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GNOSIS 2/2006
RECENSIONI

Quando uccidere era 'giustizia proletaria


Alain CHARBONNIER

Con il suo stile incalzante l’autore delle nostre recensioni ci accompagna alla scoperta di due libri che corrono lungo la linea della narrazione mista all’analisi socio-politica. La sintesi che ci offre Alain Charbonnier ha, come sempre, un ritmo che cresce e che ci guida fino al termine della lettura lasciandoci la sensazione propria di chi, durante un viaggio, scorge un panorama che merita una sosta, che va meditato, che si ha il desiderio di fotografare per averne una traccia. E’ ciò che accade quando un qualsiasi elemento dell’esistenza ci regala uno spunto di chiarezza, un dono emotivo, una occasione per riflettere.

"Hazet 36, fascista dove sei?". Era il grido di battaglia dei "cacciatori di fascisti" degli anni Settanta. L' "Hazet 36" era una di quelle chiavi a stella di maggior misura, lunghe e pesanti, che servirono a un gruppetto del servizio d'ordine di Avanguardia Operaia per spappolare il cervello di Sergio Ramelli, a Milano. E la usavano perché era comoda e non poteva essere annoverata come arma.
Per individuare, arrestare e processare i colpevoli ci vollero i pentiti che avevano abbandonato la lotta armata e dieci anni di indagini. Ma dinanzi alle confessioni, si levarono voci di intellettuali di rango a sostenere che "non si può processare il '68" e la "non punibilità delle violenze giovanili di allora". Quasi avvertissero che quel processo era un processo a loro stessi, all'essere stati "cattivi maestri" di una generazione che ha pagato e sta pagando il prezzo di una rivoluzione mancata, soprattutto con il rimorso che si porta nell'anima.
Proprio qui sta il problema: il rimorso. Il rimorso appartiene alle anime semplici e oneste, alle persone che sentono dentro di sé il peso della colpa, a quanti non razionalizzano e non si autoassolvono, collocando nel "politicamente corretto" le azioni più riprovevoli. Per gli altri, il rimorso è una sovrastruttura psicologica, della quale liberarsi, chetando la coscienza, con la giustificazione dell'ideologia, della "la violenza degli altri", dell'impossibilità di cambiare il sistema per via democratica.
Il caso ha voluto che comparissero in libreria contemporaneamente due libri: uno scritto da un giovane giornalista che non ha vissuto gli "anni di piombo", l'altro da un anziano, se così si può dire di un uomo di 55 anni, che invece di quegli anni fu fra i protagonisti: Luca Telese e Maurice Bignami.
Il libro di Telese, Cuori neri, Sperling & Kupfer editori, pagine 800, Milano 2006, ha avuto recensioni lusinghiere sui maggiori giornali italiani, ha provocato riflessioni sul ruolo della stampa e degli intellettuali in quegli anni terribili, in cui la linea di demarcazione era netta: a sinistra i duri e puri, a destra soltanto criminali. Ma ha suscitato anche feroci attacchi da parte di giovanotti e meno giovanotti che ancora sognano Che Guevara che scende dalla Sierra Maestra. Basta andare a cercare sul sito di "Indymedia" per vedere come è stato accolto Cuori neri.
Meno "storico" e più personale, per certi versi intimistico, il volume di Maurice Bignami , Edizioni Bietti, pagine 476, Milano 2005. Un libro che racconta le vite parallele del padre Torquato, "Nino Patata", militante comunista, partigiano, reduce da mille esperienze, e il figlio Maurice ex "comandante militare" di Prima Linea, condannato a diversi ergastoli, dissociato dalla lotta armata e oggi responsabile delle "Case famiglia" della Caritas romana.
Da qualche parte, tuttavia, si è sollevato il dubbio che si tratti di un tentativo di revisionismo strisciante, quasi una "rilettura" di quegli anni in cui morire era fin troppo facile solo perché uno aveva i capelli lunghi, leggeva un certo giornale, affiggeva un manifesto, rifiutava un volantino.


Luca Telese, pagina dopo pagina, ricostruisce 21 delitti, 21 storie nere e tragiche dipanatesi fra il 1970 e il 1983. Da Ugo Venturini, colpito il 18 aprile 1970 a Genova da una bottiglia piena di sabbia, lanciata contro il palco del comizio di Giorgio Almirante, a Paolo di Nella, ucciso a Roma il 2 febbraio 1983.
Sono tragedie che Telese non ha vissuto in prima persona. Ma da buon giornalista, si è documentato su tutte le fonti disponibili, dai quotidiani alla memorialistica, ai pamphlet militanti. Ha ascoltato i testimoni e quando possibile i protagonisti.
Ha distillato così pagine che trasudano ricordi angoscianti, a volte orgogliose rivendicazioni, più spesso orrore. Ma anche riflessioni su quell'eravamo, di come eravamo incarogniti, al punto da negare all'avversario qualsiasi dignità.
A distanza di anni, Renato Curcio dirà che l'omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, nella Federazione del MSI, il 17 giugno 1974 , a Padova, "per le Brigate Rosse è stato un incidente di percorso".
Del resto, come scrive Telese, in quel periodo "ogni morte naturale nasconde di certo il dubbio di un avvelenamento o di una montatura, ogni valigia contiene un segreto, e se un militante dell'MSI muore nella sede del suo partito ucciso da un commando, la cosa più probabile è che fosse un agente segreto impegnato in una caccia al tesoro magari con gli stessi brigatisti."
A differenza di Cuori neri che si snoda in un arco di meno di quindici anni, Gli uomini eguali attraversa tutta la storia del '900. E la racconta con gli occhi e con il vissuto di un comunista coerente, fedele ai suoi ideali e al partito, alle cui scelte e direttive ha subordinato le scelte personali e i sentimenti familiari.
Nelle pagine si dipanano luoghi e personaggi, azioni e sentimenti, il dramma e l'ironia. Quello di Torquato Bignami è un itinerario che comincia a Bologna e finisce a Bologna, dopo aver toccato la Francia, l'Africa, la Russia, intrecciato con l'antifascismo militante, la chiamata alle armi, il fronte, gli arresti, l'armistizio e la Resistenza, la latitanza in Cecoslovacchia, fino al ritorno nel quartiere da dove era partito: il Pratello. E dal Pratello prende le mosse la storia di Maurice, il figlio che si ritrova a percorrere una strada per molti versi simile a quella del genitore. Al punto che entrambi finiranno in carcere. Lui, Maurice, condannato a vita, l'altro, Torquato, condannato a sei anni per "partecipazione a banda armata", tutti regolarmente scontati.
Nel secondo dei sei capitoli di snodo, contrassegnati nell'ordine con i colori blu, verde, rosso, giallo, magenta e ciano, Bignami scrive: "La storia di mio padre è una storia di famiglia e un'incursione corsara nelle tragedie del Novecento. Un secolo complicato e nefando, con storie di provincia dolenti e raggelanti quanto quelle continentali, ma altrettanto schiette e vitali, ché lo spirito di contraddizione ha trovato in quei giorni la sua dimora più cara...."
E parlando di "dolore che mi fracasserà il cuore", ricorda la morte della madre e quella della giovane Barbara, uccisa in un conflitto a fuoco "quando eravamo ancora in guerra e dare la vita ti pareva doveroso, visto che eravamo disposti a dispensare la morte".
In quei capitoli colorati è la voce di Maurice che fa il contrappunto a quella di Torquato, ripensando alle lotte della sua generazione negli anni Settanta, ma senza contrapporsi e tantomeno rubare il campo al padre, vero protagonista di Gli uomini eguali.


Dice oggi Bignami in una intervista a Paolo Tavella per il quotidiano Il Foglio: "Sì, siamo quelli che quando sentono il rullo del tamburo devono andare. Però se credi che ci piacesse la violenza, a noi e agli altri prima di noi, a mio padre e ai suoi, sbagli e sbagli grandemente. Non mi piaceva, ci sentivamo malissimo perfino a commettere atti illegali, questo è l'aspetto demoniaco della nostra storia. Piuttosto abbiamo amato l'eccitazione, la sensazione di vivere in un tempo mitico fatto solo dal presente, senza passato e rigorosamente privo di futuro."
Testimonianza di un'esperienza, quella di Prima Linea, che secondo Bignami non aveva legami con i vecchi resistenti e i comunisti storici e spiega: "Consapevoli o meno, eravamo di fatto estranei alla tradizione comunista. I brigatisti volevano fare il governo rivoluzionario e dirigere il prossimo gulag... L'accusa che i comunisti ci mossero, di essere piccolo borghesi, è vera: pensavamo che ci fosse più libertà nelle pieghe della società capitalista che in qualunque socialismo".
Un'ammissione forte, una sorta di constatazione, più che una confessione di quella che era l'anima sostanziale del "Movimento" e di quanto ne è scaturito. L'aveva già intuita Pier Paolo Pasolini, quando scrisse della contrapposizione di classe, quella mattina a Valle Giulia, quasi quaranta anni fa: i proletari erano i poliziotti, i ricchi i giovanotti che li prendevano a sassate e li disprezzavano in nome della rivoluzione. Alcuni di loro dopo qualche anno sarebbero entrati nel partito armato.
Ne erano perfettamente convinti gli apparati del Partito Comunista che però, applicando leninisticamente il principio della doppia morale, da una parte condannavano e dall'altra difendevano gli assassini dei Cuori neri, anche quando le prove erano schiaccianti, anche quando qualche volta ammettevano le loro colpe. Alcuni lo fanno ancora oggi.
A parte il "memento" di una stagione cattiva, fatta di un livore verso l'avversario che diventa nemico, Telese spiattella in faccia al lettore un ambiente intellettuale e politico che continua ad alzare il ditino accusatore. E se Oreste Scalzone utilizza il libro per ridiscutere "affari di bottega", per dimostrare cioè che non fu soltanto Potere Operaio a scivolare nella propaganda armata con annessa "giustizia proletaria", Marco Boato rileva che è lungo anche l'elenco dei morti di sinistra, per aggiungere che è più utile "sottolineare che l'oblio è stato comune alle due parti politiche. Sì, ognuno tende a ricordare soltanto le proprie vittime: quanti anche a sinistra, conoscono per esempio il nome di Paolo Rossi , giovane cattolico socialista ucciso nel 1966 da estremisti di destra mai identificati?"
Ecco, gli anni sono passati, le stagioni sono diverse, i protagonisti della lotta armata, i rossi della giustizia proletaria e i neri dello spontaneismo armato sono quasi tutti usciti dal carcere, si sono riadattati alla vita normale, "borghese", routinaria. Qualcuno ha anche fatto carriera, altri si sono dati alla carità, all'assistenza con le cooperative del volontariato.
Sono i "giustizieri" di ieri, mai i "cattivi maestri" che teorizzavano, ma non tiravano, non impugnavano la "Hazet 36", frequentavano i dibattiti e i salotti, qualche volta le piazze. Lo sottolinea i libro di Telese. Fanno rabbrividire le pagine con le lettere di solidarietà scritte da Franca Rame, Natalia Ginzburg, Riccardo Lombardi, al responsabile del rogo di Primavalle oppure all'assassino di Carlo Falvella, Giovanni Marini. All'anarchico fecero vincere addirittura un Viareggio per la poesia, graticciata da Giorgio Caproni di "un simbolismo quasi ungarettiano", mentre ad Alberto Moravia piacevano quelle poesie che "si ammantano di una vena barocca metaforica, quasi un tocco di surrealismo".
E' la solidarietà militante degli intellettuali così simile a quella di tanti giornalisti, oggi tutti ben riciclati, instancabili cacciatori di retroscena, agenti segreti, vendette interne, complotti di Stato, sempre con un colpevole in una tasca e con un'assoluzione o una giustificazione nell'altra.
Riassumerà quel clima Giampaolo Pansa ne L'Utopia armata, a proposito del duplice omicidio nella Federazione del MSI di Padova: "Anche i terroristi rossi fecero i loro primi morti. Accadde a Padova nel 1974. Ma poiché era stato versato sangue missino, neppure quelle due vite spezzate bastarono. Per spiegare un delitto che non rientrava nello schema del Robin Hood vendicatore, però mai assassino, certuni inventarono per i loro lettori una macchinosa storia di faide interne al neofascismo che s'erano coperte con la sigla brigatista. Altri si rallegrarono dal momento che i morti erano fascisti e quindi, secondo lo slogan, soltanto carogne, tornate finalmente nelle fogne. Altri continuarono a dire: "Sì, uccidono, ma hanno delle idee e lottano per cambiare questa società".
Era la premessa al passaggio successivo: "Né con lo Stato né con le BR".
Rimane il fatto che un giornalista con matrice di sinistra ha riscoperto i morti di destra. Mentre un militante della sinistra armata ha riscoperto una umanità perduta durante anni troppo bui.
Due libri Cuori Neri e Gli uomini eguali che invitano a un esame di coscienza, non per cambiare la storia che non si può cambiare, neppure per procedere ad un macabro conteggio dei morti, tanti alla mia parte, tanti alla tua.
Alle parole di oggi, ai "mea culpa" più di circostanza che per profondo sentire, fa riscontro il pudore dei familiari dei caduti di allora, in attesa di giustizia, ma soprattutto di un perché, in taluni casi ancora inconoscibile, in nome di una granitica solidarietà politica.
Ma fa da riscontro anche la conclusione di Bignami nel capitolo "Ciano": "I miei argomenti stavano sulle palle a tutti, a destra e a sinistra. Era ormai da anni che accadeva; di sicuro, era da quando assieme a Sergino (Sergio Segio, altro capo di Prima Linea - n.d.r.) avevo annunciato in un'aula di giustizia a Torino, nell'83, quasi vent'anni prima, lo scioglimento di Prima Linea e la fine della lotta armata. In un solo botto mi ero alinato le simpatie degli ultimi assatanati e quelle dei finti supporter. Non si capacitavano quei poveretti che avevamo avuto l'ardire di smetterla".
L'ardire di smetterla.
Forse proprio questo è il messaggio di Cuori neri e di Gli uomini eguali



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