GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 1/2006
Banlieue in rivolta
vecchie violenze e nuovo welfare


Pio MARCONI

Un conflitto nella civiltà

Una sequenza di violenze di massa, dotata di forti significati sociali, portatrice di messaggi antagonisti, orientata ad obiettivi invisibili, coinvolgente un popolo giovane, non animata da centri direttivi, opposta ai simboli (prima che al sistema), come quella che ha colpito Parigi e la Francia tra il mese di ottobre e quello di novembre del 2005, non è fatto in assoluto nuovo, in Francia, Europa, Occidente sviluppato; né sulla scena mondiale. Anche il manifestarsi di violenza di strada animata da attori dotati di specifiche identità etniche e religiose non è nuovo, nella cronaca recente.
Eppure ci sono alcuni errori da evitare nell’interpretare quei fatti: il primo è la banalizzazione delle azioni e ancor prima delle motivazioni che le hanno prodotte, il secondo è una analisi troppo generale del contesto entro e contro il quale si manifesta la violenza, il terzo è una enfatizzazione impropria di alcuni caratteri che ne distinguono gli attori.
E’ bene segnalarlo subito, per evitare scorciatoie interpretative: il Novembre Francese non è stato una manifestazione dello scontro di civiltà, piuttosto l’esplosione di un conflitto nella civiltà.
Un tipo di banalizzazione diffusa consiste nel ricondurre venti giorni di violenza di strada a versione concentrata di uno stillicidio di episodi (distruzione di cose, beni pubblici e privati, aggressioni a persone, azioni prive di una spiegazione razionale, prevalentemente animate da giovani) che ha accompagnato in Francia, ma anche in Italia, in Germania, in Spagna, in Inghilterra, negli USA, la vita quotidiana degli ultimi decenni.
Se si sommano in Francia gli atti di distruzione gratuito/simbolica compiuti nel corso di tre anni, da bande o gruppi di gioventù marginale (in senso sociale o esistenziale) si può giungere, per un numero di episodi, per quantità delle lesioni a persone o di danni a beni immobili, a cifre simili a quelle emerse dai consuntivi redatti a conclusione delle rivolte di novembre.
I dati raccolti da numerose ricerche sulla predisposizione dei giovani alla violenza contro le persone e le cose, e alla stessa violenza contro sé stessi, meritano attenzione ma non bastano a spiegare venti giorni di sollevazione concentrata in un ambiente sociale e in una area socio geografica determinata. In Francia (a partire dal 1975) c’è stata sicuramente una lievitazione dei delitti di nuova violenza (1) .
Ma nel novembre parigino vi è stato qualcosa di molto di più di quanto già segnalato: per la concentrazione degli eventi nel tempo e nello spazio, per l’omogeneità etnica e sociale degli attori, per frammenti di soggettività che sono emersi. La Federazione francese delle società di assicurazione lamenta, in soli 20 giorni, danni per 200 milioni di euro dei quali 23 milioni destinati a risarcire 10 mila veicoli incendiati.
Il Ministero dell’Interno registra 233 edifici dati alle fiamme o danneggiati. Nel campo educativo sono stati segnalati 255 danneggiamenti di immobili a destinazione scolastica. Inagibili una quindicina di biblioteche. Le poste segnalano un centinaio di veicoli incendiati e 51 uffici colpiti. Aziende private lamentano danni: 20.000 metri quadri devastati in una concessionaria auto e in una industria tessile (2) .
I morti sono stati in tutto quattro (3) , non pochi anche se non paragonabili ai 54 provocati dai moti di Los Angeles (4) nel 1992.


La rivolta postindustriale

Il Novembre Francese non può nemmeno essere ridotto a una generale categoria di rivolta sociale. La formazione della società industriale moderna è stata accompagnata da rivolte popolari (non riconducibili immediatamente alla “lotta di classe”) che, nel tempo e nello spazio, hanno assunto ed assumono caratteri diversi (5) . Rispetto ai movimenti spontanei o alle rivolte dei poveri che si sono manifestate in società ad elevato sviluppo nella seconda metà del XX secolo e che ancora oggi continuano a esplodere in aree del Terzo Mondo, il Novembre Francese ha delle peculiarità che riguardano gli attori, la natura delle reti di solidarietà e di comunicazione, il contesto sociale.
Attori. La maggioranza dei protagonisti del Novembre parigino apparteneva a famiglie di recente o antica immigrazione ovvero rappresentava la seconda/terza generazione di immigrazione. Le interviste fatte a caldo da Le Monde o da Libération, le foto di gruppo apparse sui quotidiani, le statistiche sulle condizioni socioprofessionali dei fermati e dei denunciati, fatte trapelare dalle autorità, segnalano un tessuto etnico, religioso, sociale omogeneo.
Ma c’è anche una netta differenza rispetto alle lotte dei movimenti afroamericani per i diritti civili che esplodono negli USA negli anni ’60 e alle proteste etniche nei ghetti urbani per un allargamento delle misure di Welfare (casa, assistenza sanitaria, sollievo della disoccupazione, scuola). I movimenti che animano gli USA prima e dopo il 1968 sono movimenti di adulti i quali gridano un disagio sociale e denunciano gli ostacoli frapposti all’integrazione. I movimenti di protesta violenta che punteggiano la vita politica di alcuni paesi del Terzo Mondo, Bolivia, Equador, Argentina nel crollo economico del dicembre 2001, catalogati genericamente nelle dimensioni no-global o no-liberal, sono movimenti di adulti minacciati nel lavoro o nel risparmio, privati delle già scarse sicurezze. I piqueteros (6) , che animano le manifestazioni argentine del 2001, sono disoccupati, persone nella maturità, operai. Gli attori delle notti francesi dell’autunno sono viceversa giovani e giovanissimi, portatori di bisogni sociali, materiali, simbolici dotati però di forti connotazioni generazionali. Le contromanifestazioni che cercano, nelle municipalità dell’area parigina, di portare pace e di impedire le incursioni vandaliche, vedono le generazioni a confronto con la partecipazione di adulti appartenenti alla medesima etnia/classe dei giovani delle notti distruttive.
Organizzazione. I movimenti per i diritti civili negli USA e i movimenti dei poveri nei ghetti delle metropoli statunitensi sono il frutto di reazioni spontanee a condizioni di diseguaglianza ma anche del lavoro di reti organizzative che agiscono al di fuori del tradizionale tessuto dell’associazionismo sociale e politico (quello delle centrali sindacali o quello dei partiti). Nel movimento per i diritti civili vi è semmai un intreccio tra il lavoro dei gruppi spontanei e quello di alcune congregazioni religiose. La vocazione religiosa di alcuni leaders del movimento per i diritti degli afroamericani rafforza la protesta perché la legittima e la lega a principi fondativi della democrazia in America, cioè al multiculturalismo e al pluralismo religioso. Alla spontaneità si affiancheranno poi strutture politiche specifiche (di massa od elitarie, aperte o clandestine, democratiche o cospirative). Anche la protesta sociale dei ghetti che ospitano le minoranze ispanoamericane o afroamericane trovano forme di organizzazione. Si tratta di strutture collegate a settori “sociali” del Partito democratico, di organizzazioni di tipo confessionale ma anche di associazioni costituite con uno scopo specifico. Nel 1967 nasce a Washington la National Welfare Rights Organisation (NWRO) che giunge nel 1969 ad avere più di ventimila iscritti, paganti regolari quote (7) . Anche le esplosioni di violenza popolare che oggi caratterizzano alcune aree dell’America Latina (8) sono il frutto di un lavoro organizzativo che si intreccia con la spontaneità. Vecchi quadri sindacali o politici, venuti da una vasta gamma di esperienze cercano di calarsi in quel movimento, di comprenderlo ma anche di guidarlo, con la ricerca di comuni strutture di coordinamento. L’impulso all’azione di piazza è spesso occasionale ma sulla spontaneità agiscono reti di organizzazione che fanno da portavoce o da guida al movimento, nel dialogo con l’autorità, o nel controllo della violenza. I protagonisti dell’autunno delle periferie francesi sono viceversa giovani privi di legami organizzativi tradizionali. Sono nati e cresciuti nella crisi delle ideologie, che precede e segue la rivoluzione pacifica del 1989, e nella perdita di spinta propulsiva dei movimenti anticoloniali, in un tessuto politico nel quale la partecipazione si fa sempre più ristretta e riguarda soltanto specifiche tipologie professionali e generazionali.


da www.po.org.ar

Il riferimento spontaneo e immediato è al gruppo di pari, capace per imitazione/analogia di collegarsi ad altri gruppi in un agire strategico. I movimenti urbani classici godevano di organizzazioni e di strumenti elementari di comunicazione: megafoni, volantini, documenti, opuscoli, scritte murali, striscioni per punteggiare i cortei. Gli strumenti fondamentali di comunicazione nella rivolta parigina sono stati, secondo gli inquirenti, cellulare, sms, e-mail (9) . Il Novembre Francese del 2005 ha degli antecedenti, ma non vanno cercati lontano nel tempo. Si tratta di nuovi movimenti di spontaneità urbana che appaiono in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti con l’inizio degli anni ’90. Nel ’90 a Vaux en Velin nei dintorni di Lione si verificano tre giorni di scontri tra giovani e forze antisommossa (danneggiamenti alle vetture, incendi di negozi, aggressioni alle persone) in conseguenza della morte di un giovane investito da una vettura della polizia. A Bristol, nel ‘92, manifestazioni violente fanno seguito ad un grave incidente: una pattuglia investe e uccide due giovani che hanno sottratto una motocicletta della polizia. Nello stesso anno Los Angeles è attraversata da una reazione di massa (incendi di abitazioni, negozi, automobili, aggressioni a cittadini e forze di polizia) che fa seguito all’assoluzione di quattro agenti che avevano (testimonianza di un video) aggredito con violenza un afroamericano (10) .
Contesto. L’autunno francese segnala un malessere e la presenza di problemi sociali non riducibili a quelli che alimentavano i movimenti dei poveri degli USA negli anni ’60 o che alimentavano/alimentano la protesta spontanea/organizzata delle piazze in America Latina. Il movimento per i diritti civili e il movimento dei poveri che animano periferie e centri urbani dell’America negli anni ’60 sono tipici dello sviluppo e di un tipo particolare di sviluppo economico sociale.
La questione dei diritti civili si iscrive nel tema della modernizzazione: una grande società può prendere forma soltanto nel momento in cui non esistano barriere tra i cittadini, soltanto quando vi sia una competizione tra eguali. Il messaggio di Abram Lincoln non è in fondo dissimile da quello di Kennedy: l’eguaglianza e la cancellazione dell’arretratezza sociale (con le discriminazioni e i rapporti servili di subordinazione) sono fattori essenziali per la crescita economica e per il decollo di una economia industriale.
Le proteste urbane e i movimenti dei poveri sono strettamente legati ad una fase ulteriore dello sviluppo industriale: quella dell’intervento pubblico e del ruolo di supplenza dello Stato nell’identificare i rimedi ai mali che l’industrializzazione crescente provoca nel corpo sociale. Il movimento dei poveri chiede una distribuzione equa dei profitti prodotti dall’industria e una facilitazione degli accessi al lavoro e alla promozione sociale.
I movimenti spontanei che esplodono periodicamente in alcune aree dell’America Latina sono stati a volte presi come esempio di un nuovo protagonismo delle moltitudini e collegati, oggettivamente, alle esplosioni di violenza che attraversano aree urbane ben più sviluppate. Il paragone regge soltanto in virtù di un complesso lavoro di elaborazione socio economica perché tra i due universi di protesta non esiste una effettiva comunanza di obiettivi. La collera popolare che anima la violenza di piazza in America Latina si manifesta come protesta contro la mancanza di uno sviluppo economico (o il cattivo sviluppo). Da un lato in quei movimenti si cerca di contrapporre la produzione tradizionale ad una industrializzazione irraggiungibile, nonché di proteggere modi di esistenza e culture minacciate da una omologazione e da una concorrenza insopportabili. Da un altro lato (i movimenti che animano l’Argentina, il Brasile, il Venezuela) si tratta di azioni che cercano di raggiungere una competitività bloccata da regimi politici autoritari, da politiche giustizialiste di redistribuzione, da insostenibili accelerazioni liberiste, o dalla dominanza di rapporti economici precapitalistici e profondamente disegualitari (latifondo, monopoli pubblici e privati, alimentazione delle strutture pubbliche con i benefici delle risorse naturali, ecc.).
I movimenti che esplodono in alcuni centri urbani dell’Occidente, e nell’autunno francese del 2005, a differenza dei precedenti, non sono legati ad un momento della crescita né alla mancanza di crescita economica, sono piuttosto legati al declino di un modello di sviluppo e al processo di transizione dalla decadenza delle produzioni materiali ad una fase nuova generatrice di insicurezze.
Per alcuni aspetti sembra trattarsi di un fenomeno legato alla globalizzazione, in particolare alla migrazione e al crescente divario mondiale tra opulenza e deprivazione. Ovvero sembra trattarsi di reazioni ad una cultura (latente o palese) dell’intolleranza e a prassi di discriminazione (latente o palese). In realtà sia la discriminazione sia il difficile inserimento sociale sono moltiplicati da un fattore specifico che grava su tutte le società sviluppate e condiziona l’intero tessuto sociale.
La protesta si fa indiscriminata/indeterminata nei movimenti urbani perché appare agli stessi protagonisti come reazione ad una situazione dalla quale la via di fuga è estremamente difficile. Nelle analisi sociali condotte in Francia a ridosso delle manifestazioni ha avuto largo successo la metafora dell’ascensore sociale bloccato. Meccanismi sperimentati di integrazione sociale e di promozione socio/professionale appaiono ormai inceppati, irrimediabilmente deteriorati, assenti. Il sistema industriale di accelerazione dell’inserimento era fondato, a) su di una vigorosa offerta di lavoro e su grandi strutture produttive capaci di garantire stabilità nell’occupazione, b) sulla esistenza di una rete di supporti sociali che offrivano corretto inserimento nel lavoro e protezione per gli incerti dell’itinerario professionale, c) su di un sistema di formazione capace di fornire alle nuove generazioni una effettiva preparazione all’occupazione.
Nella società della fine del lavoro, un tessuto sociale che vede scomparire le forme tradizionali di produzione industriale (11) , viene meno la prospettiva di un inserimento stabile nel mercato lavorativo ma perdono anche di senso alcune misure disegnate in più di centocinquanta anni di protezione/formazione del proletariato industriale. La rete di garanzie costruita dal moderno sistema previdenziale, con la fine del lavoro, diventa una struttura priva di universalismo.
Le garanzie per gli incerti della vita professionale finiscono con il riguardare solo quella parte della occupazione stabile, tutelata da una normativa classica e protetta da forme tradizionali di contrattazione. Dal sistema della sicurezza sociale alimentata da strutture pubbliche efficaci si passa ad un sistema di progressiva insicurezza.


Lo status e i destini sociali

La crisi del modello fordiano di produzione in Occidente (non si può parlare di fine del lavoro in assoluto, in presenza di 150 milioni di proletari industriali in Cina!) ha trasformato radicalmente il mercato del lavoro. Da una domanda di lavoro alimentata dalla creazione di sempre più numerosi beni di consumo (prodotti da grandi complessi manifatturieri) si passa ad un mercato del lavoro in contrazione nel quale la domanda riguarda le attività di servizio, l’alimentazione delle reti, il ludus, l’intrattenimento, la qualità dell’esistenza. Nella società delle reti il concetto di mercato del lavoro viene posto in discussione; non vi è più una corposa domanda di lavoro, piuttosto si assiste alla apertura di spazi sociali che favoriscono lo svolgimento di lavori (produttivi, semiproduttivi, improduttivi o di terzo settore) spesso nuovi ed inaspettati.
L’interfaccia di questo sistema sta nella moltiplicazione di professioni insicure, cioè instabili e mutevoli. Florida in un’opera di successo afferma che il futuro non apparterrà né alla classe dei colletti bianchi né a quella dei colletti blu, ma ad una nuova classe di senza colletto (il popolo delle polo e dei parka) figure di lavoratori portati alla informalità, non destinati ad operare in un ambiente affollato, liberi dal controllo sociale e da regole di etica/estetica aziendali, ma produttori di reddito e motori di sviluppo economico (12) .
La precarietà dei nuovi rapporti di lavoro non inibisce la formazione della ricchezza né fa da ostacolo a possibili processi di ascesa sociale individuale. Il modello statunitense (e per alcuni versi britannico (13) di mercato del lavoro, precario e disciplinato da norme frammentarie e disomogenee, non blocca l’ascensore sociale. Sopravvengono però degli effetti in materia di equa distribuzione delle possibilità cioè di eguaglianza che devono essere corretti.
Quando un modello di lavoro frammentato si diffonde in una società che tradizionalmente ha coltivato altri tipi di lavoro e ha teorizzato una disciplina pubblica unitaria ed omogenea del rapporto di lavoro si aprono pesanti contraddizioni. In quel tipo di società si manifesta una spaccatura verticale: da un lato coloro i quali operano ancora sotto la tutela di un sistema di garanzie, da un altro un universo di nuovi lavoratori destinati a un itinerario professionale assolutamente diverso. Il percorso lavorativo inusuale provoca inoltre diversi effetti in relazione alle qualità personali, alla formazione culturale di base, alla professionalizzazione, al capitale sociale del quale dispone una persona. In soggetti dotati di un patrimonio di risorse sociali (istruzione, relazioni familiari, reddito della famiglia, socializzazione al rischio, educazione al comando) un inserimento in un mercato del lavoro diverso da quello tradizionale può veicolare qualità nel lavoro, generare un surplus di soddisfazione, favorire la creatività, occasionare maggiori redditi. In una persona dotata di deboli risorse e di insufficiente formazione culturale l’anomalia può viceversa favorire la regressione sociale, un inarrestabile degrado a mansioni dequalificate e dequalificanti, il non lavoro congiunturale o da apatia, la scelta deviante.
Nella società della fine del lavoro vengono meno numerosi ammortizzatori sociali che nel disegno classico dello Stato sociale erano in grado di mitigare gli effetti del ciclo economico sulla occupazione. Alcuni ammortizzatori del conflitto/crisi permangono; essi però non vengono distribuiti con criteri universalistici. Per un mondo del lavoro già garantito da rapporti a tempo indeterminato e da una rete di protezione che tutela la continuità del lavoro sono previste misure che mitigano gli effetti delle crisi. Per il nuovo mondo del lavoro precario non esistono viceversa benefici capaci di alleviare una condizione di bisogno congiunturale. Ancor meno per il non lavoro, per la lunga latenza tra formazione e lavoro, per l’espulsione tecnologica dal lavoro.
Nello Stato sociale sono apparse di recente forme inaspettate di ammortizzazione sociale. I benefici erogati a favore dei lavoratori stabili si ridistribuiscono spesso a favore della prole, delle seconde e terze generazioni. L’appartenenza ad una famiglia dotata di garanzie (continuità nel lavoro, stabilità del reddito, protezione sociale, abitazione adeguata) offre alcuni benefici a coloro che sono destinati alla nuova precarietà. Ma si tratta di benefici che non si distribuiscono equamente e che incidono fortemente sul processo di formazione dell’individuo, riducendone l’autonomia, frenandone la creatività e la competitività.
Uno studioso di età vittoriana Henry Sumner Maine divenne celebre negli studi sociologici per la definizione di uno schema capace di riassumere le caratteristiche della moderna società industriale. Per Maine il progresso si accompagnava al passaggio dallo status al contratto. Il mondo industriale moderno si affermava nel momento in cui l’individuo poteva misurarsi nella competizione sociale senza il condizionamento delle posizioni di partenza familiari. Lo schema di Maine conteneva elementi apologetici (la competizione mercantile e imprenditoriale contrapposta al privilegio di nascita, l’operosità borghese contrapposta all’ozio dell’aristocrazia continentale) ma in fondo descriveva bene una società industriale diversa da quella feudale perché libera dell’ipoteca della nascita, delle origini, della appartenenza. La Rivoluzione francese aveva abolito i titoli nobiliari, l’industria in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Italia era il frutto dell’inventiva di uomini capaci di competere e di emergere in virtù del merito e non degli ascendenti!
Oggi lo schema di Maine è esattamente capovolto nei paesi sviluppati dell’Europa; qui dal contratto si torna allo status, dalla competizione paritaria si passa a un inserimento sociale guidato e determinato dalla appartenenza familiare. Una società nella quale si riducono le occasioni di lavoro stabile, nella quale precarietà e variabilità diventano elementi connaturati alla prestazione di opera è una società nella quale le posizioni di partenza pesano in modo sempre maggiore, consentono di decollare da posizioni più avanzate, consentono di resistere agli incerti dell’itinerario professionale, consentono una gamma di scelte più vasta, ed è anche una società nella quale possono moltiplicarsi le occasioni di marginalizzazione e di esclusione.
Per chi non goda di stabili posizioni di partenza la competizione diventa sempre più difficile e gli ostacoli diventano insuperabili se alla deprivazione di origine si unisce l’estraneità culturale all’ambiente.


Integrazione e valori

In molte analisi delle rivolte di Novembre è stato posto sotto accusa il sistema francese di integrazione delle popolazioni immigrate. Si tratta di un sistema caricato di forti coloriture ideologiche e che affonda le proprie radici nella cultura del 1789, uguaglianza e accoglienza nella Grande Nazione dei diritti.


foto ansa

Il sistema francese subordina l’accoglienza ad un’opera positiva di acculturazione. All’emigrante viene chiesto uno sforzo di adesione a una cultura ma anche e soprattutto a grandi valori di libertà, di eguaglianza, di civiltà (14) . In una intervista rilasciata nei giorni delle sommosse parigine Trevor Phillips l’anglo antillano posto, dal governo Blair, a capo della commissione britannica per l’eguaglianza razziale, ha ironizzato sul modello francese, parlando di una “tradizione repubblicana (…) che obbliga ogni immigrato ad assimilarsi, a dimenticare il proprio passato, a lasciare i propri bagagli culturali alla frontiera, e lo incita ad imparare a parlare un buon francese come quello di Giscard” (15) . Il modello francese dipinto dall’ Haut Conseil à l’Integration “non riconosce diritti che all’individuo libero nei confronti dei suoi legami comunitari”.
L’immigrato “conserva i suoi particolarismi ma nessuno di essi viene preso in considerazione per l’esercizio dei suoi diritti e per l’adempimento dei suoi obblighi” (16) . Le norme che proibiscono il velo negli istituti di istruzione sono un esempio, estremo, di una concezione caricata di valori politici e civili della integrazione (17) .
Al modello francese di integrazione viene regolarmente contrapposto quello britannico: un sistema di inclusione di differenze. Il problema del velo delle studentesse non si pone in un Paese nel quale i dipendenti pubblici di religione sik avvolgono quotidianamente attorno al capo un turbante di 7 metri di tessuto. Nella sfilata delle forze armate dell’Impero, per il giubileo della regina Vittoria, si potevano vedere bustine, elmi, caschi coloniali, turbanti e persino il fez del corpo di polizia di Cipro! Il codice inglese della strada consente oggi di conciliare l’obbligo del casco per i motociclisti con il dovere religioso di coprire il capo con un ingombrante turbante!
Ma alle radici della rivolta vi era il rifiuto di un modello di cittadinanza? Vi era il recupero di una identità e di una cultura? Le notti francesi di novembre non erano animate dalle ragazze mussulmane che avevano sfilato a Parigi rivendicando il diritto a portare il velo nelle aule scolastiche.
La protesta non era dovuta alle politiche di diffusione della cittadinanza piuttosto all’impoverimento della cittadinanza e all’insufficienza della cittadinanza formale quando si tratta di trovare risposte a problemi sociali e materiali. La rivolta non era compiuta in nome della identità ma, in modo confuso, contro le conseguenze di una identità.
Una buona parte dei giovani che hanno dato vita alle notti di novembre vivevano e vivono la propria appartenenza all’Islam non solo come identità ma anche in negativo: come stigma, come contrassegno produttore di effetti discriminatori, come identità che riduce la crescita professionale. Nella Metropoli postindustriale la disoccupazione e, in particolare, quella giovanile sono in costante aumento, si tratta di un fenomeno comune a tutta l’Europa continentale. Anche sulla Francia pesa la cifra della disoccupazione giovanile ma le percentuali di questa raddoppiano quando si tratta di immigrati e di figli di immigrati di cultura islamica (18) . Già nel 1995 un’indagine dell’Istituto nazionale di studi demografici in Francia rilevava che “a parità di titolo di studio la disoccupazione era il doppio della media per un giovane immigrato mussulmano” (19) . Un rapporto del Consiglio economico e sociale (2002) dimostra che le pratiche discriminatorie al momento dell’assunzione “sono persistenti e accrescono la marginalizzazione” (20) .
L’intreccio tra appartenenza etnica e stigmatizzazione sociale produce quel tipo particolare di religiosità indagato da molte ricerche sui mussulmani di Occidente. Tra questi si diffonderebbe una concezione ritualista (21) , ovvero privatizzata dell’Islam (un richiamo a radici culturali privo di forte esteriorità) ma unita in alcuni casi ad una concezione emozionale (22) dell’appartenenza che si manifesta come identificazione con quei musulmani i quali, sentendosi oppressi, intraprendono nei più diversi quadranti geografici la strada della rivolta.
Se il modello francese ha mostrato delle crepe anche altri modelli hanno evidenziato cedimenti nelle strutture. Il modello della tolleranza e della accettazione delle identità, tipico dell’Inghilterra (e dell’Olanda) (23) , ha favorito la formazione di quartieri omogenei dal punto di vista sociale e culturale. La muslimtown, quartiere o piccola città satellite nella quale l’abbigliamento, l’ostentata religiosità, l’ortoprassi (copricapo, barba, velo femminile, tempo della preghiera), i consumi e gli esercizi pubblici, l’arredo domestico e urbano ricordano la cultura musulmana (24) , nel tempo breve riduce i conflitti e consente forme di controllo indiretto di una possibile devianza. Ma nel tempo medio e lungo la formazione di spazi abitati da etnie omogenee può favorire l’insorgere di gravi e difficilmente solubili conflitti.


Misure sociali?

In Francia, ma anche nel resto dell’Europa, si discute sulle misure necessarie a prevenire il malessere esploso nelle notti di novembre. In genere si rispolverano i tradizionali cataloghi del Welfare. Ma sperimentati provvedimenti che hanno garantito la pace sociale nel corso del XX secolo sono ancora adeguati ai nuovi bisogni? E’ possibile con un ricettario classico rispondere ad un intreccio di problemi etnici e generazionali come quello emerso nell’autunno francese e che minaccia una buona parte dell’Europa?
Le tradizionali misure di tutela del rapporto di lavoro subordinato appaiono insufficienti oggi a garantire un mondo di lavoratori giovani che preme su di un mercato mutevole, alimentato da funzioni parcellizzate, di durata indefinita.
Le disposizioni a tutela del lavoro dipendente riguardano coloro che hanno già trovato occupazione (in una azienda o in una istituzione di dimensione medio grande) ma non sono in grado di soddisfare i bisogni di chi si affaccia al lavoro nella fase della parcellizzazione dei lavori e della interconnessione di lavori autonomi. In Francia la legge che portava l’orario settimanale alle 35 ore è stata un beneficio che riguardava solo i lavoratori dipendenti, soprattutto i già occupati!
Le politiche dell’edilizia abitativa hanno perso oggi il ruolo svolto nel secondo dopoguerra, nella ricostruzione, nella fase dei grandi spostamenti di popolazione dovuti alla crescita dell’industria. Un rilancio delle politiche della abitazione potrebbe contribuire a umanizzare i quartieri destinati alle fasce povere della popolazione. Ma la classica politica della casa non appare sufficiente da sola oggi, in Francia e altrove, a prevenire il disagio.
Gli investimenti statali nell’edilizia abitativa sono destinati in genere a favorire nuclei familiari stabili, dotati di prole numerosa, consolidati nel tempo. Le notti parigine manifestavano però una protesta complessa: motivata da condizioni sociali considerate ingiuste, motivata da una troppo lunga permanenza in un modello di famiglia in crisi (25) , incapace di accompagnare i figli (o capace solo di ostacolarli) nell’itinerario della crescita sociale.
La scuola può svolgere un ruolo di diffusione dell’eguaglianza. In Francia non sono mancate iniziative tese a fare dell’istruzione lo strumento per un radicale recupero sociale di ogni tipo di emarginazione. Robert Castel, studioso della conflittualità urbana e critico del moderno sistema della “insicurezza” sociale, riconosce che nel campo educativo la Francia ha compiuto a partire dagli anni ’80 significative innovazioni. “Non si può dire che non sia stato fatto nulla, dopo l’81 e dopo le prime violenze spettacolari. Sono state prese una serie di misure senza le quali la situazione sarebbe peggiore (…). Da trent’anni è in corso una dialettica tra prevenzione e repressione e sono stati fatti molti sforzi a favore della prevenzione. Per esempio, nelle scuole, la creazione delle Zep - zone di educazione prioritaria - è stata una buona idea di discriminazione positiva” (26) . Ma l’investimento nella formazione e nella educazione non è stato sufficiente ad eliminare quelle strozzature strutturali che inibiscono oggi l’accesso al mercato del lavoro dei giovani privi di capitale sociale. La formazione non basta in una organizzazione del lavoro non imparziale e nella quale le tutele sono riservate a coloro che ne hanno già goduto e non vengono prestate a coloro che vogliono affacciarsi, dotati di ragguardevoli cognizioni, all’occupazione. “Non va dimenticato - afferma sempre Castel - che sul mercato del lavoro esistono e continuano le discriminazioni nelle assunzioni” (27) . A ciò va aggiunto il fatto che in Francia, così come in Italia il sistema formativo non garantisce soddisfacenti risultati in termini di inserimento nel mercato del lavoro. Un rapporto della Commissione europea sulla disoccupazione giovanile riferisce che in Francia il tasso dei senza lavoro tra coloro che hanno lasciato la scuola tocca il 22% (28) .
Forse per rispondere ad un disagio etnico, moltiplicato da una crisi che colpisce tutte le nuove generazioni nel vecchio continente, occorrerebbero misure innovative alle quali solo alcune riflessioni sul rilancio dello Stato sociale stanno lavorando. Si tratta di ripensare i destinatari, gli obiettivi, gli strumenti del Welfare.
Il Welfare ha connotati adulti: si occupa soprattutto delle maturità e della vecchiaia, destinando alle fasce giovani solo le risorse che alimentano il sistema scolastico (trasmissione di competenze ma anche retribuzione di forza lavoro e controllo della pressione sul mercato del lavoro).
Nel mondo del lavoro le garanzie dello Stato sociale aprono addirittura un conflitto tra anziani e giovani (29) . Le garanzie del lavoro dipendente avevano nel secondo dopoguerra una funzione universalistica perché operavano in una economia nella quale vi era sempre maggiore richiesta di lavoro, nella quale sempre nuove legioni di lavoratori dipendenti alimentavano il sistema previdenziale e il sistema fiscale. Nel momento in cui l’economia si trasforma, quel tipo di garanzie perde di universalismo e assume la caratteristica del privilegio destinato solo ad una parte del corpo sociale. Ridare all’intervento pubblico universalità e imparzialità significa inaugurare specifiche politiche per garantire ai più giovani l’ingresso nel lavoro e una autonomia nella società. Anche (e necessariamente) al costo di ridefinire i benefici dei quali godono altre classi di età.
Le politiche di Welfare, soprattutto nella fase di contrazione della spesa pubblica, tendono a garantire uno zoccolo minimo, essenziale, di prestazioni. Ciò cerca di impedire che l’impoverimento o le disuguaglianze portino ad effetti devastanti, ma non riesce a garantire un itinerario verso l’eccellenza dei giovani provenienti da ambienti deprivati. Fornire uno zoccolo minimo di prestazioni significa in qualche modo ridurre gli handicap di partenza ma non significa affatto rimettere in moto l’ascensore sociale. Per una crescita culturale e sociale non discriminatoria occorrono politiche positive di promozione capaci di accompagnare il merito svantaggiato in tutti i livelli della formazione.
Vi è un terzo limite che va evidenziato nelle classiche politiche del Welfare State. Si tratta degli strumenti di crescita sociale che esso privilegia. Le misure sono in genere orientate ai gruppi (sociali, familiari), ai territori, alle collettività. Ma forse occorre riproporre l’individuo come destinatario delle politiche sociali e come strumento di crescita collettiva (30) . Forse occorre accettare il fatto che il gruppo può essere anche portatore di patologie.
Una politica che rilanci l’individuo e lo porti a rendersi autonomo può essere un utile (o indispensabile) strumento per rompere quel nuovo primato dello status che ingessa l’Europa.


Un prodotto esportabile?

Alcuni interrogativi. Il Novembre Francese è esportabile? Si potranno vedere repliche delle notti parigine anche nei paesi di nuova immigrazione, in quella Europa mediterranea investita dai flussi migratori soprattutto a partire dall’ultimo ventennio? Il tipo di protesta nata in Francia sembra per ora non riproducibile, almeno nei paesi di nuova immigrazione.


foto ansa

Alcuni problemi che gravano sulla Francia e sui paesi di immigrazione postcoloniale ed industriale (Inghilterra, Olanda, Belgio, Francia, Germania) non sono identici a quelli di paesi come la Spagna o l’Italia nei quali l’immigrazione è più recente e ha trovato forme di insediamento diffuso e canali di inserimento lavorativo diversificato. Non sono riproducibili, per ora, i quartieri omogenei su piano etnico, non è riproducibile una discriminazione nel lavoro che colpisce duramente una identità etnica e religiosa.
Resta il problema, che attanaglia buona parte del vecchio continente, dell’adeguamento delle politiche sociali alle trasformazioni dell’economia. Il Welfare in quasi tutto il vecchio continente non appare sicuramente adeguato ai problemi della trasformazione del lavoro, dei nuovi lavori, del divario e della disuguaglianza che contrappongono un mondo adulto e un mondo giovane. Un movimento dotato di forti coloriture etniche come quello parigino non è ripetibile nell’Europa meridionale; ma in quell’area permane il malessere di una fascia di popolazione, giovane e spesso altamente qualificata, per il rallentamento dell’inserimento sociale e per gli ostacoli frapposti al lavoro.
Anche qualche cosa di altro non sembra per ora esportabile in tutta l’Europa. Ciò però non legittima soddisfazione, sollievo, atteggiamenti di superiorità. Si tratta delle modalità con le quali il governo, il parlamento, le forze politiche in Francia hanno gestito una situazione di grave crisi.
Di fronte a misure estreme, l’immediata decisione dello stato di emergenza, la proroga per tre mesi dell’emergenza, vi è stata la sostanziale unanimità dei partiti. La maggioranza ha approvato. L’opposizione socialista non ha dissentito (31) .
La destra del Fronte nazionale non ha drammatizzato la vicenda con una campagna di legge ed ordine. I dissensi nei confronti delle scelte dell’esecutivo sono stati minimi e a mala pena registrati dalla stampa quotidiana.
L’atteggiamento delle forze politiche francesi ha mostrato un’altra faccia di quello spirito repubblicano che porta ad imporre all’immigrato l’accettazione dei valori della comunità ospitante: la capacità del sistema dei partiti di dividersi quando si tratta di animare l’alternanza dei governanti ma di fare muro nel momento in cui occorre preservare i principi costituenti della vita democratica.


(1) 1 Cfr. Ville et violence, dossier realizzato (ottobre 2000) dal Centre de documentation de l'urbanisme (CDU). A cura di D. Lefrançois e F. Porchet, con la participazione di J. Frenais.
(2) L. Bronner e P. Ceaux, Le bilan chiffré de la crise des banlieues, “Le Monde”, 2 dicembre 2005.
(3) Nel numero sono compresi i due giovani folgorati il 27 ottobre nella cabina elettrica, il pensionato (deceduto il 7 novembre) aggredito mentre sorvegliava la propria abitazione, il custode di liceo deceduto il 21 novembre per le conseguenze dell’asfissia subita mentre cercava di spegnere un incendio. Una persona è stata gravemente ferita dopo essere stata aspersa di benzina su di un autobus. A un giovane è stata asportata la mano. Le forze dell’ordine lamentano 217 feriti dei quali 10 con lesioni guaribili in più di dieci giorni (L. Bronner e P. Ceaux, art. cit.).
(4) L’osservazione è del Primo Ministro de Villepin (dichiarazione resa il 29 novembre).
(5) Tra i primi studi sulle rivolte sociali vanno ricordati quelli di E.J. Hobsbawm (I ribelli, tr. it. Einaudi, Torino, 1966). Lo storico inglese analizza soprattutto le prime forme di ribellione spontanea nelle società nelle quali cominciano a manifestarsi i rapporti sociali capitalistici. Oggi la rivolta sociale spontanea è dotata di una molteplicità di sfaccettature in conseguenza delle trasformazioni dell’economia di mercato e dell’ineguale sviluppo del globo.
(6) Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberismo, tr. it., Derive Approdi, Roma, 2003
(7) F. Fox Piven, R.A. Cloward, I movimenti dei poveri, tr. it., Feltrinelli, Milano, 1980, p. 292..
(8) Cfr. Colectivo Situaciones, Piqueteros, cit..
(9) Secondo il Guardian (6 novembre 2005), un portavoce della polizia avrebbe affermato che "le bande di giovani, poco per volta, si stanno organizzando sempre più, preparando attacchi tramite messaggi fra cellulari".
(10) Cfr. le analisi di J. Rifkin, La fine del lavoro, tr. it., Baldini e Castoldi, Milano, 1995, p. 344 e sg. Cfr anche L. Wacquant, Where Cities Run Riot, “Unesco Courier”, febbraio 1993; Id. Désordre dans la ville, “Actes de la recherche en sciences sociales”, 99, settembre 1993.
(11) Cfr. J. Rifkin, op. cit..
(12) R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa. Stili di vita, valori e professioni, tr. it. Mondadori, Milano, 2003.
(13) La flessibilità del lavoro in Inghilterra è corretta da un robusto sistema di assistenza e di protezione delle categorie sociali in difficoltà (invalidi, anziani).
(14) E. Pace, L’Islam in Europa: modelli di integrazione, Carocci, Roma, 2004; P. Bouretz, La République et l’universel, Gallimard, Paris, 2002.
(15) Trevor Phillips, Les français pourraient emprunter un peu de notre pragmatisme, «Le Monde», 12 novembre 2005.
(16) Haut Conseil à l’Integration, Rapport au Premier Ministre, La Documentation Française, Paris, 1991, p. 19; 1995, pp. 19 e sg. Cfr. A. Facchi, I diritti nell’Europa multiculturale, Laterza, Bari, 2001.
(17) Sulla questione del velo e sui dibattiti che ha suscitato in Francia e in Europa cfr. A. Facchi, op. cit..
(18) J. Cesari, Mussulmani in Occidente, tr. it., Vallecchi, Firenze, 2005, p. 49.
(19) Ivi, p. 50.
(20) J. Cesari, op. cit., p. 49. “Le Monde” 3 giugno 2002.
(21) F. Dassetto, L’Islam in Europa, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1994, p. 55.
(22) Cfr. J. Cesari, op. cit., p. 80 e sg..
(23) Cfr. E. Pace, op. cit., p. 41 e sg..
(24) S. Allevi, Musulmani d’Occidente, Carocci, Roma, 2005; I. Sigillino (a cura), L’Islam nelle città, F. Angeli, Milano, 2000; F. Dassetto, op. cit..
(25) Sulle famiglie degli immigrati, O. Masclet, Les parents immigrés pris « au piège » de la cité, in De Tampere à Seville, bilan de la sécurité européenne, 2002, «Cultures & Conflits, Sociologie politique de l'international», ed. elettronica. P. Duret, Anthropologie de la fraternité dans les cités, PUF, Paris 1996.
(26) R. Castel, intervista, Così cambiano le banlieue, “Il manifesto”, 5 Novembre 2005.
(27) Ivi.
(28) In Italia, riferisce il citato rapporto, il tasso di disoccupazione dei giovani che hanno lasciato la scuola è superiore, cioè pari al 26%. Situazione peggiore in Slovacchia (37,7%) e Polonia.
(29) G. Cazzola, Lavoro e welfare: giovani versus anziani, Rubettino, Soveria Mannelli, 2004.
(30) Cfr. l’intervista di Ghislaine Hudson, L’Etat a aidé les territoires, il faut promouvoir les individus, “Le Monde”, 20 novembre 2005.
(31) R. Bacqué, Le couvre-feux sont approuvés par la majorité, acceptés à gauche, «Le Monde» 10 novembre 2005.

© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA