cercava anche di introdurre nella regolamentazione dei rapporti sociali principi che appartengono all’intero patrimonio culturale della moderna società industriale. La secolarizzazione che affida agli uomini, individui singoli od associati, il compito di decidere i propri destini senza far ricorso a principi trascendenti o ricavati dalla pura ragione. L’eguaglianza che affida i destini sociali alle capacità individuali e non allo status o al privilegio acquisito con la nascita. La libertà come diritto di non essere manipolato da un’autorità esterna e come dovere di contribuire con la forza della propria soggettività alla vita sociale.
I soggetti ai quali si rivolgevano i movimenti erano per alcuni versi i medesimi che costituivano la base delle forze politiche, le modificazioni sociali che si volevano introdurre erano più radicali di quelle elaborate dagli schieramenti politici ufficiali ma in genere compatibili con le economie industriali e con sperimentati sistemi di relazioni.
L’utopia del ’68 e degli anni successivi si rivolgeva anche a gruppi sociali sino ad allora ignorati dai partiti e dai poteri pubblici o considerati solo sul piano della retorica politica. Con il movimento del 1968 si chiedeva di trovare risposte ai bisogni dei giovani, delle donne, delle identità etniche, di coloro che si sentissero o fossero discriminati per propensioni sessuali.
I temi che animano le utopie descritte da Berman sono un condensato di valori propri della società industriale: tanto socialisti quanto liberal-democratici, tanto anarco-collettivisti, quanto anarco-capitalisti. La genesi e la struttura di quelle utopie è leggibile tenendo presenti le fonti alle quali esse attingono. Prendiamo ad esempio alcuni temi.
A. L’eguaglianza di genere. L’obiettivo della fine di ogni discriminazione di genere coincide per alcuni aspetti con quello, socialista e classista, della soppressione dello sfruttamento del lavoro umano. Con la questione della parità dei sessi si vuole cancellare la condanna della donna a funzioni di riproduzione della forza lavoro, a lavori subalterni e sottoretribuiti, che destinava l’uomo alla produzione di ricchezze. Alla rivendicazione dell’eguaglianza di genere fanno però da sfondo anche temi della moderna cultura capitalistica e liberale. La questione della liberazione femminile sottolinea come la moderna società debba, per crescere, affrancarsi da rapporti di tipo comunitario. La competizione non può coesistere con una divisione del lavoro “di genere” che condanna una “metà del cielo” a ruoli domestici escludendola dal lavoro produttivo, dalla scolarità, dallo studio, dalla ricerca creativa, dalla innovazione, dal mercato, dall’accesso autonomo ai consumi.
B. L’eguaglianza etnica. Nel movimento delle pantere nere USA trovavano ospitalità temi egualitari di lontana ascendenza marxista o leninista. Ma il problema dell’eguaglianza etnica è una questione fondamentale anche per la moderna società del mercato. La guerra civile del 1861 - 65 negli USA non è solo un conflitto per la pari dignità degli individui, ma anche un veicolo di modernizzazione del paese. Gli Stati del Nord nella guerra affermano principi giuridici ed etici strettamente legati allo sviluppo economico: la pari dignità degli individui e, insieme, la riaffermazione del fatto che il lavoro servile o discriminato, incompatibile con l’industria moderna, si accompagna solo all’arretratezza o al declino (13) .
C. Gli itinerari di spiritualità. Berman ricorda come sintomo dell’utopismo degli anni sessanta le nuove ricerche individuali di una religione. Negli USA e in Europa si assiste ad una autoriforma del costume religioso e delle religioni. Nel costume riprende slancio l’ascesa al trascendente che viene favorita sia da fedi tradizionali sia da nuovi tipi di fedi. Si diffonde un pluralismo religioso e trovano proseliti religioni cresciute in contesti geografici ed in culture diverse. Le religioni organizzate dell’Occidente compiono al proprio interno riforme tese a ridurre gli ostacoli al dialogo reciproco ovvero la separazione tra chierici e laici: nella ricerca della verità e nella lettura del testo sacro. Il pluralismo religioso assumeva a volte nel e dopo il ‘68, caratteri pittoreschi ma non va dimenticato che la molteplicità delle fedi, la ricerca individuale della verità rappresentano fattori culturali ai quali viene attribuita l’affermazione del capitalismo nell’Europa (Weber) e la stessa genesi della democrazia americana (Tocqueville).
D. La libera ricerca delle felicità. L’utopismo degli anni sessanta condanna duramente le politiche e le etiche di repressione della sessualità e di discriminazione degli orientamenti sessuali. Non si tratta solo di pulsioni libertarie o di anarchismo esistenziale. Alla base della liberazione delle propensioni sessuali sta un principio fondamentale della società moderna. Il diritto alla felicità scolpito nella dichiarazione di indipendenza degli USA del 1776. Si tratta di un diritto che riguarda l’esistenza del cittadino ma che riguarda anche le forme della società ed i rapporti tra collettività ed individuo. I padri dell’Unione con il riconoscimento del diritto individuale alla ricerca della felicità marcano la differenza tra la comunità premoderna nella quale regole etiche e comunitarie circondano l’individuo con una gabbia di divieti, dalla società civile nella quale l’individuo, con le sue particolarità, preferenze e simpatie è garante della coesione sociale. Adam Smith d’altronde affermava che la cooperazione sociale non era determinata dalla benevolenza ma dall’egoismo.
E. La causa del Terzo Mondo. Anche la vocazione terzomondista dei movimenti degli anni sessanta ha una doppia faccia. Da un lato esprime culture di tipo marxista o socialista egualitario. La diversa distribuzione di risorse tra le nazioni rappresenterebbe, sul piano planetario, la riproduzione della disuguaglianza tra gli uomini che si manifesta nelle singole società. Il terzomondismo di quegli anni cerca di spostare le analisi di Marx, condotte principalmente sulle società sviluppate, alle società in via di sviluppo, sottosviluppate, “primitive”. Ma c’è anche un’altra faccia del tema. La disuguaglianza tra nazioni non crea solo ingiustizia e deprivazione, inibisce anche lo sviluppo. La concorrenza tra le nazioni viene alterata e le imprese operanti nei paesi sviluppati e dominanti non sono stimolate alla competizione. Nel terzomondismo degli anni ’60 si legge a volte il messaggio di Lenin, altre volte quello dei liberali vittoriani che criticano il colonialismo (e la guerra per il potere economico) come negazione della pacifica competizione industriale (14) .
La doppia identità delle culture che stanno alla base delle utopie degli anni ’60 spiegano la continuità delle contestazioni di sistemi contrapposti, la capacità di manifestarsi tanto nel liberalismo realizzato quanto nel socialismo realizzato, di animare la primavera francese e quella cecoslovacca, di iniziare l’attività ad Ovest per compiere, un ventennio dopo, una completa opera di demolizione istituzionale ad Est.


