Lo stato della Cina
Sergio Romano
Quando divenne ministro degli Esteri per la seconda volta, nel dicembre del 1968, Pietro Nenni volle realizzare l’obiettivo che si era proposto dopo un incontro con Mao Zedong durante un viaggio a Pechino nel 1955. Più tardi Nenni era rimasto molto impressionato dalla rivoluzione culturale.
I comunisti cinesi gli erano parsi molto più disponibili di quelli sovietici ad ascoltare dissenso e proteste; e gli era sembrato giunto il momento di ristabilire con la Cina i rapporti interrotti nel 1949, quando le forze comuniste di Mao avevano vinto le ultime battaglie della guerra civile contro i nazionalisti del Kuomintang comandati da Chiang Kai Shek e avevano proclamato dalla Pechino conquistata la nascita della Repubblica Popolare. Ma esisteva ancora una Cina nazionalista che finì per installarsi in un’isola chiamata dai cinesi Taiwan e dai portoghesi Formosa. Mentre quasi tutte le democrazie occidentali continuarono a riconoscere la Cina di Chiang, le ambasciate dell’Urss e delle democrazie popolari rimasero a Pechino e l’intera vicenda fu considerata, in Europa e negli Usa, un’inquietante vittoria del comunismo sulla democrazia.
Due conflitti, negli anni seguenti, parvero confermare questa tesi. La guerra di Corea scoppiò nel giugno del 1950, quando la Repubblica comunista del nord aggredì quella democratica del sud per conquistare il dominio dell’intera penisola. Gli Stati Uniti convocarono il Consiglio di sicurezza e, grazie all’assenza del rappresentante sovietico, ottennero una risoluzione che invitava gli altri Paesi a sostenere la Repubblica del sud contro l’invasore. Cominciò così una belligeranza cui presero parte anche le forze della Cina comunista con un contingente sul terreno di circa 200.000 uomini. Dopo fasi alterne, la guerra si concluse il 27 luglio 1953 con un armistizio che lasciava le cose com’erano. Ma il numero dei soldati americani che avevano perso la vita (142.000) rafforzò i sentimenti di ostilità che la società statunitense provava per la Cina comunista.
La guerra del Vietnam scoppiò nel 1961 quando gli Stati Uniti inviarono, dapprima, istruttori militari per evitare che le forze del sud soccombessero a quelle comuniste e, più tardi, quando il nord divenne molto più bellicoso, spedirono forze combattenti sino a formare un contingente composto da circa 400.000 unità. La Cina, in quel caso, non prese posizione e sembrò anzi non approvare la politica vietnamita. Ma molti americani erano convinti che dietro ai coreani del nord e ai vietcong vi fosse sempre la grande potenza cinese. La loro percezione cambiò quando si accorsero che dagli Stati più piccoli della regione anche la Cina era considerata un ambizioso impero coloniale. Cominciarono allora fra vietnamiti e americani, durante la presidenza di Richard Nixon, negoziati per la cessazione delle ostilità. L’accordo fu firmato a Parigi il 22 gennaio 1973, ma la partenza degli statunitensi da Saigon fu piuttosto caotica e il loro Presidente, nel frattempo, si era spinto più in là con una iniziativa che avrebbe cambiato il clima politico e le relazioni internazionali dall’Atlantico al Pacifico. Sollecitato da un consigliere che diverrà più tardi Segretario di Stato (Henry Kissinger), Nixon approvò le conversazioni avviate con i diplomatici cinesi per il viaggio che avrebbe fatto in Cina con grande compiacimento di entrambi i Paesi. Questa brillante operazione diplomatica era cominciata con un lungo incontro a Pechino fra Kissinger e il ministro degli Esteri cinese Chou En-lai, che il primo raccontò qualche anno dopo in un lungo libro di memorie intitolato Gli anni della Casa Bianca (1982). Il quadro che emerge dalla descrizione di Kissinger è quello di due giganti della diplomazia che si osservano, si scrutano e si am-mirano ma non mancano, al tempo stesso, di mantenere alta la guardia. Ben preparata da questi due protagonisti della storia diplomatica del XX secolo, la visita di Nixon a Pechino fu un grande successo e produsse un risultato importante per l’intera società internazionale. La Cina, da quel momento, non sarebbe più stata un’altra pedina comunista nella scacchiera dell’Unione Sovietica. Per le democrazie sarebbe stata una potenza con i suoi obiettivi e le proprie ambizioni, un avversario in alcune circostanze ma anche un legittimo compagno di viaggio per iniziative comuni e, soprattutto, uno straordinario partner commerciale. Con il passare del tempo, tuttavia, constatammo che il comunismo in Cina era stato sostituito da un nazionalismo che rivendicava le origini imperiali del Paese e, quindi, i territori che dell’Im-pero cinese avevano fatto parte, fra cui Hong Kong e il Tibet.
Ne abbiamo fatto una recente esperienza quando essa ha imposto a Hong Kong una legge sulla sicurezza che le permette di applicare norme di poli-zia illiberali alla popolazione dell’ex territorio britannico.
Ma questo regime poliziesco, nel frattempo, continua a praticare con grande successo le regole dell’economia di mercato. Dopo avere archiviato i precetti di Mao (voleva un’acciaieria in ogni villaggio e la statizzazione dell’intero sistema industriale), la Cina ha ottenuto, nel campo economico, risultati sorprendenti.
Per quasi trent’anni il prodotto interno lordo è cresciuto mediamente del 10% e solo negli ultimi anni la percentuale è scesa al 6-7%. Il tasso di disoccupazione per una popolazione che conta un miliardo e 378.000 milioni di persone è il 6%. Nel 2018 l’interscambio della Cina con l’Italia avrebbe superato i 43 miliardi di dollari e l’Italia sarebbe ora il quarto fornitore del-la Repubblica Popolare.
Il suo maggiore cliente sono gli Usa. Per molto tempo la Cina è stata an-che la migliore acquirente di buoni del Tesoro americani, sino a diventare proprietaria di una parte considerevole del debito pubblico degli Stati Uniti. Più recentemente, per garantire a sé stessa una crescente partecipazione all’economia mondiale, ha lanciato un piano per la costruzione di una rete d’infrastrutture (One Belt One Road) che è stata definita una nuova ‘via della seta’ e che da parte di qualche sospettoso osservatore è stata considerata uno strumento per estendere l’influenza cinese in tutto il mondo. Con la stessa diffidenza è stata vista una grande azienda cinese, leader globale nel settore dell’Information and Communication Technology. Si chiama Huawey, vale un terzo del mercato ed è all’avanguardia nelle reti mobili di quinta generazione (5G), lo standard del futuro che guiderà l’evoluzione di internet.
Ma queste caratteristiche potrebbero permetterle di trasmettere alla casa madre anche dati preziosi sulle tecnologie dei Paesi in cui vengono installate. Questi timori e sospetti vengono soprattutto dagli Stati Uniti dove la paura della tecnologia cinese sembra essere persino maggiore di quella che gli americani provavano per il comunismo cinese. Queste preoccupa-zioni sarebbero legittime se servissero a eliminare qualche rischio. Ma nelle mani dell’attuale presidente degli Stati Uniti sono diventate un’arma per nuocere soprattutto alla Cina, ma anche, di riflesso alla Ue.
La Commissione europea, con i suoi tre maggior rappresentanti (Presidente della Commissione, Presidente del Consiglio e Alto Rappresentante per la politica estera), ha incontrato in videoconferenza a Bruxelles nello scorso giugno, in occasione del XXII vertice bilaterale, un trio cinese di cui faceva parte anche il presidente del partito comunista cinese Xi Jinping. Sono stati affrontati, per qualche reciproco chiarimento, anche alcuni problemi scabrosi: i diritti umani in Tibet e a Hong Kong, gli aiuti di Stato di Pechino alle ditte cinesi che operano nel mercato del Vecchio continente, una campagna di disinformazione che la Cina ha organizzato contro l’Unione, le divergenze sulla gestione della pandemia nella sua fase iniziale. Ma, a differenza di ciò che accade tra la Cina e gli Stati Uniti, la Cina e l’Unione europea si parlano e fanno affari.