La scommessa di Putin
Sergio Romano
Negli anni della sua formazione Vladimir Putin ebbe tre maestri. Il primo fu il padre. Cittadino di Leningrado, raccontava al figlio i mesi terribili dell’assedio, quando i tedeschi erano ormai alle porte di casa e chiunque sfuggisse ai micidiali bombardamenti della Wehrmacht rischiava di morire per fame. I racconti del padre furono una lezione di patriottismo e il giovane Vladimir imparò sul campo un amor di patria che è ormai una radicata componente del suo carattere. Il secondo maestro fu Anatolij Sobčak, morto nel 2000, un brillante avvocato e un eccellente giurista. Era diventato membro della Duma (il parlamento nazionale) e ne aveva scritto i regolamenti all’epoca di Gorbačëv, quando la Russia voleva essere una democrazia occidentale. Ma aveva anche una cattedra alla Università di Leningrado e Putin era stato uno dei suoi allievi. Divenuto sindaco della città, Sobčak, convinto che il suo allievo avrebbe avuto un futuro politico, lo volle con sé per insegnargli il funzionamento dello Stato e il governo della cosa pubblica. Quando ebbe una borsa di studio e decise di impiegarla nell’apprendimento del tedesco, il giovane Vladimir scelse Dresda, in Germania, e fu avvicinato nell’università da alcuni agenti dei servizi segreti russi che arruolavano abitualmente i loro giovani allievi nelle istituzioni accademiche. Il KGB divenne il suo terzo maestro. Se il padre gli insegnò il patriottismo e se da Sobčak apprese la gestione dello Stato, il KGB fu contemporaneamente una scuola e una famiglia. Lavorando nei servizi imparò le doti del mestiere, fra cui una ragionevole dose di cinismo, ma anche di lealtà per i compagni e gli amici. Della utilità di queste virtù ebbe una indiretta testimonianza quando un giorno, mentre lavorava per il sindaco di Leningrado, fu incaricato di ricevere all’aeroporto un famoso visitatore americano, Henry Kissinger (già segretario di Stato dal 1973 al 1977). Sempre instancabilmente curioso, Kissinger, mentre correvano in automobile verso la città, volle sapere quale fosse stata la sua formazione e Putin gli confessò di avere esordito nei servizi segreti. Con una punta di cordiale ironia Kissinger commentò: «Tutte le persone perbene hanno cominciato nei servizi segreti. Anch’io».
La famiglia dell’Intelligence, con tutti i vizi delle sue trame e dei suoi complotti, ebbe anche il merito di difendere Putin dalle ideologie. Era soprattutto un patriota russo, allevato nelle file del KGB durante la gestione di un grande maestro altrettanto patriota, Jurij Andropov, dal 1967 al 1982, anni in cui l’URSS era universalmente riconosciuta come una grande potenza. Non è mai stato un convinto comunista, non ha mai condiviso il culto di Lenin e quando divenne presidente della Repubblica si sbarazzò subito del suo busto di bronzo che troneggiava tradizionalmente nello studio presidenziale. Fu tra i primi, al vertice dell’apparato statale, a deplorare la pace di Brest-Litovsk, il trattato firmato in Bielorussia il 3 marzo 1918 con cui Lenin e Trockij sacrificarono agli Imperi centrali un terzo dell’Impero russo per non perdere la prospettiva rivoluzionaria che avevano conquistato con il colpo di Stato dell’ottobre 1917.
Il principale obiettivo di Putin, quando divenne presidente, fu la restaurazione della potenza russa in Europa e nel mondo. Credo che se gli Stati Uniti, con i loro alleati, avessero trasformato la NATO in una organizzazione per la sicurezza collettiva della intera area euro-atlantica e avessero offerto a Mosca una decorosa partecipazione, la Russia di Putin sarebbe stata un partner affidabile. Ma gli Stati Uniti credettero di potersi comportare da vincitori, conservarono la NATO nelle sue originali funzioni e permisero agli ex satelliti dell’URSS (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) di farne parte e di cogliere l’occasione per saldare qualche conto con gli eredi dell’URSS. Quelle degli americani furono decisioni compiacenti e pericolosamente inutili per quegli stessi Paesi che, divenuti membri della Unione Europea, avrebbero potuto avere in un grande Paese ricco di materie prime, come la Russia, uno straordinario partner economico. Non è sorprendente che la Russia, in queste circostanze, abbia considerato quei Paesi come suoi potenziali nemici. E non è purtroppo sorprendente che abbia reagito con gli spregiudicati mezzi di cui disponeva e che sa manovrare con una tradizionale perizia. Non mi è sembrato sorprendente che cercasse sovente amici fra i nemici dei suoi nemici. È questa la ragione per cui durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016, la Russia puntò su Donald Trump, il presidente americano che stava cercando di distruggere tutto ciò che la democrazia americana aveva costruito negli anni precedenti.
La Russia ha preso iniziative molto criticabili ed è diventata una minaccia per l’ordine mondiale. Ma credo che sia necessario cercare di comprenderne i motivi. Dopo avere sconfitto la Germania a Stalingrado, nella battaglia decisiva della Seconda guerra mondiale, l’URSS, negli anni della Guerra fredda, fu una potenza ideologica, portatrice di un messaggio che aveva suscitato grande interesse e persino speranze in qualche democrazia occidentale. Era una potenza spregiudicata e spesso crudele con coloro che non condividevano le sue posizioni e i suoi metodi (penso alle purghe degli anni Trenta). Ma anche gli Stati Uniti (il maggiore antagonista) dettero prova, in alcune circostanze (penso a Cuba e al Vietnam), di sussulti imperiali. La Russia era insomma una potenza mondiale con cittadini che avevano buone ragioni per essere orgogliosi della loro patria.
La Guerra fredda era finita e la Russia faticava a trovare un ruolo che corrispondesse alle sue potenzialità e alle sue ambizioni. Gorbačëv, nella sua veste di segretario generale del partito, fece riforme importanti e tentò di trasformare l’URSS in uno Stato democratico di cui sarebbe stato il presidente eletto dal popolo. Ma esisteva un partito comunista che era uno «Stato nello Stato» e garantiva, nonostante i suoi molti difetti, la stabilità del Paese, il funzionamento della macchina governativa, le relazioni con la società internazionale. Era la sua spina dorsale e faceva il suo compito, tutto sommato, con una certa perizia.
Tutto cambiò quando un ambizioso concorrente di Gorbačëv, Boris Él’cin, lo costrinse a sciogliere il partito e a demolire così l’intera impalcatura che reggeva il Paese. Il primo risultato fu il risveglio dei molti nazionalismi che componevano l’URSS e la progressiva disintegrazione dello Stato. Él’cin ebbe il merito di privatizzare le industrie (erano tutte proprietà dello Stato), ma i nuovi proprietari si arricchirono spudoratamente, il governo non seppe o non volle esercitare un severo controllo e gli «oligarchi», come vennero chiamati, seminarono nell’intero Paese debiti, corruzione e criminalità. Uno Stato che negli anni precedenti aveva incarnato l’eguaglianza sociale divenne un simbolo di spregiudicatezza e pirateria economica.
Anche la scienza e la natura furono in quegli anni nemiche della Russia. L’incendio del reattore nucleare n. 4 di Černobyl’, il 26 aprile 1986, costrinse 116.000 persone ad abbandonare le loro case. I militari intervenuti per spegnere l’incendio furono straordinariamente coraggiosi, ma vennero esposti a pericolose radiazioni.
Due anni dopo, il Paese fu colpito da un nuovo disastro. Il 7 dicembre 1988 un terremoto in Armenia distrusse molti centri urbani e alcune decine di villaggi. Per la prima volta nella storia dell’URSS, Michail Gorbačëv chiese aiuto agli Stati Uniti e ricevette una generosa assistenza da 113 Paesi. Fu una splendida pagina di storia umanitaria, ma anche la dimostrazione della esistenza di molte carenze nel sistema amministrativo del Paese e delle sue strutture sanitarie. Privata della sua ideologia e ferita dalla natura, l’URSS rischiava di perdere prestigio nella società internazionale e doveva trovare nuove energie e nuovi obiettivi. Doveva decidere che cosa avrebbe fatto nel XXI secolo.
P.S.
Scegliendo alcune pagine del libro per i lettori di Gnosis, mi è tornato alla mente un episodio che potrebbe incuriosirli.
Ero a Mosca nell’agosto 1991 e l’Unione Sovietica stava esalando l’ultimo respiro. Decisi di fare una passeggiata nel Krimskij Val, il grande giardino sui bordi della Moscova dove erano state trasportate alcune delle statue abbattute dai manifestanti nelle maggiori piazze della città. Vi era fra le altre quella di Feliks Edmundovič Dzeržhinskij, amico di Lenin, creatore della Čeka e santo patrono del KGB. La statua sorgeva di fronte al palazzo della Lubjanka, sede dei Servizi sovietici. Quando la folla convenuta sulla piazza, dopo avervi legata una corda al collo aveva cominciato a tirare, un gruppo di funzionari del KGB era uscito dal palazzo e aveva spiegato alla moltitudine tumultuante che il simulacro, cadendo, avrebbe sfondato la strada e sarebbe precipitato nella metropolitana. Gli stessi funzionari si offrirono quindi di chiamare un carro attrezzi per la sua rimozione. Gli agenti della vecchia Čeka erano uomini d’ordine e non potevano tollerare una rivoluzione disordinata e male organizzata.