foto ansa


Dall’offensiva alla difesa

Con l’inizio del XXI secolo la tempesta delle utopie sembra placarsi. Lo riconosce Berman che, dopo aver esaltato l’ascesa della rivoluzione pacifica capace di travolgere i regimi dell’Est, ne segnala il declino. “Ancora una volta si percepì la sensazione che in tutto il mondo alcuni principi di fondo di una buona società (…) erano stati infine scoperti. Nuovamente la storia sembrò procedere in una certa direzione. E di nuovo proprio com’era accaduto dopo le insurrezioni intorno al 1968 in diverse parti del mondo arrivò l’ondata scarlatta dei disastri colossali, dei massacri etnici e delle tirannie gangsteristiche” (15) . L’ipotesi e la segnalazione del declino non è solo di Berman.
Christophe Aguiton, studioso dell’organizzazione sociale, vede con la fine del ‘900 manifestarsi una crisi dei movimenti, anzi un declino strutturale al quale si aggiunge un depotenziamento di progetti che avevano animato il XX secolo. “In una ventina d’anni, nei paesi più sviluppati - America del Nord, Europa Occidentale e Giappone – i sindacati hanno perso circa la metà dei loro iscritti. Forse ancor più decisiva della crisi delle organizzazioni del movimento operaio e della sinistra in generale è la bancarotta ideologica e di prospettiva.
Nello stesso periodo vengono a cadere le tre grandi risposte ideologiche del dopoguerra: i modelli dell’economia pianificata realizzati in modo burocratico nei paesi dell’Europa dell’est; i modelli keynesiani o fordisti sostenuti dai governi occidentali tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, punto di riferimento dei partiti socialdemocratici e di gran parte dei sindacati; infine i modelli di numerosi paesi del Terzo Mondo” (16) .
Di fronte alla globalizzazione nel mondo si manifestano tre orientamenti ai quali corrispondono altrettanti poli attorno ai quali si collocano organizzazioni, partiti e governi.
Vi è un polo radicale e antinazionalista che si oppone alla globalizzazione come manifestazione dello sviluppo capitalista. Polo consistente il quale però non formula proposte concrete di insieme. “Le possibili risposte alternative – pianificazione democratica, autogestione, ecc. – sono rese fragili dalla crisi generale dei differenti progetti di trasformazione sociale” (17) .
Vi è un secondo polo nazionalista che ritiene necessaria la chiusura entro i confini statali per preservare economie e condizioni di vita dalla tempesta della liberalizzazione dei mercati. Il polo nazionalista non raccoglie solo i paesi opulenti dell’Occidente ma anche alcuni paesi in via di sviluppo.
Vi è infine un polo neoriformista che cerca ricette capaci di governare un processo considerato in sé inevitabile e positivo.
Oltre alla triplice polarizzazione si assiste ad una modificazione delle strategie, tanto dei partiti quanto dei nuovi movimenti, fatta di arretramenti repentini e di veloci avanzate. “Mentre i movimenti sociali si sono globalmente radicalizzati, i partiti politici si sono evoluti verso destra” (18) . Inoltre, “i movimenti sociali si mobilitano contro le conseguenze sociali e ambientali della globalizzazione liberista, giungendo poi a una più globale contestazione. I partiti politici, soprattutto se partecipano alla gestione governativa, hanno la tendenza a considerare i vincoli di questa stessa globalizzazione come dati inamovibili di cui, al massimo, si possono correggere gli effetti.” (19)
Nei nuovi movimenti che cominciano a delinearsi cambiano strategie, obiettivi, insediamento sociale (20) . La radicalizzazione non si manifesta come scelta di attacco, ma di difesa. I temi della resistenza, del resistere, dell’ostacolare ricorrono nei nuovi movimenti che partono dal presupposto di doversi adattare al nuovo contesto economico, alla nuova stratificazione sociale, al ritorno di culture (come quelle liberali e liberiste) che sembravano essere state sepolte o drasticamente ridimensionate nel corso del ‘900. “Siamo giunti ad una prima conclusione: in un simile contesto, la regola classica secondo cui stare in difesa è meglio che attaccare è più vera che mai” (21) . Fa da sfondo il movimento no global che si presenta come convergenza di una pluralità di organizzazioni o tendenze le quali cercano uno spazio di dibattito prima ancora che l’omologazione o il coordinamento. Un posto preminente nell’arcipelago no global lo hanno i movimenti orientati alla cancellazione del debito per i paesi più poveri. Vi è poi l’area dell’ecologismo radicale, area composita ma nella quale assume la veste di simbolo l’organizzazione ingleseReclaim the Streets che utilizza microeventi spettacolari (un incidente stradale simulato, ad es.) per veicolare messaggi ambientalisti. Vi è ancora il settore dei movimenti contadini che si oppongono alle biotecnologie e che cercano di contrastare la concorrenza delle coltivazioni ad alta tecnologia capaci di erodere le produzioni tradizionali.


da www.damicon.fi

Aguiton registra ancora l’esperienza delle azioni contro la disoccupazione pur riconoscendo il carattere limitato della rete che le alimenta -“essenzialmente le reti francesi di lotta contro la disoccupazione e l’esclusione e alcune correnti della sinistra del sindacalismo in Spagna e in Italia” (22) . Nel catalogo dei movimenti vanno collocati quelli delle donne. Così come la variegata esperienza delle organizzazioni non governative.
Fra le poche esperienze dotate di un chiaro interlocutore sociale ci sono per Aguiton quelle del sindacalismo autonomo. Le nuove organizzazioni del lavoro sono chiamate a supplire ad una crisi del sindacato tradizionale vulnerato da una nuova struttura del lavoro alle spalle della quale sta la fine, in Occidente, del modello fordiano di produzione. Al grande sindacato si sostituiscono nuove organizzazioni o coordinamenti di lavoratori. Questi sono favoriti nell’insediamento dal tipo particolare di organizzazione prescelta: “sono gestiti da un apparato di persone che vi lavora a tempo ridotto, affinché i militanti possano mantenere il contatto con i servizi e i centri di produzione. Quando esplode un conflitto sindacale, vengono disposti mandati di durata limitata attraverso un funzionamento che privilegia sempre il consenso e il potere di decisione delle istanze di base” (23) . Il nuovo sindacalismo di base, a differenza di quello tradizionale, sembra capace di adeguarsi ad una struttura produttiva fondata sulla precarietà, sulla duttilità, sulla mobilità dei lavori.
Aguiton non nega il carattere frammentato e limitato dei nuovi movimenti. Essi sono il frutto di una contingenza globale/sociale: politica ed economia hanno ridotto lo spazio per le azioni contestative irregolari e ammorbidito le lotte di tipo tradizionale. La lotta da frontale si fa residuale. La caratteristica del presente, scrive Aguiton, sta nella possibilità di agire quando: “la fluidità dei rapporti di forza creata da falle e interstizi rappresenta occasione per lo sviluppo di spazi di libertà” (24) .
L’intervento ed i progetti non possono essere programmati, e inseribili razionalmente in un disegno complesso nel quale si incontrino analisi sociale e strategia politica. “Si configura dunque un mondo, in sé né migliore né peggiore, dove nessun tipo di determinismo può generare rigidamente le diverse possibilità” (25) . Il mondo descritto da Aguiton è animato da movimenti ma una serie di contingenze rende impossibile o impraticabile la elaborazione di un progetto, la definizione di un modello alternativo/futuro di società.


L’attivismo

Le caratteristiche dei nuovi movimenti sono state analizzate da Tim Jordan, studioso non neutrale delle azioni collettive, che ne fa un catalogo ragionato e ne mette in risalto alcune specificità.
1. L’impossibilità di etichettarli con valutazioni di tipo politico. Gli schemi del XX secolo e della stagione delle utopie non sono sufficienti ad evidenziare le particolarità dell’agire collettivo del XXI secolo: a partire dalla grande divisione destra/sinistra. ”La nota distinzione tra destra, centro e sinistra si è fatta problematica” (26) . Come esempio di confusione dei linguaggi e degli orientamenti, Jordan cita un aspetto del movimento di eco-attivisti inglesi Reclaim the Streets. Le bandiere dell’organizzazione non sono monocrome (secondo la tradizione classica dei movimenti di sinistra del ‘900) bensì tricolori, verde per l’ecologia, rosso per il socialismo, nero per l’anarchia, “ma con una gamma di varie combinazioni possibili” (27) . Nel corso delle manifestazioni ogni partecipante è libero di scegliere colori e combinazioni che corrispondano alla sue propensioni. Jordan cita anche movimenti ecologisti che scelgono alcuni temi propri della destra. Earth First, per difendere l’ambiente dall’abuso umano ha inglobato obiettivi tipici dei conservatori, ad esempio: una rigida riduzione dell’immigrazione per evitare il sovrappopolamento dei paesi sviluppati e gravati di un surplus di residenti (28) .
2. La trasgressione come elemento di coesione. La solidarietà nel seno dei movimenti non nasce dal progetto (sia esso riformistico o utopico) ma dalla pratica della trasgressione (29) . Quest’ultima è di per sé un attacco “al modo in cui le norme sociali, le credenze, le oppressioni si riproducono. Il contrario di un mutamento sociale trasgressivo è un’azione politica che vuole produrre un mondo diverso che però sia nello stesso tempo una conferma di quello esistente” (30) . I movimenti non cercano una nuova organizzazione disciplinata da norme ma un modo nuovo di prendere le decisioni rilevanti per la collettività.
3. La pratica della dis/organizzazione. Elemento cruciale di questa è “l’impegno a creare strutture aperte con una gerarchia (…) piatta. Avere una rete orizzontale di coordinamento significa permettere di partecipare a chiunque lo desideri.” (31) . La gerarchia piatta si ottiene impegnando i militanti nella decisione delle assemblee e aprendole a chiunque sia interessato alle questioni trattate.
4. Nessuna utopia ma la ricerca di una nuova morale. L’attivismo (32) di Jordan insegue un obiettivo di città futura in termini nuovi. “Non nel senso di programmare un’utopia, non in quello di definire piani quinquennali, il cui completamento farà sorgere una nuova aurora, e nemmeno nel senso del raggiungimento di obiettivi immediati” (33) . I movimenti sociali cercano, piuttosto di dare vita a “nuove forme etiche a nuovi comportamenti morali” che devono permeare la società. Non tanto il progetto di una nuova città terrena quanto l’auspicio dell’avvento di una nuova morale della coesistenza. “Gli uomini e le donne dovrebbero essere uguali, gli animali hanno diritto a condizioni dignitose di vita, l’ambiente è essenziale per tutti noi ed è minacciato, le leggi sulle armi devono essere più rigorose, le imposte sui combustibili sono troppo alte/basse: tutte queste rivendicazioni, e tante altre ancora avanzate dalla sinistra, dal centro, dalla destra e dall’attivismo politico di base, cominciano a condensarsi per definire una nuova etica sociale” (34) . L’attivismo per Jordan può portare ad una nuova fondazione etica della società creando nuove regole morali che “quando acquisiscono l’autorevolezza di un consenso di massa” (35) , possono produrre la trasformazione sociale. “Questa tenue fiammella qualche volta splende, altre stanno quasi per spegnersi. In tutte le molteplici azioni che contestano i codici sociali esistenti questa etica prende forma e si deforma” (36) . La nuova etica è presente in tutto l’attivismo sociale, nella dis/organizzazione priva di gerarchie, nella valorizzazione del piacere come alternativa alla subordinazione del lavoro ripetitivo, nelle controculture, nell’uso alternativo della informazione e delle reti. L’etica predicata/proposta non rappresenta infine per Jordan un traguardo definitivo. “Il carattere dei movimenti, la continua creazione di identità collettive, fanno si che l’etica immanente dell’attivismo non risulti mai compiuta”.


Moltiplicazione di utopie

Il futuro della politica di base, dell’attivismo, della spontaneità che nasce dal basso sarà per il tempo avvenire caratterizzato da una fuga dall’utopia e dal rifiuto di costruire modelli di nuova società? Il destino delle organizzazioni sociali sarà soltanto difensivo? Lo spettacolo della protesta dovrà limitarsi a favorire un cambiamento senza indicare in quale direzione? Predicazione o propaganda al posto della definizione/costruzione di un modello di società diverso da quello esistente?


foto ansa

Aguiton sembra rassegnato, per lungo tempo, al carattere difensivo dei movimenti: protezione di conquiste ovvero utilizzando il vecchio linguaggio della politica di base: agibilità di spazi, praticabilità di obiettivi. Jordan confida soltanto nella spettacolarità dell’azione trasgressiva/politica e nella predicazione: qualcosa di molto diverso dalla responsabilità dell’agire politico e dalla responsabilità che comporta la costruzione di un modello di società.
In una importante raccolta di saggi (37) dedicata alla nascita/emersione di un arcipelago di nuovi soggetti dell’agire politico si riaffaccia, tuttavia, il problema dell’utopia, il bisogno di utopia, il modo nuovo nel quale l’utopia, oggi, si potrebbe manifestare e si manifesta. Alcuni saggi contenuti nel volume e dedicati ad una analisi degli incontri periodici dei no global manifestano una forte critica nei confronti dell’ipotesi di trasformazione del Social Forum in movimento. Nel rifiuto di un processo di coordinamento/organizzazione sembra affacciarsi anche una critica dell’idea di modello, e forse di utopia. I grandi appuntamenti mondiali, la serie dei Social Forum, per lo studioso brasiliano Chico Withaker, non possono essere considerati come congressi costituenti di un’organizzazione, piuttosto strumenti che consentono uno scambio di esperienze e che favoriscono la nascita di una pluralità di identità. Il Social Forum non è un movimento, è piuttosto uno spazio e occorre non cedere “alla tentazione di trasformarlo, ora o in futuro, in movimento” (38) .
“Un movimento aggrega persone – i suoi attivisti come gli attivisti di partito – che decidono di organizzarsi per raggiungere, collettivamente alcuni obiettivi. La sua formazione ed esistenza implica la definizione di strategie per raggiungere tali obiettivi, la formulazione di programmi di azione e la distribuzione di responsabilità tra i suoi membri comprese quelle concernenti la direzione del movimento” (39) . Un movimento ha quindi, per l’A., un carattere escludente. Aggrega persone e definendo degli obiettivi traccia una linea di confine: rispetto ad essa o si sta dentro o fuori. Il movimento inoltre è portato all’organizzazione e alla gerarchia. Anche nell’ipotesi della partecipazione più vasta, del controllo costante e dal basso delle decisioni, il movimento deve dotarsi di una struttura piramidale. Viceversa uno spazio non ha leader. “E’ come una piazza senza proprietario” (40) . Dalle tesi di Withaker si ricava una forte diffidenza nei confronti della gerarchia e un forte sospetto per le implicazioni escludenti che può avere la definizione di una strategia orientata al raggiungimento di obiettivi predefiniti.
Diversa la posizione di Simon Tormey il quale affronta in modo originale la questione della strategia e dell’utopia. Tormey è consapevole dell’utilità dei modelli e degli obiettivi per l’agire politico. In questo si muove in linea con una tradizione radicata nel pensiero socialista. Anche Marx pur con le sue dure critiche al socialismo utopistico mostra di apprezzare la modellistica utopica. Senza l’immagine di un mondo diverso non è possibile mettere in discussione quello esistente. L’utopia ricorda sempre Marx (41) contiene spesso una descrizioni dei mali che accompagnano o hanno accompagnato la società.
Tormey sottolinea, però, un tipo nuovo di manifestazione delle utopie. Nella tradizione della società industriale si era assistito all’emersione di poche utopie dotate di forte capacità attrattiva. Nella società dei nuovi movimenti si manifesta la frammentazione delle energie e la polverizzazione dei modelli utopistici. La società industriale si era accompagnata a grande utopie che condensavano le aspirazioni di vaste masse, classi sociali, gruppi professionali consistenti.
L’organizzazione della società industriale, la calcolabilità dei suoi processi di produzione e di scambio (la previsione razionale delle conseguenze dell’agire economico è uno degli aspetti fondamentali della società capitalistica), l’esistenza in essa di una stratificazione sociale semplice nella quale la collocazione degli individui è delineata con nettezza, l’esistenza di forti forme di solidarietà fra individui che occupano gli stessi ruoli nel processo produttivo, avevano favorito la formazione di alcune utopie dotate di grande impatto, capaci di alimentare aspirazioni collettive, disponibili a guidare potenti movimenti.
La possibilità di disegnare il modello di un mondo nuovo di relazioni sociali si riduce nel momento in cui le forme di solidarietà alimentate dalla produzione industriale in una fase dello sviluppo della società industriale vengono meno. La società del XXI secolo non è più, almeno in Occidente, la società della solidarietà di classe. “Invece di assistere alla coesione di un unico progetto utopistico e (…) a un trionfante progetto collettivo di emancipazione, assistiamo alla frammentazione delle energie utopistiche” (42) .
Più che di impoverimento dell’utopia si può, per Tormey, parlare di “proliferazione di utopie, di progetti, idee, sogni utopistici”. “Il vero problema non è tanto l’esaurimento delle energie utopistiche, quanto l’incommensurabilità delle utopie: la tua utopia non è la mia e la mia non è la tua” (43) .
Tormey svolge una critica severa di alcune tendenze presenti nei nuovi movimenti: in particolare della tentazione di utilizzare la contestazione delle politiche economiche oggi diffuse nel mondo per costruire una nuova ortodossia e un nuovo modello di economia. Non basta contrastare il capitalismo neoliberista ma occorre anche resistere “all’inglobamento in un’ideologia e in un movimento rivolto al superamento del capitalismo neoliberista” (44) .
All’utopia come spazio unico va quindi contrapposta l’idea della coesistenza di diversi progetti di cambiamento sociale, capaci di esprimere la diversità dei bisogni, dei desideri, degli interessi. Per argomentare questo tipo di pluralismo utopico, Tormey prende spunto da un’opera del filosofo americano Robert Nozik nella quale si coniuga l’antistatalismo anarchico con il laissez faire della cultura liberista. In Utopia Stato e Anarchia, l’anarcocapitalista Nozick (speculare ed opposto agli anarcocomunisti forse anarcointernazionalista, ma in senso global, cioè di fautore della mondializzazione degli scambi di merci) auspica una società caratterizzata dalla pluralità degli esperimenti utopici, composta da comunità divergenti nelle quali sia possibile condurre generi diversi di vita.
“L’utopia è un’impalcatura per utopie, un posto in cui la gente è libera di associarsi volontariamente per perseguire e tentare di attuare la propria visione di una vita bella in una comunità ideale, ma in cui nessuno può imporre agli altri la propria visione utopistica. La società utopistica è la società di chi è fautore dell’utopia” (45) .
Il recupero dell’utopia rinvia, nel saggio di Tormey, alla teoria di Stirner, il padre dell’anarchia anticollettivista. Per Stirner (46) la società è una coesistenza di egoismi nella quale le relazioni non sono disciplinate da regole generali ma da un continuo processo di contrattazione, di accordi e alleanze, di competizione e cooperazione.
Prendendo spunto da due autori non amati dalla cultura marxista (Nozik demonizzato negli anni settanta come esponente dell’edonismo neoconservatore, Stirner condannato (47) da Marx e poi dall’ortodossia del materialismo storico come interprete dei bisogni della piccola borghesia, contrapposti a quelli della classe operaia) Tormey auspica la formazione di “spazi utopici non determinati, contingenti, aperti” e di mondi “confusi, nomadi e caotici” nei quali “le persone non vorrebbero essere disposte secondo una logica o un principio di organizzazione, ma vorrebbero collocarsi da sole secondo affetti e affinità” (48) .


Nuovi mondi

Karl Mannheim nella sua opera più nota (49) , densa di analisi teoriche ma anche di meditazioni su una delle più tragiche esperienze europee del XX secolo, il crollo della repubblica di Weimar e l’avvento dello Stato nazionalsocialista (50) , aveva rappresentato, con toni di allarme, il degradare, nel ‘900, dell’utopia nell’ideologia. Le analisi di Mannheim appaiono ancora, come d’altronde durante e dopo il 1968 (51) , attuali e utili alla interpretazione di movimenti e culture sociali.
Per Mannheim l’utopia che trascende la contingenza orientando la condotta “verso elementi che la realtà presente non contiene affatto” (52) ha il limite di discostarsi dalla analisi positiva dei fatti e di essere troppo spesso caricata di un eccesso di valenze e considerata l’unica fucina della trasformazione. Non interpretando in modo imparziale i dati, l’utopia inoltre porta a sottovalutare/svalutare l’evoluzione spontanea dei fenomeni storico-sociali. Gli aspetti negativi del pensare e dell’agire, in base ai modelli utopici, sono accompagnati però da aspetti sicuramente positivi. L’utopia è infatti un veicolo di rinnovamento sociale e di evoluzione: “in opposizione all’idea conservatrice di un ordine stabilito, essa impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta” (53) . Il concetto di utopia “si sforza di prendere coscienza del carattere dinamico della realtà, in quanto non assume come punto di partenza l’esistenza come tale, ma piuttosto quel reale storicamente e socialmente determinato che è in un continuo processo di trasformazione” (54) . L’utopia insomma tende a “rompere l’ordine prevalente” (55) .
Esistono, per Mannheim, anche altre forme di fuoriuscita dalla realtà e di proiezione verso il futuro non dotate del potere di rinnovamento proprio dell’utopia. Alcune “idee trascendenti l’ordine esistente” possono avere effetti radicalmente opposti a quelli dell’utopia e rappresentare un momento di stabilità e di conservazione sociale piuttosto che di crescita o di rinnovamento. Si tratta di idee che apparentemente vogliono fuoriuscire dalla realtà sociale ma che sono viceversa “armoniosamente e organicamente integrate con la visione prevalente dell’epoca”. E’ questo il caso dell’ideologia la quale al pari dell’utopia “trascende la realtà presente ma non riesce mai de facto ad attuare i progetti in essa impliciti” (56) . Le ideologie si possono presentare come giuste aspirazioni; “quando poi sono tradotte nell’azione il loro significato viene molto spesso deformato” (57) . “L’idea dell’amore fraterno Cristiano, ad esempio rimane, in una società fondata sulla servitù, un’idea irrealizzabile e perciò ideologica, anche quando il significato costituisca, per chi lo intende in buona fede, un fine per la condotta individuale. Vivere coerentemente a questo amore cristiano in una società che non sia organizzata sul medesimo principio è impossibile” (58) .


foto ansa

Alla luce del pensiero di Mannheim il rifiuto dei modelli organici, il rigetto dei progetti integralmente alternativi allo stato di cose esistente, tipico dei nuovi movimenti rappresenterebbe un pericoloso passo indietro. Minoranze attive presenti nella società sarebbero portate a sostituire la predicazione alla definizione di un modello nuovo di relazioni sociali. La propaganda tinta di colori moralistici ha certo il potere di delegittimare le istituzioni esistenti (o viceversa di legittimarle) ma non garantisce un diretto impegno di chi la promuove nella modificazione del reale né un processo trasparente di cambiamento. Con la propaganda si affida a un numero indeterminato di attori il compito di interpretare un generico messaggio salvifico in modo tale da costruire in un indeterminato futuro qualche cosa di simile o di adeguato ad esso.
L’invito alla propaganda etica di autori come Jordan può far pensare al ritorno di quelle ideologie dipinte da Mannheim come aspirazioni alla condotta privata dell’individuo destinate a non essere mai attuate! Al forte carattere progettuale delle utopie della seconda metà del XX secolo si sarebbe sostituita una progettazione debole fatta di esortazioni, di pluralità di progetti, di frammentazione, di esaltazione di diversità e intimità. L’antagonismo politico avrebbe quindi scelto la strada di uno scontro sotterraneo fatto di rifiuti dell’esistente prima che di contrapposizione di progetti. L’antagonismo si limiterebbe quindi ad una opera di delegittimazione della realtà (terrena e concreta) senza modellare un tipo di relazioni sociali e un tipo di organizzazione nuova.
La riduzione della nuova stagione dei movimenti “senza” utopia allo schema di Mannheim è affascinante ma non giusta. Forse, dopo il 1968, interpretando lo slittamento delle utopie verso la violenza e le ortodossie extraparlamentari, si poteva ancora parlare di passaggio dall’utopia all’ideologia. Più che di fronte ad uno slittamento dall’utopia all’ideologia ci si trova oggi in presenza di un contesto sociale nel quale lo schema di Mannheim non è applicabile perché ne sono venute a mancare sia la struttura produttiva sia la stratificazione sociale.
L’utopia alla quale si riferiva Mannheim agitava una società dominata dalla produzione organizzata (la grande industria, la fabbrica popolosa, l’organizzazione gerarchica e costrittiva del lavoro, l’accentramento delle manifatture, ecc.) e da una stratificazione sociale disegnata con nettezza. I gruppi e le classi sociali erano identificabili e classificabili in base a numerosi parametri: la omogeneità delle mansioni, la divisione del lavoro intellettuale e manuale, il reddito, la scolarizzazione, i costumi, la concezione dell’esistenza. La società della grande fabbrica era quindi anche il luogo del calcolo, del piano, del programma, del progetto, dell’utopia.
Nella società post-industriale il tessuto sociale subisce forti modificazioni. Da una stratificazione semplice si passa a un intrecciarsi di gruppi, ceti, classi, individui. La natura della produzione post-industriale è fatta di progressiva dissoluzione delle strutture centralizzate ed organizzate. L’organizzazione si decentra fino a frantumarsi in centri individuali di produzione, a trasformarsi in rete di funzioni. Nel sistema post-industriale viene anche meno la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, così come la divisione tra attività di direzione e di esecuzione. La struttura produttiva della società post-industriale per giungere alla formazione di un prodotto non utilizza solo un lavoro manuale diffuso ma anche una grande quantità di intelligenze diffuse.
La miniaturizzazione dei gruppi (59) , la frammentazione delle funzioni, il carattere molecolare del tessuto sociale (60) influisce anche sulla partecipazione politica e sulla possibilità di rappresentare gli interessi. Colin Crouch ha mostrato nella sua analisi della post-democrazia come sia difficile collegare un universo incoerente di mansioni prodotte dalla globalizzazione e dal sistema postindustriale all’organizzaizone tradizionale (democratica) della vita pubblica (61) . Le nuove categorie sociali prodotte dall’economia post-industriale sarebbero in larga misura passive e prive di autonomia politica (62) .
Al nuovo tessuto sociale frammentato non è più adeguato lo schema unificante disegnato da Mannheim quando definisce la progettazione utopica. Antony Giddens giunge a parlare per l’oggi di una impossibilità del sapere sistematico intorno all’organizzazione sociale. Ciò deriva dall’impressione “che molti di noi hanno di essere irretiti in un universo di eventi che non riusciamo a comprendere appieno e che in buona parte sembrano sottrarsi al nostro controllo” (63) . L’identità individuale, osserva ancora uno studioso italiano, “cessa di far riferimento e di fondarsi su un’unica e onnicomprensiva visione del mondo che disegni e indirizzi la prassi, l’appartenenza e le opzioni che definiscono l’agire quotidiano. L’identità si forma piuttosto dentro sistemi di appartenenze particolaristiche (di ruolo, di categoria, ecc.) sempre più difficilmente riconducibili dal soggetto che le attua a concezioni globali della vita.” (64)


Frammentazione e ricomposizione

La frammentazione del sociale e l’impoverirsi delle grandi utopie non facilita la governabilità dei sistemi politici. In apparenza, con la decadenza dei grandi modelli di rinnovamento sociale si sarebbero dovuti ridurre il numero e l’intensità di quei conflitti che tradizionalmente erano presentati come un ostacolo all’opera di governo. Ma si tratta di un’ipotesi fallace.
L’azione dei governi, nei paesi democratici sviluppati dell’Occidente, è oggi prevalentemente orientata alla riduzione dei benefici di Welfare in conseguenza della crisi fiscale dello Stato e della insostenibilità, provocata da mutamenti economici, tecnologici, scientifici, demografici, di forme di protezione tradizionalmente offerte. Nei paesi sviluppati, in materia di riduzione dei benefici di Welfare, la distinzione classica (progresso/conservazione) tra le forze politiche giunge a perdere di significato. La destra e la sinistra sono costrette, sia pure con alcune differenze, a operare misure sociali sottrattive: riduzione, limatura, in alcuni casi taglio delle spese sociali o della platea dei beneficiari. La distinzione tra destra e sinistra (ardua in materia di politiche sociali) si manifesta in modo sempre crescente su dimensioni simboliche: nuove libertà civili, schieramenti di campo internazionale, politiche della persecuzione penale (tolleranza o tolleranza-zero), trattamento delle diversità (etniche, esistenziali, di genere), atteggiamento verso i credi religiosi, laicità dello Stato, ecc.
Alla riduzione delle misure di Welfare si unisce la incapacità/impossibilità di includere nella cittadinanza sociale una parte crescente della popolazione. Non solo masse di immigrati ma anche masse di cittadini inseriti in un nuovo mercato del lavoro, disorganizzato e frantumato. Lo Stato sociale che era stato capace di inglobare il lavoro dipendente e di gestire un sistema di protezione sociale alimentato da un conflitto organizzato da grandi strutture collettive (le rappresentanze del lavoro) non riesce a offrire a coloro che svolgono lavori autonomi e/o anomali un sistema di garanzie efficaci. L’esclusione sociale si moltiplica anche se questa è spesso mascherata da ammortizzatori occulti (le comunità informali, le famiglie, il lavoro sommerso, le economie parallele, l’illecito, le solidarietà etniche).
I soggetti della politica stentano a elaborare progetti a disegnare futuri capaci di migliorare il presente e per il quale sia opportuna una mobilitazione sociale (65) . La mancanza di programmi è dovuta in parte a difficoltà oggettive, al fatto che alcuni fenomeni economici e sociali non sono governabili con lo strumento della politica, della legislazione statale, persino della normazione internazionale, ma sono il frutto di meccanismi attivati da soggetti nuovi che alimentano il mercato globale. La difficoltà del progetto è dovuta in secondo luogo a un cambiamento della stratificazione sociale e alla difficoltà di identificare i bisogni dei diversi gruppi e gli strumenti per soddisfarli. Dietro alla mancanza di progetto sta, soprattutto e infine, un difetto di consenso: non sono visibili all’orizzonte gruppi e formazioni sociali capaci di garantire un efficace appoggio al cambiamento. I tentativi di modificare lo Stato sociale, di trasformarlo in strumento capace di soddisfare nuovi bisogni, alimentano sempre il feroce dissenso dei gruppi che sarebbero colpiti dal cambiamento, non suscitano però l’adesione e la mobilitazione dei potenziali o dei futuri beneficiari.
La frammentazione della vita sociale e delle attività creatrici di reddito modifica e riduce anche il ruolo delle minoranze attive. Esse sono costrette a tattiche di nicchia, agiscono negli interstizi della vita sociale, lavorano sulla simbologia per mancanza di interlocutori sociali definiti. La pace e la lotta contro la globalizzazione sono elementi unificanti. Anche nell’epoca delle utopie, gli anni ’60, i temi internazionali animavano i movimenti. Ma in quegli anni l’elemento unificante non era solo il Vietnam, c’era la condizione degli studenti, la liberazione della donna, la fabbrica, la crescita urbana, lo sviluppo economico, la libertà dell’arte, l’autonomia della ricerca, la liberazione dell’io.
I simboli contro i quali agisce il nuovo attivismo rendono le azioni prevalentemente difensive, lo riconosce Aguiton. Inibire una riunione internazionale o renderla occasione per iniziative dotate di evidenza mediatica è già un successo; anche se materialmente non si è potuto incidere sulle scelte compiute e non si sono modificati i rapporti tra Nord e Sud planetario né si sono introdotte nuove voci nell’agenda politica.
Le azioni orientate a colpire grandi simboli impediscono inoltre spesso una effettiva mobilitazione di interessi. Solo una quota marginale del nuovo attivismo è impegnata sui temi del lavoro; si tratta del nuovo sindacalismo di base esaminato da Aguiton e di alcune iniziative di disoccupati. Nella maggior parte dei casi le organizzazioni di attivismo catalogate da Aguiton e da Jordan hanno forti caratteristiche di élite. Il nuovo ecologismo (nel Regno Unito), la battaglia contro la cartellonistica stradale (negli USA), i movimenti contadini (in Occidente, in Francia), un nuovo femminismo, i movimenti per le identità sessuali, esprimono il disagio di minoranze che per altri aspetti sono integrate nella società. Nei grandi appuntamenti no global gli attivisti hanno un colore della pelle prevalente, bianco (66) , e una professione, studente. L’osservazione sui colori di Seattle non è stata fatta da un avversario malevolo ma è partita dal fronte no global. “Chi viene dal centro del sistema, chi viene dai luoghi del dominio, ha maggiore possibilità di costruire e sostenere un discorso universale” (67) . Bianchi e studenti sono capaci di sintesi, di progetto e di efficace rappresentazione di alcuni bisogni ma il fenomeno ha dei profili allarmanti. “Il modello di riferimento per il futuro, già attualmente diffuso, coincide soprattutto con la cultura e la storia dei centri dell’Impero, della sua metropoli, in particolare gli Stati Uniti” (68) .
I nuovi movimenti, nella frammentazione sociale sono capaci di attivismo ma non di garantire rappresentanza agli interessi e ai bisogni. L’attivismo si manifesta su simbologie lasciando scoperta la tutela di strati sociali incapaci di trovare organizzazione stabile in un contesto troppo complesso, troppo distante, troppo ideologico.
Un esempio di sottorapresentazione degli interessi viene dalla vicenda del novembre parigino del 2005 e delle notti di fuoco della banlieue. Migliaia di giovani, cittadini francesi di origine magrebina e di religione islamica, hanno dato vita a una protesta antistituzionale e sociale. Il movimento, spontaneo e privo di collegamenti con la politica ufficiale, non ha avuto supporti nei partiti tradizionali. Quando su temi analoghi, nel 2006, si è manifestato un movimento di massa di giovani, prevalentemente studenti, dei centri urbani contro la proposta di nuove norme sulla disciplina del lavoro precario, partiti e sindacati hanno sposato la causa degli studenti urbani. Tra il movimento dei centri urbani e il movimento della banlieue neppure un accenno di collegamento. In alcune interviste, giovani del novembre 2005 affermavano di non potersi identificare con la piattaforma degli studenti: anche se precario un lavoro sarebbe stato ben accolto nella disperazione delle periferie!
Il nuovo attivismo è orientato contro i simboli e non riesce a esprimere gli interessi. La mancata rappresentazione di bisogni e l’impossibilità di difendere gli interessi non aiuta il fisiologico svolgimento della vita sociale. Il silenzio e la rimozione possono alimentare scelte anomiche di individuo o di gruppo (dalla banda di quartiere, all’azione esemplare del singolo, alla notte di fuoco), possono favorire la protesta simbolica espressiva di malessere, isolata o di piccolo gruppo, possono nutrire scelte di violenza o di rifiuto totale delle regole del conflitto, possono indurre a itinerari individuali di ribellione.


foto ansa

La mancata rappresentazione dei bisogni modifica i connotati stessi della democrazia. Questa nel mondo moderno è fatta non solo delle forme del suffragio universale ma anche dei suoi effetti materiali. Con l’avvento dello Stato democratico la partecipazione e il diritto di voto, la vita pubblica determinata e controllata dal basso, devono ridurre le differenze sociali e devono impedire che ad alcuni strati sociali venga negato l’ascolto. Se la democrazia opera soltanto per disciplinare una parte degli interessi tradizionalmente tutelati si espone alla crisi e alla delegittimazione.
Da Crouch, a Beck, a Giddens (69) i disegni tracciati sul futuro dell’Occidente democratico non sono rassicuranti. Si dipinge una crisi della democrazia imputabile al silenzio di un conflitto in stato di difficile rianimazione. Impossibile riattivare la vita pubblica? Nessuna speranza in un avvenire prossimo? La risposta non deve essere solo pessimistica. La disarticolazione e la frammentazione sociale si sono presentate all’improvviso, nel corso di un ventennio, nel panorama delle società industriali. All’ordine delle classi e alla geometria degli strati sociali, si è sostituita una molecolarizzazione della società che rende inutilizzabili molti degli strumenti di coesione sociale elaborati dalla società industriale nella sua storia e nella storia dei suoi conflitti.
Le nuove individualità anomiche che animano il teatro sociale e l’economia contemporanea non potranno mai trovare forme di coesione e di raccolta capaci di creare movimenti efficaci, di esprimere bisogni, di mobilitare gruppi per la difesa di interessi comuni? Sicuramente è troppo presto per una diagnosi solo pessimistica. Anche agli albori della società industriale il lavoro appariva disarticolato, unificato dai processi di produzione ma diviso nella coscienza dei singoli lavoratori. La storia delle organizzazioni del lavoro non è stata una marcia trionfale. Gli inizi delle organizzazioni collettive sono stati anomici, conflittuali, ricchi di episodi di frammentazione e conflitti orizzontali: tra pari, tra poveri. Marx denunciava il conflitto all’interno della classe e l’aspra separazione di interessi tra classe operaia ed esercito salariale di riserva, tra occupati e non occupati, tra proletari e sottoproletari. Agli albori dello Stato democratico veniva evidenziata la inconciliabilità degli interessi del lavoro salariato e del lavoro autonomo. La storia della democrazia è stata tuttavia caratterizzata da mediazioni e da unioni che hanno consentito di dare coerenza e di trovare collegamenti in un mondo che prima appariva disarticolato. Si sono affermate le organizzazioni del lavoro, si è legittimata la mediazione degli interessi in conflitto, si sono consolidati i patti sociali e politici che consentono di governare una società animata da spinte divergenti.
Il lavoro frammentato, i conflitti orizzontali che agitano la globalizzazione, la molecolarizzazione delle mansioni tipica della società postindustriale possono anche essi consentire azioni, teorie, progetti di omogeneizzazione/identificazione di nuovi gruppi sociali addirittura di nuove classi. Esiste sul terreno della società globale una classe operaia, che risiede prevalentemente nei paesi in via di sviluppo accelerato (Cina, India), esiste una borghesia imprenditoriale diffusa (non solo quindi l’impero delle multinazionali), esiste un mondo del lavoro parcellizzato ma dotato di interessi comuni (anche se privo di una coscienza di gruppo o di classe).
Una lenta opera di unificazione è ancora possibile - non vi è infatti nella struttura sociale nulla che la possa inibire/vanificare - non è ancora però stata iniziata.


(1) P. Berman, A Tale of Two Utopias. The Political Journey of the Generation of 1968, 1996, tr. it., Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino, 2006.
(2) K. Mannheim, Ideologia e utopia, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1957, p. 198.
(3) Ivi, p. 196-197.
(4) Cfr, F. Fouret, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, tr. it., Mondadori, Milano, 1995; R. Conquest, Il grande terrore. Le purghe di Stalin negli anni trenta, Mondadori, Milano, 1970; E. Nolte, I tre volti del fascismo, tr. it., Sugar, Milano, 1966.
(5) K. Mannheim, op. cit., p. 3.
(6) Ivi.
(7) Ivi, p. 4.
(8) Ivi, p. 5.
(9) Ivi.
(10) Ivi, p.6.
(11) Ivi, p. 7.
(12) Ivi, p. 9.
(13) R. Mitchell, La guerra civile americana, tr. it., il Mulino, Bologna, 2003.
(14) K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, tr. it., Einaudi, Torino, 1974.
(15) P. Berman, op. cit., p. 9.
(16) Ch. Aguiton, Il mondo ci appartiene. I nuovi movimenti sociali, tr. it, Feltrinelli, 2001, p. 11. Nel passo citato l’autore riprende tesi argomentate da Samir Amin.
(17) Ivi, p. 14.
(18) Ivi, p. 14.
(19) Ivi, p. 15.
(20) Sui movimenti no global un’ampia analisi in C. Sbailò, No global, le nuove frontiere, Gnosis, n.s. 1, 2004, pp. 31-50.
(21) Ch. Aguiton, op. cit, p. 71.
(22) Ivi, p. 132.
(23) Ivi, p. 93.
(24) Ivi, p. 66.
(25) Ivi.
(26) T. Jordan, Azione diretta! Le nuove forme della disobbedienza radicale, tr. it., Elèuthera, Milano, 2003.
(27) Ivi, p. 25.
(28) Ivi, p. 13.
(29) Ivi, p. 12.
(30) Ivi, p. 33.
(31) Ivi, p. 69.
(32) Jordan usa il termine attivismo sempre seguito da un punto esclamativo: attivismo!. Si tratta di un modo nuovo di connotare l’esperienza dei movimenti esaminati. Per non disorientare il lettore o il correttore di bozze usiamo il termine senza il punto esclamativo.
(33) Ivi, p. 23.
(34) Ivi.
(35) Ivi, p. 9.
(36) Ivi, p. 153.
(37) M. Berlinguer e M. Trotta (a cura), Pratiche costituenti. Spazi, reti, appartenenze: le politiche dei movimenti, Derive Approdi, Roma, 2005.
(38) C. Withaker, Il World Social Forum come spazio aperto, in M. Berlinguer e M. Trotta, cit., p. 29.
(39) Ivi.
(40) Ivi, p. 30.
(41) K. Marx, Il capitale, vol. I, tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1964, p. 799. Marx attribuisce a Tommaso Moro, autore di Utopia una prima analisi della accumulazione primitiva in Inghilterra e una severa critica della legislazione che trasforma la proprietà feudale in proprietà capitalistica.
(42) S. Tormey, Dalle utopie di luogo agli spazi utopici, in M. Berlingiuer e M. Trotta, op. cit., p. 70.
(43) Ivi, p. 71.
(44) Ivi.
(45) R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, tr. it., Fondazione Luigi Einaudi, Le Monnier, Firenze, 1981, p330
(46) Sull’individualismo di Stirner e sulla associazione delle diversità prefigurata nella sua opera, cfr. P. Marconi, La libertà selvaggia, Marsilio, Venezia, 1979.
(47) Oltre alle classiche critiche di Marx e di Engels si può leggere l’opera di H.G: Holmes, Die ideologie der anonymen Gesellschaft, DuMont, Köln, 1966
(48) S. Tormey, op. cit., p. 83
(49) K. Mannheim, Ideologia e utopia, cit.
(50) Sui riferimenti all’esperienza della repubblica di Weimar impliciti nell’opera di Mannheim, cfr. A. Santucci, Prefazione a Ideologia e utopia, cit., p. XIX.
(51) Una analisi dei movimenti del 1968 condotta alla luce del pensiero di Mannheim in G. Statera, Storia di un’utopia. Ascesa e declino dei movimenti studenteschi europei, Rizzoli, Milano, 1972.
(52) K. Mannheim, op. cit., p. 197.
(53) Ivi, p. 200.
(54) Ivi.
(55) Ivi, p. 194.
(56) Ivi, p. 196.
(57) Ivi.
(58) Ivi.
(59) Sui nuovi tipi di partecipazione. M. Andretta, D. Della Porta, L. Mosca, H. Reiter, Global, no global, new global. La protesta contro il G8 a Genova, Laterza, Bari-Roma, 2002; P. Ceri, Movimenti globali. La protesta nel XXI secolo, Laterza, Roma-Bari, 2002; D. Della Porta, L. Mosca (a cura), Globalizzazione e movimenti sociali, Manifestolibri, Roma, 2003
(60) Sulla struttura sociale nella globalizzazione L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari, 2000; A. Giddens, Le conseguenze della modernità, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1994
(61) C, Crouch, Postdemocrazia, tr. it., Laterza, Bari, 2003, p. 61 e sg.
(62) Ivi, p. 68.
(63) A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 16.
(64) V. Bova, Movimenti sociali, in A,. Costabile, P. Fantozzi, P. Turi, , Carocci, Roma, 2006, p.174.
(65) G. Amato, Un altro mondo è possibile, Mondadori, Milano, 2006, p.89.
(66) Cfr, E. Martinez, Where Was the Color in Seattle?, in Dan, Reflexions on Seattle, in Globalize This!, Common Courage Press, Monroe 2000. Cfr. Ch. Aguiton, op. cit., p. 117.
(67) Ch Aguiton, op. cit., p. 119.
(68) Ivi.
(69) C. Crouch, op. cit.; U. Beck, I rischi della libertà. L'individuo nell'epoca della globalizzazione, tr. it., Il Mulino, Bologna, 2000; A. Giddens, La terza via, tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1999.

© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA