GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 1/2006
RECENSIONI

L'Italia dal 1943 al 2005 guerra civile permanente?

CIA KGB e nuove guerre


Rosario PRIORE - Alain CHARBONNIER

L'Italia dal 1943 al 2005: guerra civile permanente?

di Rosario PRIORE

Una piacevole illustrazione delle emozioni che può provocare, nell’animo di chi conosce le dinamiche sociali attuali e la storia che le ha determinate, la lettura di un libro a suo modo rivoluzionario, intriso di punti di vista legittimi ma mai adottati. E’ forse il modo migliore di recensire un testo: divenirne parte, completarne il disegno attraverso i sentimenti che suscita, per concludere il percorso al punto da divenirne co-autore. Il libro di cui si discute ispira evidentemente riflessioni forti, di quelle che scuotono gli animi, ridestano dal torpore della storia ufficiale, della cronaca metastorica, e ridanno una chiave di lettura che è codice per comprendere meglio il nostro tempo. Alla fine la domanda si ripete, ogni qualvolta si rilegge la storia e si capisce che qualcuno o qualcosa le ha impedito di regalare al futuro parte delle sue conquiste, con questo derubando a quei posteri che oggi, nel presente, siamo noi quel “domani” che meritava di essere certamente meno conflittuale e più onesto: “Perché?”.


Questo volume di Fasanella e Pellegrino segue il libro nel quale, sempre Fasanella intervista l’ex capo BR Alberto Franceschini dal titolo “Che cosa sono le BR”. E’ un dialogo che pone le stesse questioni affinandone l’arte maieutica. Un interlocutore di rango istituzionale, possessore di patrimoni non comuni di conoscenze ed esperienze nelle vicende del nostro Paese; un tema tuttora incandescente, da prendere con solide molle, ché soltanto a porlo sino ad ieri suscitava reazioni rabbiose da parte dei tutori della vulgata.
Quella vulgata secondo cui in Italia si sono consumati molteplici conflitti anche gravi - nemmeno i più ipocriti affermano che la nostra sia una società a conflittualità fisiologica (per i canoni europei) - ma non la guerra civile. Blasfemia sino a poco tempo fa. Dapprima s’è sostenuto, e per decenni, su ogni lapide nei luoghi ove è scorso il sangue, che fosse stata portata soltanto guerra contro il tedesco invasore e i suoi manutengoli della repubblica sociale; poi le prime ammissioni: c’è stata anche la guerra sociale, guerra cioè tra corporazioni, ceti, classi diverse; è apparsa infine la guerra civile, quella cioè che si combatte tra fazioni dello stesso popolo, tra una parte del popolo e i restanti, quella che spacca una società. Secondo il diritto romano la più grave delle situazioni, insieme a quella di conflitto esterno, per l’esistenza della repubblica: la guerra interna, quella che impone seditionis sedandae causa l’instaurazione della dittatura - in quei giorni a termine e di breve durata - ne cives ad arma veniant.
Per decenni politici, opinionisti, storici hanno chiuso gli occhi. Ammettere che in Italia vi sia stata una guerra di tal genere, anche breve, iniziata a fine ‘43 e chiusa il 25 aprile di un anno e mezzo dopo, anche limitata ad alcune aree del territorio, per le più delle nostre parti politiche a tutt’oggi è blasfemia. Gente questa che non sa, o comunque non ammette o non ricorda che guerre civili sono avvenute dappertutto, ovvero in tutti i Paesi d’Europa, ove sono corsi i fronti della seconda guerra mondiale.
I fronti dell’ovest come quelli dell’est. Dalla Norvegia alla Grecia, attraverso tutti gli Stati centrali, via via che le armate alleate invadevano il continente e stringevano la Germania e i suoi alleati. E proprio quelle armate, le baionette di quelle armate hanno suscitato o rafforzato e portato a compimento i propositi di lotta armata, di insurrezioni e di guerre civili. Come s’è verificato anche nel nostro Paese e in altri prima e dopo di questa guerra mondiale; nell’ambito cioè della guerra civile europea.
Quella guerra civile che ha scosso il nostro continente durante il secolo scorso, e lo ha a tal punto debilitato, che esso ha perso qualsiasi egemonia; addirittura ha reso così fievole la sua voce che sovente nessuno più la ascolta, così come nessuno più la richiede.
E quindi coraggio, forte coraggio in chi ripropone, o espressamente pone, questo tema, che attacca equilibri, discorsi giochi superati. E che dovrebbe aprire un profluvio di dibattiti. A meno che gli ipocriti, i farisei della politica e della cultura, non reagiscano con la loro arma preferita, non raramente letale, ovvero con il silenzio che ottunde e soffoca, e così impediscano che le pietre tombali, poste da decenni, vengano smosse anche d’una spanna. Certo la guerra tra cittadini è la più triste, e trista.
E non pochi si sono illusi che si fosse conclusa il 25 aprile del ‘45. Assolutamente no: è il monito degli autori. Essa è continuata, anche se a livelli diversi (chi avrà mai posto il livello? era la questione ai tempi del terrorismo dispiegato, ben sapendo che se costui si fosse trovato, o si fosse intravisto, ci saremmo avvicinati al cervello degli attacchi). Non l’ha chiusa il patto costituzionale che condusse alla Carta del ‘48. Non l’ha chiusa né attenuata lo spostamento progressivo dell’asse della politica verso sinistra. Né la caduta del Muro né il crollo dei regimi comunisti.
La matassa degli eventi è intricata, ma Pellegrino si propone di trovarvi il bandolo della guerra civile. Lo spazio temporale preso in esame coincide con quella metà del secolo passato (ma forse son circa sei decenni) che seguì la fine del conflitto mondiale ‘39-’45 (ma per noi il punto iniziale si colloca nell’estate del ‘43, quando secondo alcuni rinasce il paese, secondo altri muore lo stato, la patria, si dissolvono le forze armate e il popolo).
Gli autori hanno dinnanzi ai loro occhi una realtà affatto entusiasmante, di oppressioni e scontri in armi, di piazza o di palazzo, di astuzie laceranti, colpi di mano, fiducie e sfiducie mercanteggiate senza alcuna finalità ideale. Un palazzo al cui confronto una corte rinascimentale sarebbe apparsa un antico cenobio.
Così come la piazza al cui confronto quella di tanti comuni medievali con fazioni e contrade in armi sarebbe sembrata poca cosa. E imboscate, e imboscate senza fine, perché imboscate sono tutti gli attentati, gli assassini proditori, le stragi che hanno connotato ognuno degli anni dal ‘43 all’altro ieri. E in questa matassa pregna di sangue, Pellegrino riesce a reperire un bandolo, un filo rosso anch’esso, e a dar luogo ad un’opera di ricostruzione delle nostre vicende.
Ne vien fuori un giudizio di anomalia: il nostro Paese è e resta anomalo; i suoi regimi non sono normali; e ben può aggiungersi, al riguardo della nostra società, sfortunata, per non dire di mala ventura.
In tutta Europa non ne appare una pari. Forse subito dopo la guerra, la Grecia; qualche anno fa i Balcani. E lì, in questa guerra civile, potrebbe essere iniziato il declino, quel declino che secondo la fosca previsione di un grande filosofo potrebbe avere durata plurisecolare.
Questa è una storia malata di un paese malato, piegato e piagato. Un paese sconfitto, questa è la realtà prima che non sfugge agli autori.
Di sconfitte i paesi, gli Stati, anche i grandi, ne hanno subite molteplici nelle loro storie secolari. Ma anche dalle sconfitte si può uscire a testa alta. Con onore, o al contrario con disonore.
Come quei paesi cui si impongono rese senza condizioni. Quale il nostro cui furono imposti armistizio, o armistizi, e pace, che ben furono definiti, nel ‘47 a Parigi, da De Gasperi diktat, giacché non vi fu modo di negoziare o trattare alcunché, ma solo di accettare, più che supini, quanto già scritto. Tutto questo non può non aver influenzato i nostri pensieri, le nostre azioni, nonostante brevi euforie per successi economici, peraltro non durati a lungo.
Resta il crollo psichico di un’intera nazione; che subisce la resa senza condizioni; consegna armi e flotte, sopporta senza reazioni tagli di territorio, accetta passivamente tutele; dopo esser stata indotta a credere di essere una grande potenza dapprima e quindi di poter assurgere al ruolo di cobelligerante dall’altro lato della collina, come si dice di noi che cominciamo le guerre da un versante e le finiamo dall’opposto.
Come resta lo scontro interno, in cui gli odi esplosi dopo il 43 creano dapprima il fronte antifascista e quello fascista, e a brevissima distanza di tempo, a seguito della spaccatura del fronte partigiano, quei due altri fronti che permarranno per decenni: il comunista e l’anticomunista.
Da qui deriveranno gli opposti schieramenti, gli ottusi estremismi, le velleità rivoluzionarie e controrivoluzionarie, i terrorismi; che ci faranno apparire diversi da tutti i restanti paesi del contesto storico e ci porranno lontano persino dagli altri due grandi sconfitti della seconda guerra mondiale. Come bloccheranno lo sviluppo della democrazia, impediranno la nascita di una decorosa politica e comporteranno la caduta di rango dell’intero paese.
L’autore nella congerie di eventi, non pochi torbidi e fitti di misteri, trova una forte continuità. Continuità che a parlarne richiede coraggio, ai limiti della temerarietà, in un paese di frasi fatte, di valori imposti e palesemente stantii, di quella vulgata voluta da chi da questo sistema trae onori e ricchezze.
Egli rompe gli schemi, usa terminologie “improprie”, si pone fuori della nomenklatura; rivela quindi che il re, cioè il nostro potere, è nudo.
Ne dovrebbero discendere quanto meno reazioni di meraviglia e di disappunto. Ma il nostro re s’è raffinato e nonostante la sua nudità, cioè a dir poco la sua pochezza, continua a cavalcare inducendo a ritenere che egli sia rivestito di paludamenti superbi, ovvero di una legittimità senza pari. E sempre seguendo questo filo, questa strada, il nostro coglie la violenza di cui è permeata la nostra società in tutte le sue componenti, in tutte le sue sedi. Anche al di là di quella direttamente derivante dalla guerra civile degli anni ‘40. La violenza sindacale, quella politica, quella sociale tout court, che si manifesta in qualsiasi relazione, in qualsiasi confronto.
Con tassi assolutamente incomparabili con quelli di altri paesi europei, ma simili invece a quelli di altri popoli che si affacciano sul Mediterraneo. E’ una violenza che prende le mosse, con particolari caratteristiche di durezza, al tempo delle migrazioni interne verso realtà del nord, di uomini cioè di estrazione contadina in ambienti industriali, in fabbriche, in contesti già sindacalizzati.
Situazione esplosiva, che detona per effetto di quel boom degli anni ‘60, cioè della evoluzione rapida del prodotto, della produzione, cui non segue ad analoga velocità un’equa distribuzione tra le classi, tra i produttori. In uno scontro - che, se lo nascondessimo, potremmo essere tacciati anche noi di fariseismo - appare immediatamente uno scontro di culture, proprie di diverse realtà del paese; culture contadine, operaie, industriali, tutte dotate di cariche di violenza fortissime; culture di parti del paese con storie precipuamente politiche diverse l’una dall’altra, distanti miglia l’una dall’altra, su percorsi di evoluzione, ed anche d’involuzione, addirittura divergenti gli uni dagli altri.
E come emerge da questo ricercare la violenza, così ne affiora la corruzione, le corruzioni. Le corruzioni che finita la guerra, anzi a partire dal settembre del ‘43, si sono immediatamente diffuse in ogni ceto, istituzione, strato del consorzio.
La città già partita si partisce sempre più; le fazioni, che sono sempre esistite, si manifestano e si rafforzano. Fazioni, correnti, sette. E le corruzioni servono per alimentare parti partiti e partigianerie. Il discorso anche qui è chiarissimo. Molte orecchie lo intendono, ma non se ne fa nulla, perché tuttora sopravvivono i più dei corruttori e dei corrotti.
Come non mancano esempi di alcuni, che pur avendo le mani sporche (in questi casi senza alcuna decenza morale), che pur avendo fatto parte di congreghe e fruito di quei profitti di corruttela, predicano la pulizia. Pulizia che, come dimostrano le novità degli ultimi tempi, tarda a venire o, forse meglio, cui nessuno mette mano.
L’occhio dell’autore, com’è giusto, muove dai tempi che precedettero il termine formale della guerra mondiale. In effetti, come egli osserva, la faglia della guerra fredda cominciò ad aprirsi mentre Hitler era ancora in vita. In quel periodo cioè in cui si prendeva sempre più contezza dell’affermazione di Churchill: “forse abbiamo ucciso il maiale sbagliato!”.
Nei grandi paesi europei ed anche negli Stati Uniti, tra la fine dei trenta e i primi quaranta, l’area della simpatia per la Germania nazionalsocialista era più estesa di quanto per anni abbia proclamato la storiografia ufficiale. O quanto meno erano tanti, partiti, organizzazioni, movimenti di opinione, che si preoccupavano, per l’interesse dell’Occidente, più dell’URSS comunista che della Germania nazista.
Valgano in tal senso le linee e le operazioni di tanti Servizi: Servizi che in genere hanno antenne e sensibilità maggiori come più forti capacità di previsione, che l’uomo qualunque o la bassa politica. Qui basterà ricordare i Servizi francesi prima e dopo Vichy; i Servizi britannici con quelli interni che propendono per l’avversione al nazismo e quelli esterni che si preoccupano maggiormente del comunismo.
E da questa complessa situazione, come indicato nel libro, l’operazione Gehlen - che per essere stato costui il responsabile della rete di informazione dell’armata tedesca sul fronte orientale, divenne immediatamente oggetto d’interesse per l’amministrazione statunitense; che in effetti lo “acquisì” subito dopo l’armistizio con la Germania.
E poi l’operazione Borghese, posta in essere dai Servizi inglesi, che sottrassero il comandante della X Mas alla giustizia partigiana, che con ogni probabilità lo avrebbe condannato a morte. E così per tutte quelle operazioni, almeno per quanto riguarda l’Italia, di captazione e rimodulazione di tanti sia del Servizio militare che dell’Ovra, uomini tutti, a prescindere dalle ideologie, di alta professionalità.
Qui l’opera di Pellegrino induce a riflessioni anche in casi non presi in considerazione. È esistita una corsa al luogo ove era stato individuato Mussolini? Oltre gli uomini del Comitato di liberazione ve ne erano altri, spediti dai tanti Servizi che infestavano il Nord, con quelle medesime finalità dell’operazione Borghese? O in vista di una prima e minore Norimberga a carico delle gerarchie italiane? Norimberga che in Italia non ha luogo in difformità di un principio nuovo che gli Angloamericani stanno varando; quello per il quale si processano i capi delle nazioni sconfitte, principio tuttora in atto. Come appare in Iraq.
Gli autori, nella crudezza delle cronache, scorgono anche dei passaggi positivi. Nei primi anni il varo della Costituzione repubblicana del ‘48.
Che è stimata opera preziosa e punto di equilibro e di sintesi - quasi miracoloso - tra culture diverse e in tanti campi antitetiche; il collante che avrebbe dovuto pacificare e tenere insieme il paese. Ma l’equilibrio, che di certo non era stabile, si modifica irrimediabilmente dopo la missione di De Gasperi a Washington. Resta quel patto costituzionale e la Carta che ne è derivata. La guerra civile resta fortunatamente di bassa intensità, anche nel ‘60, nel ‘64, nel ‘69.
Il ruolo della Carta resta positivo, secondo Pellegrino. Anche se all’Italia non si può assegnare un percorso eguale o simile a quello di altri paesi anche prossimi, che hanno cambiato Carte, repubbliche, regimi. Ognuno ha le sue Carte, i suoi ceti politici, i suoi governi. Potrà sembrare banale, ma difficilmente la storia diverge da queste linee.
Certo da noi l’altezza delle figure è quella che è. Questa altezza non può che essere proporzionata al peso del paese in cui si nasce. E Pellegrino di queste figure che spiccano riesce ad individuarne nella prima fase della repubblica di fatto due - a parte i Secchia con velleità rivoluzionarie o i Fanfani con propositi gollisti, e altri minori - e cioè De Gasperi e Togliatti. E così anche nel periodo di mezzo della prima repubblica sono sempre soltanto due: Moro e Berlinguer.
I quattro sono i leader delle due grandi formazioni, l’anticomunista e la comunista. Essi al di là delle nostre frontiere non sono molto conosciuti - a parte il Togliatti che opera all’estero, dalla Spagna all’Unione Sovietica - e non appaiono molto stimati, quando non sono malvisti per inaffidabilità e per voglie di autonomia. Qui la particolarità della nostra storia.
Donde democrazia debole, che tarda a maturarsi, con percorsi bizzarri; paese anomalo, malato. E, quindi, dal momento che non ne appare nel continente altri così afflitto, può ben essere definito “le grand malade d’Europe”, prendendo così in questi ultimi decenni il posto che all’inizio del secolo scorso era stato della Porta ottomana.
Paese anomalo, insistono Pellegrino e Fasanella, e la definizione trova molti concordi. Anomalia si insiste nel libro, perché tuttora permane lo stato di guerra civile; quella guerra che nata ieri tra partigiani e fascisti, oggi si perpetua tra giustizialisti e antigiustizialisti, tra magistrati e politici, tra berlusconiani e anti-berlusconiani. “Quanto più la sinistra sarà capace di moderazione, quanto più mostrerà rispetto per gli avversari, tanto più un uomo come Berlusconi apparirà come un’anomalia nel suo stesso campo”.
Questo in estrema sintesi il pensiero di Pellegrino. In ogni Paese d’Occidente c’è contesa politica, anzi questa contesa appare l’essenza della democrazia. Ma lì esistono avversari e rispetto per essi, non nemici contro cui si combatte senza esclusione di colpi anzi pronti a prendere le armi per scalzare dal potere o impedir loro qualsiasi accesso ad esso (e questa è l’essenza della non-democrazia), nemici che proprio per questo istinto di violenza – ma potrebbe essere il contrario, e cioè potrebbe invertirsi il rapporto di causa ed effetto – non riconoscono alcuna legittimità all’altro e si comportano secondo logiche manichee. A differenza delle altre società occidentali e di vari periodi della nostra storia al di fuori della guerra civile europea.


CIA KGB e nuove guerre

di Alain CHARBONNIER

Quando cade il segreto e gli archivi si aprono, per storici e studiosi arrivano le sorprese. Non poche volte risultano sconvolgenti, capaci di distruggere leggende e convinzioni consolidate. CIA e KGB sono al centro di due recenti volumi pubblicati da Rizzoli e da Laterza. Il primo, firmato Christopher Andrew e Vasilij Mitrokhin, è la seconda parte delle carte trafugate dall'archivista del KGB e svela le mosse dell'Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Nel secondo, Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari, raccontano più di mezzo secolo di storia italiana letto con gli occhi della Central Intelligence Agency. Dai rapporti emergono le preoccupazioni, le pressioni, le previsioni politiche americane, complicate dal machiavellismo italico. E mentre CIA e KGB si confrontano e si combattono, cambia il mondo e cambia il volto della guerra, come spiegano Antonio e Gianni Cipriani. Tre volumi, tutti e tre scritti a quattro mani, da leggere e meditare con grande attenzione.


Due anni fa scompariva Vasilij Mitrokhin e il grande pubblico neppure se ne accorse. Gli italiani conoscevano il suo nome grazie alla Commissione Parlamentare che stava lavorando sulle carte trasmesse dalla fonte "Impedian", che parlava appunto di spie italiane al servizio dei sovietici. C'era anche il libro L'Archivio Mitrokhin - Le attività segrete del KGB in Occidente, pubblicato da Rizzoli nel novembre del 1999. Raccoglie i documenti sull'attività dell'agenzia di spionaggio sovietica nei confronti degli Stati Uniti, Gran Bretagna, e degli stati dell'Europa Continentale fuori dal blocco sovietico, nonché dei dissidenti russi e della Polonia di Solidarnosc.
Era soltanto la prima parte delle carte fornite da Mitrokhin ai servizi segreti occidentali e collazionati insieme con Christopher Andrew, scremata dalla mole, racchiusa in sei grandi casse, che l'intuizione e la professionalità di una "giovane e disponibile" funzionaria dell'ambasciata inglese nella capitale dei Paesi Baltici aveva contribuito a far trasferire in Occidente, insieme con tutta la famiglia dell'archivista del KGB.
Pazientemente copiati da Mitrokhin fra il 1972 e il 1982, setacciati uno a uno, trasmessi ai servizi di controspionaggio dei paesi amici, per quanto di loro interesse, quei documenti bruciavano di colpo centinaia di agenti al servizio di Mosca, svelavano connessioni, operazioni di intossicazione, di controinformazione, "misure attive" contro uomini di partito, governi, intellettuali e quanti altri potessero impensierire il Kremlino.
Mancava però alla conoscenza dell'opinione pubblica la parte più rilevante, la Guerra Fredda vera e propria, intesa come conflitto segreto sullo scenario mondiale. E' vero che molte cose erano già note, rivelate dalla defezione di agenti importanti come per esempio Oleg Gordijevski. Non esisteva però un quadro particolareggiato e organico delle operazioni condotte dal KGB negli Stati africani, asiatici, nell'America Latina e nel Medio Oriente. Attività ignorate da gran parte della storiografia sulle relazioni internazionali sovietiche, anche se il KGB ha giocato un ruolo rilevante nell'orientare la politica estera dell'URSS nei confronti del Terzo Mondo che riteneva fosse la chiave per vincere la Guerra Fredda. Vasilij Mitrokhin, fino al momento della morte, e Christopher Andrew hanno colmato questa lacuna, mettendo insieme le tessere del mosaico e realizzabndo L'Archivio Mitrokhin - Una storia globale della Guerra Fredda, Rizzoli storica, pagine 600, settembre 2005.
I documenti rivelano che la presenza e l'attività del KGB nei cosiddetti Paesi del Terzo Mondo raggiunse livelli senza precedenti, proprio negli anni Settanta e Ottanta. Era finita l'epoca della decolonizzazione e quindi dell'appoggio ai movimenti di liberazione nazionale, era il momento per l'Unione Sovietica di cogliere i frutti dell' "aiuto fraterno" da trasformare in alleanza antimperialista con i governi "democratici". Per quanto spregiudicate e brillanti, le linee operative del KGB si rivelarono in molte occasioni ripetitive, e perciò scontate, e spesso del tutto fallimentari. Senz'altro più abili nell'influenzare l'opinione pubblica occidentale in senso antiamericano e in favore dei paesi socialisti, grazie anche alla presenza degli apparati dei partiti comunisti nazionali, i dirigenti del KGB non furono tuttavia immuni dagli stessi errori dei loro antagonisti della CIA, quando si trattò di operare sul campo.
Secondo le carte di Mitrokhin, che gli americani si lasciarono sfuggire, a differenza degli inglesi, "Roketno Jadernoe Napadenie", in codice "Rjan", rappresenta appunto uno di questi fallimenti. Doveva rivelare un piano americano sostenuto dal Presidente Ronald Reagan per colpire l'Unione Sovietica con un attacco nucleare a sorpresa. Ma la mobilitazione globale del KGB e in particolare della Rezidentura di Tokio non cavò un ragno dal buco.
Ma c'è di più. Con grande realismo, il KGB praticò la politica del doppio binario: condanna reiterata e ufficiale del terrorismo, ma contemporaneamente contatti e, quando ritenuto opportuno, appoggi, finanziamenti e rifornimenti ai vari gruppi, con l'accortezza di operare sempre in modo che fosse difficile risalire fino a Mosca. I gruppi palestinesi risultano particolarmente curati, soprattutto il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che faceva capo a Wadi Addad. Per una fornitura di armi, via Yemen del Sud, il KGB ebbe l'accortezza di consegnare soltanto materiale di provenienza occidentale. Analoga tattica di mimetizzazione ovviamente fu adottata dalla CIA ogni volta che doveva rifornire gruppi anticomunisti.
E ancora. Impegnata a denunciare la politica di apartheid in Sudafrica e a sostenere l'African National Congress di Nelson Mandela, all'epoca in carcere, l'Unione Sovietica faceva tranquillamente affari con Pretoria. La filiera messa in piedi dal KGB non soltanto concordava i prezzi di cartello delle materie prime comuni (diamanti, platino, oro e altri minerali preziosi), ma sosteneva occultamente l'economia Sudafricana e contemporaneamente promuoveva campagne sui media occidentali per colpire e screditare il Governo sudafricano e i Governi occidentali che mantenevano rapporti diplomatici o commerciavano con il paese dell'apartheid.
Sono soltanto alcune curiosità che si trovano spulciando le 600 pagine del libro. Lasciamo che il lettore vada a caccia delle altre, anche con riferimento alle numerose note e a una ricca bibliografia che contribuiscono a rendere questo libro godibile e di notevole interesse, come del resto il volume di Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari: L'Italia vista dalla CIA - 1948 - 2004, Editore Laterza, pagine 366, 2005.


Un'opera interessante che mostra quanto la disinformazione abbia ben lavorato, creando e alimentando il pregiudizio che vuole la Central Intelligence Agency americana come una sorta di "Spectre", dedita a sovvertire la democrazia e a reprimere le aspirazioni di libertà. Contrariamente a quanto accade per il KGB, non c'è studio sulla politica estera americana in Europa e nel Terzo Mondo, durante e dopo la Guerra Fredda, che non faccia riferimento alle operazioni più o meno coperte della CIA.
Certo, CIA e KGB hanno sempre operato, come del resto tutti i servizi segreti del mondo nei confronti dei propri paesi, prima di tutto a vantaggio di Stati Uniti e Unione Sovietica rispettivamente, seguendo le direttive dei governi in carica, nell'ambito di grandi visioni: il trionfo della democrazia occidentale, oppure, in alternativa, il trionfo del socialismo reale.
Il lavoro di Mastrolilli e Molinari si è avvalso del "Freedom of Information Act", cioè della legge che consente a chiunque, anche se non americano, di ottenere la declassificazione di documenti governativi, quando questi non rivestono più carattere di segretezza per l'interesse nazionale.
I due giornalisti, corrispondenti dagli Stati Uniti del quotidiano La Stampa, di Torino, hanno lavorato per quasi sei anni su oltre 4000 pagine di rapporti informativi, note, appunti, riuscendo così a documentare, nel modo più ampio e oggettivo possibile, come Washington abbia osservato e seguito con la massima attenzione le vicende della Repubblica italiana.
Dalle elezioni del 1948 con la vittoria della Democrazia Cristiana, alla Guerra Fredda, al rapimento di Aldo Moro, all'attentato al Papa, fino all'episodio di Sigonella, per arrivare a Tangentopoli, al primo Governo Berlusconi e al Governo D'Alema e poi al secondo Governo Berlusconi, dai documenti emerge sempre una preoccupazione preminente: la stabilità del sistema Italia, premessa indispensabile per la stabilità dell'intera area del Mediterraneo.
Se ne sono dette tante sulle trame della CIA. Al servizio segreto americano è stato attribuito tutto e il contrario di tutto, con una certezza: gli americani erano diffidenti dei politici italiani, quelli del PCI in prima linea, ovviamente. Ma anche la DC preoccupava per il suo filoarabismo, ciononostante non le venivano lesinati gli aiuti.
Il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse sollevò notevoli ed ovvi timori, soprattutto per la tenuta della DC. Un rapporto da Roma sottolinea la rilevanza dello statista democristiano, in contrasto con quanto si è fino a oggi detto circa il "non gradimento" americano per Moro: "La tensione riflette l'assenza dell'influenza stabilizzante di Moro, sia sul suo stesso partito, sia nelle relazioni con i comunisti. La capacità di Moro di mediare nei rapporti fra DC e PCI rappresentava uno dei maggiori contributi alla politica italiana"(pag. 109).
Sulla stessa linea documenti e rapporti contemporanei o immediatamente successivi.
Spregiudicata la CIA? Senza dubbio, ma animata da una realpolitik che fa grazia di molti errori e soprattutto dei rapporti con personaggi di secondo piano, quando non veri e propri millantatori, eletti a fonti "credibili e di prima mano".
Ne è una riprova l'episodio di Sigonella, quando Bettino Craxi si impegnò in un braccio di ferro con Ronald Reagan per i sequestratori dell'Achille Lauro, costretti ad atterrare nell'aeroporto siciliano.
"Craxi, Andreotti e Spadolini erano in disaccordo su come gestire la situazione - scrive un agente americano il 10 ottobre 1985 - Il premier potrebbe rendersi conto che l'unità della sua coalizione è stata seriamente minata".
Previsione azzeccata: pochi giorni dopo il Governo Craxi cade in seguito alle dimissioni di Spadolini, non senza che un altro rapporto della CIA abbia segnalato che le relazioni fra Washington e Roma "sono state danneggiate. Nel breve periodo, gli italiani potrebbero essere meno accomodanti nei confronti degli Stati Uniti. Ma i nostri legami sono abbastanza forti da resistere allo strappo".
A distanza di due anni, anche questa previsione si rivela azzeccata e nel 1987 la CIA non teme più un eventuale ingresso del PCI al Governo, a patto che il Governo sia guidato da Craxi con Spadolini agli Esteri. Lo strappo di Sigonella è acqua passata, gli americani sanno di poter contare su "Craxi's will strong", la forte volontà di Craxi.
Nulla di personale, solo politica, si potrebbe dire. Come del resto per le rivelazioni su "Gladio". A livello ufficiale, negare il negabile e preservare il segreto, a livello confidenziale, giustificare, spiegare, far capire la necessità di "Stay behind" durante la Guerra Fredda.
Mentre CIA e KGB si cimentano nel "grande gioco", con reciproci tiri mancini, alimentando quella "stabilità nell'insicurezza" che deriva dal rischio nucleare, si prepara in sordina il risveglio dell'Islam e l'esplosione del terrorismo che darà il via al periodo dell' "insicurezza e instabilità" che dalla seconda metà degli anni '90 dura fino a oggi.
E' l'oggetto del libro di Antonio Cipriani e Gianni Cipriani: La Nuova guerra Mondiale - Terrorismo e intelligence nei conflitti globali, Sperling e Kupfer Editori, pagine 352, 2005.


Diviso in tre parti, il volume parte dall'analisi del discorso sulla guerra, dall'antichità attraverso il modello Westfalia, alla guerra non ortodossa, fino alle bombe intelligenti e al fondamentalismo-integralismo.
Quindi gli Autori affrontano quello che definiscono "l'arcipelago del terrore", con una disamina dei personaggi e dei movimenti terroristi che oggi imperversano sul teatro mondiale: da Al Qa’ida al Gruppo Islamico Armato, da Osama bin Laden a Abu Sayyaf.
La terza parte è tutta dedicata ai servizi segreti e alla loro organizzazione.
L'opera dei due Cipriani si sofferma soprattutto sulla cosiddetta "guerra asimmetrica", vale a dire lo scontro con una "notevole sproporzione tecnologica, militare ed economica fra i contendenti" che si trasforma in scontro fra high-tech e low-tech, cioè un esercito ad alta componente tecnologica contro un insieme di combattenti con armamento minimo.
"Il contendente low-tech non combatte secondo i normali schemi militari - scrivono i due. Sceglie il terreno a lui più congeniale e il campo di battaglia è ovunque. E questo perché nell'era della globalizzazione lo stesso campo di battaglia diventa globale, perde i suoi confini e quindi si trasforma in senza limiti. E' quello a cui si è assistito l'11 Settembre 2001 e negli anni successivi, segnati da uno stillicidio di attentati e di morte."
Uno scenario già visto in tempi di guerre di liberazione, di teorie su "guerra non ortodossa" e "guerra rivoluzionaria". Uno scenario sul quale si muovono "l'arcipelago del terrore" e i "servizi" che lo combattono. Il libro dei due Cipriani è un buon manuale per orientarsi e capire le guerre in corso e quelle che verranno, che CIA e KGB non hanno saputo né capire (Afghanistan) né prevenire (11 Settembre).



© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA