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GNOSIS 3/2006
RECENSIONI

Italia ieri - Iraq oggi
come nasce un terrorista


Alain CHARBONNIER

Due libri per due stagioni diverse. Il racconto in presa diretta di un protagonista del “partito armato” in Italia, Prospero Gallinari, e il lungo viaggio di un giornalista, Zaki Chehab, nel labirinto del terrorismo iracheno. Due realtà distanti nello spazio e nel tempo che però si legano in base alla considerazione che nessuna guerriglia può sopravvivere, senza l’appoggio della popolazione. Negli anni Settanta e Ottanta alle Brigate Rosse mancò quella massa che, al contrario, sostiene i terroristi iracheni, in virtù di vincoli religiosi e di orgoglio nazionalista. Due libri che raccontano scelte ed errori, soprattutto culturali, tanto da parte delle Brigate Rosse, ma Gallinari non sembra rendersene conto, quanto da parte degli americani, e Chehab insiste molto sull’argomento per spiegare la resistenza irachena. Due libri insomma che vale la pena leggere con dovuta attenzione.

Italia e Iraq. Paesi diversi, terrorismi diversi. Per il tempo, le motivazioni politiche, i protagonisti, i metodi, le origini.
Due libri, editi da poche settimane, raccontano e tentano di spiegare la nascita del terrorismo italiano di ieri e di quello iracheno di oggi.
Il primo, “Un contadino nella metropoli - Ricordi di un militante delle Brigate Rosse”, pagine 340, Bompiani, marzo 2006, l’ha scritto il brigatista rosso Prospero Gallinari, uno dei rapitori di Aldo Moro, che affida a queste pagine il suo percorso, da ragazzo contadino approdato alla politica a giovanotto inurbato approdato alla pratica del terrorismo, come metodo della lotta di classe.
Il secondo, “Dentro la resistenza - La guerra in Iraq, la rivolta del Medio Oriente”, pagine 273, Laterza 2006, è opera del giornalista di origine libanese Zaki Chehab ed è un interessante itinerario per comprendere come e perché i “liberatori” americani siano diventati invasori e come una resistenza popolare e diffusa si affianchi al terrorismo di matrice islamica, alla lotta dei superstiti baathisti, decisi a sopravvivere a Saddam Hussein con le armi in pugno.
Due lunghi viaggi nella crudeltà del terrore, dentro le convinzioni radicate di persone apparentemente normali, ma fortemente motivate dalle convinzioni ideologiche oppure dal rancore per offese subite, dalle vendette da consumare.
Un protagonista senza pentimento, Prospero Gallinari, e un osservatore apparentemente neutrale, Zaki Chehab, hanno partorito due racconti piuttosto barbosi, soprattutto il primo, e a tratti anche di non agevole lettura.


Con questo libro, Gallinari s’inserisce nel filone più recente di quella che si potrebbe definire la “memorialistica della lotta armata”: da “A viso aperto”, lunga intervista a Renato Curcio del 1995, passando per “Brigate Rosse: una storia italiana”, in cui è Mario Moretti a parlare, “Che cosa sono le Br” di Alberto Franceschini, fino alla storia di Prima Linea scritta da Sergio Segio, alla raccolta di racconti di Adriana Faranda, a “Ritratto di un terrorista giovane” di Valerio Morucci. Chi ieri impugnava le armi e uccideva, ora sente il bisogno di raccontare, spiegare, giustificare, recriminare e perfino bacchettare vecchi compagni di lotta accusandoli di non essere stati abbastanza determinati e coerenti.
“Scrivono per fare i conti con quella esperienza”, afferma Erri De Luca che a proposito del memoriale di Gallinari sottolinea: “E’ il secondo libro che affronta la storia delle Brigate Rosse al di fuori degli schemi di comodo e delle menzogne propagandistiche che caratterizzano la maggioranza delle pubblicazioni in merito”. Poi, in una lettera al brigatista, pubblicata in premessa al testo, De Luca scrive: “Non è un libro politico, caro Prospero, è un libro di un padre che non ha avuto figli. In questo siamo uguali”.
“Padre che non ha avuto figli” in senso proprio è un rimpianto commovente, in senso figurato, se per figli si intende “altri che hanno intrapreso la via della lotta armata”, viene da pensare “meglio così”.
Si definisce “figlio del ‘69” Prospero Gallinari che insieme con Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti, è certamente uno dei nomi di maggior spicco delle Brigate Rosse. Militante dei primi giorni, è assurto al ruolo di dirigente, conquistato sul campo, armi in pugno.
A Gallinari va dato atto di una coerenza non scalfita dal carcere, dalle ferite, dal cuore ballerino, confortata dalle certezze ideologiche che lo spingono ad assumersi tutte le responsabilità nell’ambito del percorso che lo ha portato dalla giovinezza a Reggio Emilia ai tre o quattro ergastoli collezionati nelle aule di giustizia, alla sospensione della pena per motivi di salute, alla ritrovata vita contadina.
“Un contadino nella metropoli” è un libro scritto e pubblicato senza la revisione di un letterato, senza concessioni alle leziosità. Un libro terribile che qualcuno ha definito “plumbeo”, azzeccando l’atmosfera che si respira da quelle righe, vere e proprie “pallottole di carta”, sparate da chi, benché sconfitto, pensa ancora che “la vittoria sta sulle canne dei fucili”.
La violenza terrorista emerge da queste pagine ampiamente giustificata, reazione alla “violenza dello Stato”, inserita nel contesto storico nazionale e internazionale: la guerra del Vietnam, la “guerriglia urbana” delle lotte di liberazione. E l’azione più clamorosa, la strage di via Fani, il sequestro e poi l’uccisione di Aldo Moro, secondo Gallinari, sono un fatto “cominciato dieci anni prima del ’78, avevamo già fatto centinaia di azioni contro la DC, molte gambizzazioni, attentati; avevamo combattuto fin dall’inizio contro il compromesso storico”.
Gallinari, 55 anni, nelle sezioni comuniste della sua Reggio Emilia ha respirato e assorbito l’atmosfera stalinista, il mito della “Resistenza tradita”, della lotta partigiana invincibile nelle strade delle città e sulle montagne, della necessità di suscitare “10, 100, 1000 Vietnam”, lanciata da Ernesto Che Guevara, e dell’epopea della “lunga marcia” della rivoluzione cinese, guidata da Mao Tse Tung. Nelle quasi trecentocinquanta pagine del libro questa atmosfera viene trasmessa al lettore con un senso come di disperazione. La disperazione che deriva dalla sconfitta, dal fallimento dell’ideale. Un fallimento che non è nelle cose, nei comportamenti, negli errori. Per Gallinari trova la sua origine nei pacifisti che non hanno capito come e quando fosse necessario combattere, nel Partito Comunista, troppo invischiato nella gestione del potere per pensare realmente alla lotta di classe, in alcuni compagni di lotta che accusa di non aver avuto fede fino in fondo.
Un libro “plumbeo” dicevamo, come plumbei erano i comunicati del Partito Armato. A leggere le pagine di Gallinari, sembra di scorrere di nuovo quelle paginate fotocopiate che parlavano della “guerriglia come forma di organizzazione dell’internazionalismo proletario nelle metropoli”, di “contraddizioni del sistema”, di “Stato Imperialista delle Multinazionali”, di “fronte della contro”, di “fronte delle carceri”.
Sono passati anni ma il brigatista rosso non ha cambiato idea, non ha cambiato linguaggio, è rimasto come cristallizzato. Ancora parla di “masse e potere”, di omicidi come “incidenti”, dell’omicidio di Guido Rossa come “eliminazione di una spia”, della “correttezza” della decisione di uccidere Moro.
Questo di Gallinari è un libro senza pietà e senza ripensamenti e forse proprio per questo ha un fascino perverso, una capacità di attrazione che in realtà non merita, ma che, senza dubbio, susciterà ciglia umide e apprezzamenti in quella buona parte del movimento del ‘77 che, dopo l’omicidio di Moro, “sta ora bussando alla nostra porta chiedendo di essere inquadrato e diretto sotto la linea politica delle Brigate Rosse”. Sono i giovani di ieri, uomini e donne mature di oggi, che non hanno mai fatto i conti con la realtà delle loro scelte, non hanno smesso di sentirsi “oppressi e traditi”, ancora frastornati da una sconfitta che ritenevano impossibile, convinti com’erano che “un esercito non è mai riuscito a sconfiggere una guerriglia, senza il sostegno della popolazione locale”.
Sono le parole che concludono “Dentro la resistenza” di Zaki Chehab e sembrano l’anello di saldatura con quello di Gallinari. Già, perché il “sostegno della popolazione locale”, ovvero delle “masse”, come direbbe il terrorista nostrano, è proprio quello che alle Brigate Rosse è mancato, oppure hanno avuto solo in parte, al culmine dei loro successi, mentre il terrorismo e la guerriglia irachena seguitano ad averlo, nonostante le batoste subite, ultima l’eliminazione di Al Zarkawi.


Political editor del più diffuso quotidiano del mondo arabo, “Al Hayat”, Zaki Chehab è nato in un campo profughi in Libano e ha cominciato a interessarsi dell’Iraq fin da giovanissimo. Oggi è considerato uno dei più informati e rispettati giornalisti arabi fra quanti lavorano a Londra, il suo libro ha avuto risonanza internazionale ed è uno strumento indispensabile per chi vuole aggiornarsi sulla realtà irachena, anche perché descrive i contatti con gruppi armati e una realtà del tutto ignota in Occidente.
La tesi di fondo di Zaki Chehab è che gli americani, dopo aver vinto la guerra, hanno perso la pace. Per un motivo semplice ed evidente: “L’ignoranza da parte degli americani delle complesse tradizioni e usanze della zona, combinata al trattamento riservato dalle truppe statunitensi alle tribù, hanno formato una miscela esplosiva”.
Il comportamento dell’amministrazione americana, delle autorità militari e delle truppe statunitensi rappresenta, dunque, la chiave di volta per cominciare a capire il complicato scacchiere iracheno e costituisce il filo conduttore di tutto il libro. Non a caso il terzo capitolo è intitolato proprio “Gli americani spiazzati 1990-2005”. E così, se “la strategia americana di sviluppare un dialogo amichevole con il mondo arabo è vecchia di decenni e viene spesso definita un’alleanza intelligente”, scrive Chehab, “per i neoncons, Cia e Dipartimento di Stato, in Medio Oriente hanno seguito una politica, una linea di condotta profondamente sbagliata e poco lungimirante”.
Queste oscillazioni pendolari della politica americana hanno seminato sfiducia fra gli oppositori di Saddam Hussein, spesso mandati allo sbaraglio, come il giornalista documenta, e hanno alienato a Washington molte simpatie. Non solo, il caos seguito alla cessazione dei combattimenti e al disfacimento dell’esercito iracheno era prevedibile e comprensibile, ma non furono messe in campo forze sufficienti per arginarlo immediatamente e ridurlo al minimo, con la conseguenza che, da fisiologico, il disordine è diventato patologico.
“La madre di tutte le catastrofi nella storia dell’Iraq del dopoguerra - scrive ancora Chehab - è stata la politica di debaathificazione condotta da Paul Bremer..... Larga parte della responsabilità della crescente anarchia che destabilizza attualmente il Paese è attribuita ai devastanti effetti di questo provvedimento”, cioè il divieto degli appartenenti al partito Baath di assumere incarichi governativi di alto livello.”
Così, reietti nel Paese dove avevano esercitato il potere, vittime di regolamenti di vecchi conti, migliaia di baathisti furono massacrati, senza che le autorità americane muovessero un dito, con la conseguente “creazione di un nuovo esercito di terroristi, evento di cui tutti nel Paese scontano il prezzo”.
Traspare evidente da ogni pagina l’incapacità americana di comprendere una cultura diversa, profondamente conservatrice, intollerante rispetto a comportamenti che in Occidente sono dati per pacifici, nella quale il concetto di tribù ha ancora un ruolo fondamentale, come la divisione religiosa fra sciiti e sunniti.
Così nel cuore stesso del potere di Saddam, a Tikrit, racconta al giornalista lo shaykh Bader, fra i militari americani e i leader tribali si instaura un ottimo rapporto: “ricevemmo assistenza per ripristinare i servizi di base, per restaurare l’ordine, al punto che venne a crearsi un rapporto simbiotico fra gli abitanti di Tikrit e i soldati americani.”
Un’intesa che durò appena un paio di settimane, perché i giovani marines non avevano alcun rispetto per gli anziani leader tribali abituati a una profonda deferenza: li fermavano, li facevano scendere dalle macchine, li perquisivano e, cosa ancora peggiore, perquisivano le donne, violando un vero e proprio tabù sessuale. E per buona misura si comportavano da cowboy in libera uscita, durante i raid notturni, facendo man bassa di oggetti e preziosi nelle abitazioni nelle quali entravano.
In buona sostanza, fa capire Chehab, se pure a livello governativo era stato capito e codificato, almeno in parte, il tempo e il modo per la ricostruzione dell’Iraq democratico, lo stesso messaggio non era stato trasmesso e assorbito dalle truppe sul campo.
Fra i numerosi passi falsi, Chehab annovera anche la scelta di chiedere alle Nazioni Unite il riconoscimento come forza “occupante” in Iraq, dopo aver passato mesi a convincere gli iracheni che l’esercito americano era lì per liberarli. Da quel momento anche i più filoamericani si trovarono in difficoltà: l’idea di occupazione è semplicemente inaccettabile per persone orgogliose della propria ricca tradizione storica.
La conclusione è ovvia: in un paese dove le armi pullulano, dove forze militari straniere fanno il brutto e il cattivo tempo, dove alla guerriglia diciamo così “civile” si affianca un terrorismo di matrice islamica integralista che attrae militanti da quasi tutti gli stati musulmani, la nascita e la crescita di una forza di resistenza è quasi automatica, in attesa di un governo nazionale effettivamente capace.
Zaki Chehab non ha dubbi: la sconfitta del terrorismo arriverà quando il popolo iracheno cesserà di fornire a terroristi o guerriglieri che dir si voglia l’indispensabile supporto.
Va detto infine che oltre le considerazioni e i tentativi di “spiegare” il terrorismo in Iraq, il libro di Chehab è anche un interessante prontuario sulle forze in campo, sulle ramificazioni dei vari gruppi terroristici, sulle implicazioni con le nazioni vicine, indispensabile per capire alleanze e passaggi di campo, la ferocia degli attentati e la “funzione” dei sequestri di persona.



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