Shari’a ed equilibrio politico il miracolo possibile di Bagdad |
Ciro SBAILO' |
La Shari’a nella Costituzione.Dov’è lo scandalo? foto ansa Viene giustamente osservato che nella Costituzione irachena i diritti fondamentali sono posti sotto la tutela dell’Islam, considerato religione di Stato. Ciò non deve scandalizzare e nemmeno preoccupare. Occorre innanzitutto tenere presente che la scrittura per i musulmani ha un significato del tutto peculiare. Essa non è un semplice mezzo di comunicazione, bensì il concretizzarsi della stessa presenza di Dio nel mondo. Le pagine del Corano, per il musulmano, sono sacre in se stesse, non solo per il loro contenuto. Ogni scrittura, dunque, rimanda in ultima analisi alla scrittura originaria, alle pagine del libro sacro, nelle quali si realizza la presenza divina nel mondo. Ragion per cui, laddove in ambito islamico si proceda alla messa per iscritto di un principio, non si può che ritornare alla fonte che legittima l’atto stesso dello scrivere, e cioè al Corano. Inoltre, quando si parla di diritti fondamentali, dal punto di vista islamico non si sta parlando di valori naturali indipendenti dalla verità religiosa. Ciò per certi versi vale anche per i cristiani, nella cui fede però c’è l’elemento centrale dell’incarnazione divina, che riscatta l’umano nella sua interezza e universalità, rendendola in qualche modo libera da Dio stesso (una libertà donata non è per questo reversibile, altrimenti il sacrificio e la resurrezione sarebbero stati inutili). Viceversa, nell’Islam la dignità dell’uomo è in qualche misura appesa alla volontà divina, che tutto domina incontrastata. Questo emerge anche dai documenti giuridici dell’Islam contemporaneo. La giustamente famosa Dichiarazione dei diritti dell’Uomo nell’Islam del 1981 inizia così: “Da quattordici secoli l’Islam ha presentato in forma di legge divina (la Shari’a) i ‘Diritti dell’Uomo’ nella loro globalità e nelle loro implicazioni”. E poi continua affermando che l’Islam “l’ultimo (nel senso di definitivo e perfetto) dei messaggi venuti dal cielo”. La dichiarazione del 1990 (Il Cairo) è più vicina alla sensibilità occidentale, ma vi si legge comunque che la Umma è “la migliore comunità che Dio ha creato” (preambolo) e che l’Islam è la “religione naturale” dell’uomo. Le scuole islamiche di diritto si differenziano tra loro solo nel modo di interpretare il Corano. Nessuna di esse mette in discussione il testo sacro. E ciò è strettamente connesso al fatto che nell’ambito della civiltà islamica non viene riconosciuta l’esistenza di uno spazio neutrale rispetto alla rivelazione. La Shari’a viene osservata nella lettera, non nello spirito. Inoltre, questo letteralismo rappresenta una delle principali garanzie di ordine nella vita pubblica dei paesi islamici. Laddove esso venga messo in discussione, i risultati possono essere imprevedibili. Infatti, anche nella cultura giuridica islamica contemporanea si sono sviluppate, come in Occidente, interpretazioni realistiche e dinamiche del diritto, centrate sul ridimensionamento della norma scritta e della tradizione, in favore del “diritto vivo”, il law in action. Ma questa interpretazione, che molto risentiva degli influssi occidentali sulla formazione dei giovani intellettuali islamici nella prima metà del secolo scorso, portò ad una radicalizzazione violenta delle tendenze islamistiche. Secondo Sayyd Qutb, guida spirituale dei ‘Fratelli Musulmani’, la rinascita dell’Islam comporta una sorta di azzeramento della tradizione. A suo avviso, non si può pensare che nelle situazioni in cui l’Islam è minoritario e oppresso valgano le stesse regole emanate quando la Umma era integra e la Shari’a vigeva pienamente. Per certi versi, il pensatore islamico reinterpreta anche il noto concetto di “stato di eccezione”. Secondo Qutb, la norma scritta e la tradizione devono cedere il passo di fronte al riaprirsi della questione circa la decisione originaria che istituisce l’Islam, vale a dire la sottomissione del mondo alla volontà divina. Se tale decisione viene minacciata dalla legalità formale o dal diritto scritto, sono questi ultimi a dovere essere messi tra parentesi. Ciò significa che si può essere autorizzati a compiere atti tradizionalmente condannati dall’Islam – come il massacro di donne e bambini – in nome della decisione che istituisce la realtà islamica come tale. In ultima analisi, la fonte del diritto è nella stessa attività dei “combattenti” e dei “martiri”. Insomma, non necessariamente in ambito islamico la modernizzazione comporta l’affermazione di posizioni di moderazione o di tolleranza. Per certi aspetti, il riferimento alla Shari’a, nella sua letteralità, può essere una garanzia di equilibrio politico. “Laicismo” e “clericalismo”: due categorie da non usare La presenza della Shari’a nella Costituzione irachena va anche vista alla luce del particolare rapporto esistente nella cultura islamica tra religione, politica e spirito nazionale. Come s’è detto, il sentimento nazionale del musulmano corrisponde alla consapevolezza di far parte della migliore comunità possibile. Nella Umma non c’è spazio per differenziazioni di tipo etnico. Certo, non mancano e non sono mancate rivalità tra arabi, iranici e turchi. E molte volte queste rivalità – che hanno avuto anche risvolti bellici di grande rilievo – si sono intrecciate alla contrapposizione tra Sciiti e Sunniti. E tuttavia, ogni antagonismo interno all’Islam si legittima su base islamico-universalistica. Sicché la definizione stessa dell’elemento nazionale e politico avviene sul fondamento religioso. È l’opposto di quanto è avvenuto in Europa. La nazione moderna nasce sul finire del Medioevo, dal declino del bipolarismo papato/impero, in cui a lungo s’è raccolta la quasi totalità delle questioni politiche europee, e in contrasto con l’universalismo imperiale cristiano. Lo stato laico, in Europa, cresce e si sviluppa proprio grazie a questa differenziazione e a questo antagonismo rispetto alla cristianità. La nazione per l’Islam resta la Umma. In questo contesto la Turchia rappresenta l’eccezione che conferma la regola, in quanto si tratta di uno Stato laico a tutto tondo. Ma la Turchia dispone di una propria radice nazionale, indipendente dall’Islam anche sul piano linguistico e letterario. Qualcosa del genere vale, di conseguenza, anche per l’Islam balcanico, sul quale peraltro pesa la lunga esperienza del regime comunista. Ma in generale, nell’Islam la legittimazione delle decisioni giuridiche e politiche ha avuto per secoli e continua ad avere una matrice religiosa. Non nel senso che a decidere fossero o siano gli ulema e nemmeno nel senso dell’osservanza stretta della Shari’a. La situazione è ben più intricata. Il potere degli ulema si indebolisce man mano che si estendono le aree da governare. Così pure, nella medesima fase di espansione, si apre un fossato enorme tra la legge coranica e la concreta pratica giuridica. Tuttavia, in questa fase di passaggio il sultano esercita la propria autorità attraverso decisioni legittimate sulla base delle interpretazioni che i dottori religiosi danno della legga sacra. Si forma così un corpus giuridico-teologico che costituisce poi la base delle successive decisioni dell’autorità “laica” – autorità che rappresenta, concettualmente, una vera novità in senso alla tradizione islamica, ma che tuttavia non diventa la base di un processo di laicizzazione. Sicché l’emancipazione del potere laico viene resa possibile da una sorta di ipostatizzazione dell’elemento religioso. La legittimazione del potere del sultano non deriva dal califfo, bensì dalla sua discendenza diretta da chi ha avuto in passato l’autorità di esercitare quel potere. In questo modo il nesso tra dimensione religiosa e dimensione politica viene esaltato proprio dalla netta visibilità dei due termini: l’uno rimanda all’altro. È questo il punto critico di ogni politica occidentale in ambito islamico. Non c’è una totale identificazione tra il politico e il religioso, ma una polarità che crea un fortissimo campo magnetico. foto ansa In sostanza, è sbagliato affrontare il problema del rapporto tra religione e politica nell’Islam in termini di contrapposizione tra “laicismo” e “clericalismo”. In molti casi, è il potere politico che si serve dei capi religiosi e non viceversa. Ma lo fa proprio in nome della religione, poiché il valore centrale di quest’ultima è nella difesa della Umma. Nel caso dell’Iran, ad esempio, abbiamo una netta dominanza della casta religiosa. Mentre nel caso dell’Iraq di Saddam abbiamo avuto il predominio dell’elemento politico. Ciò indusse in passato diversi analisti occidentali a considerare il regime di Saddam più “laico” e dunque meno pericoloso di quello iraniano. Si trattò di un errore iperbolico. In primo luogo, non si tenne conto della diversa connotazione del rapporto tra religione e politica rispettivamente nei Sunniti e negli Sciiti. In secondo luogo – ed è questo il punto decisivo – non si comprese il fatto che Saddam, anche se poco “pio” (alcuni hanno persino ironizzato sul fatto che non si sapesse inginocchiare nella maniera corretta) era perfettamente legittimato agli occhi dei fedeli, in quanto difensore degli interessi della Umma. Un progetto di integrazione Alla luce di quanto detto circa la peculiarità del rapporto islamico tra religione, cultura e politica, va considerato il carattere tendenzialmente anti-individualistico e vagamente comunitaristico presente nella Costituzione irachena. La Costituzione stabilisce che “lo Stato garantisce la riforma dell’economia irachena in accordo con i moderni principi economici in modo da assicurare il pieno investimento delle risorse, la diversificazione delle fonti e l’incoraggiamento e lo sviluppo del settore privato” [CI art. 25]. Quanto alla proprietà privata questa è “protetta” e il proprietario può beneficiarne “entro i limiti della legge” [CI art. 23], mentre la “proprietà pubblica” è “sacrosanta” e la sua protezione è “dovere di ciascun cittadino” [CI art. 27]. Questa palese disparità di trattamento tra proprietà privata e proprietà pubblica può sconcertare. Ma occorre tenere presente che qui siamo in presenza di un progetto di integrazione nazionale e sociale, che guarda non tanto all’esperienza anglo-americana, quanto a quella europeo-continentale e, in particolare alle due repubbliche tedesche, Weimar e Bonn, e alla Repubblica italiana, caratterizzate dalla configurazione dell’attività dello stato come fattore di riequilibrio sociale. D’altra parte, nella Costituzione irachena, la centralità dello Stato fa da sostegno a un’organizzazione dei pubblici poteri che riflette la visione islamica della vita sociale. All’articolo 29 CI si legge, ad esempio, che “la famiglia è il fondamento della società” e che lo “Stato garantisce la protezione della maternità, dell’infanzia e degli anziani”. Queste norme possono fare arricciare il naso ai cultori dell’ortodossia liberale. È evidente che l’individuo non viene lasciato libero di decidere completamente il proprio destino. Il suo “ambiente” è lo Stato. Del resto, l’individualismo di tipo liberale è un figlio della tradizione cristiana. Si dice molto spesso che Islam e Cristianesimo siano accomunati dal monoteismo. Si tratta di una semplificazione. Islam e Cristianesimo sono, semmai, divisi dal monoteismo. Il concetto islamico di “unità” è statico e mette capo a una rappresentazione impersonale della divinità. Quello cristiano è dinamico e si risolve nella dottrina trinitaria, fondamento della teoria occidentale del primato della persona e dei diritti fondamentali. Queste due diverse impostazioni teologiche sono incompatibili, ma non necessariamente conflittuali, nel senso che ciascuna di esse può fare da sostegno a rispettive forme di “tolleranza” così come di “intolleranza”. È significativo al riguardo il caso della Tunisia. Già nel 1861, in questo Paese, furono introdotti alcuni principi costituzionali liberali. D’altra parte, l’Islam è sempre restata la religione di Stato (art. 1 della Costituzione del 1959) e il Presidente della Repubblica è legittimato su basi islamiche (art. 38). Ciò nondimeno, viene garantito “il libero esercizio dei culti” (art. 5). Ma è da tenere presente anche l’esperienza di un paese come il Marocco, dove il re discende da Maometto e dove, come è stato osservato, è da due anni in vigore “uno statuto sulla cittadinanza rispettoso delle donne, che garantisce una serie di diritti che neppure le femministe marocchine si aspettavano di vedersi riconosciuti” [Emma Bonino in “Non sempre la Shari’a è integralista”, intervista a cura di V. Nigro, la Repubblica, 21 agosto 2005]. Molti altri sono gli esempi che si potrebbero fare. Di tale compatibilità, del resto, sono sempre stati convinti i più illuminati riformisti islamici. Il grande studioso e politico islamico Khérédine, che dopo avere avuto prestigiosi incarichi nelle corti europee, divenne gran Visir del Sultano Abdelhamid nel 1878 a Istanbul, era infatti convinto che tra le principali ragioni dello sviluppo economico e sociale dell’Occidente vi fosse la cultura costituzionale. D’altra parte, egli riteneva che la via del mondo islamico alla democrazia costituzionale dovesse essere tracciata all’interno dei limiti della identità religiosa islamica, cercando di adattare la Shari’a alle esigenze della modernizzazione e rispettando l’istanza islamica di integrazione sociale. In questa chiave va interpretato, ad esempio, il fatto che la Costituzione irachena stabilisce il diritto al lavoro e a una vita “decente” [CI art. 22] e impegna lo Stato a garantire “la riforma della economia irachena in accordo con i moderni principi economici in modo da assicurare il pieno investimento delle sue (dello Stato) risorse” [CI art. 25]. L’espressione “lo Stato” ricorre ben 47 volte. Dopo aver stabilito che i percettori di modesti salari sono esenti dal pagamento delle tasse [CI art. 29], la Costituzione assegna allo Stato il compito di preservare la famiglia, “fondamento della società”, e di proteggere le madri, i bambini e gli anziani, nonché di garantire l’assistenza sanitaria e l’abitazione [CI artt. 30-31]. Lo Stato, inoltre, non solo deve garantire l’esercizio del diritto all’istruzione [CI art. 34], ma deve anche tutelare gli handicappati [CI art. 32] e occuparsi attivamente della salvaguardia dell’ambiente e della preservazione della diversità biologica [CI art. 33]. Solo dopo aver stabilito i compiti dello Stato si passa ad elencare le libertà, con un riferimento prioritario alla “dignità”, che, come nel Trattato che istituisce la Costituzione europea, viene posta a fondamento dei diritti fondamentali [CI art.35/A]. Di particolare rilevanza ci pare l’art. 35: “Tutte le forme di tortura psicologica e fisica e ogni trattamento inumano sono proibiti. Qualsiasi confessione ottenuta con la forza, la minaccia o la tortura non sarà valida (shall not be relied on). La vittima avrà diritto ad una compensazione stabilita dalla legge per i danni materiali e morali subiti. / Lo Stato garantisce la protezione dell’individuo dalla coercizione intellettuale, politica e religiosa. / Il servizio coatto (lavoro non pagato), la servitù, il commercio di schiavi (la schiavitù), il traffico di donne e bambini e il traffico sessuale sono proibiti. / Lo Stato promuove istituzioni e attività culturali in conformità con la storia della civiltà e la cultura irachena. Esso avrà cura di tenere in debita considerazione le tendenze culturali dell’Iraq” [CI art. 35]. È tuttavia da rilevare come il ruolo dello Stato sia sicuramente centrale, ma non al punto da essere posto come fonte dei diritti. In questo senso, il riferimento alla legge islamica, come a una fonte fondamentale, ha un significato garantista [CI art. 2]. Il ruolo dello Stato è quello di intervenire per la tutela e la promozione di diritti di per sé validi, al fine di riempire di contenuti positivi le libertà negative. Qualche perplessità suscita il fatto che le libertà di espressione, stampa e riunione vengano menzionate solo dopo una premessa che fa riferimento all’“ordine pubblico” e alla “moralità” (art. 31). Anche se viene espressamente vietato il “monitoraggio” delle comunicazioni [CI art.38] e vengono garantiti i diritti di critica e di opinione [CI artt. 39-40]. Il quadro si fa problematico se si collegano le norme sociali sopra menzionate con quelle relative all’identità islamica dell’Iraq. Posto che l’Islam è la “religione ufficiale” dello Stato e una fonte “fondamentale” della legislazione, nessuna legge che contraddica i principi islamici può essere promulgata [CI art.2, co. 1/A]. Solo dopo aver stabilito tale principio si proibisce la promulgazione di leggi che contraddicano i principi della democrazia [CI art. 2, co. 1/B] e delle libertà fondamentali [CI art. 2, co. 1/C]. Da notare il fatto che i diritti fondamentali vengono dopo la democrazia. Il senso di questo ordine ci pare possa essere chiarito dalla norma successiva, dove si garantisce “l’identità islamica della maggioranza del popolo iracheno” insieme alla libertà di culto per le altre religioni [CI art. 2, co. 2]. Sicché, il combinato disposto degli articoli 2 e 34 potrebbe risultare minaccioso per la libertà d’insegnamento. D’altra parte, la possibilità di tali minacce è presente in tutte le costituzioni a forte carattere identitario. Si pensi, ad esempio, agli Stati Uniti, dove, in alcuni Stati, movimenti ultraconservatori riescono a usare le norme costituzionali per contrastare l’insegnamento di teorie scientifiche ritenute contrarie alla rivelazione biblica. Un federalismo problematico Insomma, non si può chiedere a una popolazione islamica di scrivere una Costituzione “essenziale”, riguardante esclusivamente i diritti individuali. Anche perché questo genere di Costituzioni sono state a lungo considerate inadeguate anche in Europa, soprattutto nella fase di sviluppo della società di massa. Inoltre, non ci si può aspettare che la Costituzione di un Paese islamico non dia un certo peso alla tradizione sciaritica, che costituisce un elemento identitario molto forte per i musulmani, al pari di quello nazionale per gli europei. È evidente che ci si trova di fronte non ad uno Stato costituzionale liberale, ma ad una repubblica costituzionale islamica di orientamento sociale. Ci pare, dunque, che si tratti di un’esperienza costituzionale più che legittima sul piano teorico e su quello pratico, e che trova inoltre illustri antecedenti in Europa. Ciò non significa che il testo costituzionale di Baghdad non presenti dei gravi problemi. Questi, però, non riguardano i riferimenti coranici, bensì l’assetto federale dello Stato. L’art. 13 CI recita: “La Costituzione sarà considerata come la suprema e la più alta legge in Iraq. Essa sarà obbligatoria attraverso tutto il paese senza eccezioni. Nessuna legge che contraddica la Costituzione sarà approvata; ogni passaggio nelle Costituzioni regionali e ogni altro passaggio che contraddica questa Costituzione sarà considerato nullo”. A ben vedere, si tratta di un’anomalia dal punto di vista occidentale. Le Costituzioni non sono scritte, in Occidente, per limitare il potere dei singoli governi locali, bensì per tutelare questi ultimi nei confronti dello Stato federale. Il decimo emendamento della Costituzione americana recita ad esempio: “I poteri che la Costituzione non attribuisce agli Stati Uniti né inibisce agli Stati, sono riservati ai singoli Stati o al popolo”. Ed è questo il modello di quasi tutte le forme occidentali di federalismo o decentramento, compresa quella recentemente proposta in Italia. Viceversa, nella Costituzione irachena si parte dal fatto che vi sono governi regionali ai quali bisogna imporre una Costituzione. Si ha, cioè, l’impressione che la volontà unificante non proceda dal basso verso l’altro, come normalmente accade nei processi federali, ma all’inverso. Si potrebbe al riguardo osservare che anche nel processo costituzionale europeo si sta verificando qualche cosa di analogo, vista la progressiva limitazione dei poteri nazionali in favore di quelli dell’Unione. D’altra parte, questo processo in Europa si svolge su un lungo periodo. La possibilità di lavorare sui tempi lunghi ha consentito di essere elastici nel processo costituente e anche di storicizzare sconfitte come quelle delle bocciature francese e olandese. Da questo punto di vista, dunque, il paragone con l’Europa non regge. Nella Costituzione irachena, la volontà di unificazione viene messa in discussione proprio dalle norme che dovrebbero razionalizzare il rapporto tra centro e periferia. Abbiamo quattro livelli di governo: centrale (Baghdad), regionale, provinciale e locale. Oltre al Kurdistan, molte altre regioni autonome potranno formarsi, attraverso accordi tra i vari governatorati (art. 114, CI). Al riguardo, i riferimenti più familiari per il diritto occidentale sono la costituzione spagnola del 1978 e la Norma fondamentale della Repubblica federale tedesca. Nella Costituzione spagnola del post franchismo viene tassativamente vietata la federazione di “Comunidades Autónomas” e tutte le varie forme di cooperazione tra le suddette comunità vengono subordinate all’autorizzazione delle “Cortes Generales” [Costituzione spagnola del 1978, art. 145]. Viceversa, nella Costituzione irachena si stabilisce che uno o più governatori avranno il diritto di organizzare referendum per l’unificazione [CI art. 115]. Sicché, mentre il Costituente spagnolo appare sostanzialmente preoccupato della possibilità che le comunità territoriali si associno tra loro per formare ampie confederazioni che possano mettere in discussione l’unità dello Stato, viceversa la Costituzione irachena incoraggia la formazione di grandi aggregazioni regionali. Il che appare quanto meno curioso, in considerazione del fatto che le spinte centrifughe in Spagna sono ed erano tutto sommato controllabili, mentre l’Iraq appare continuamente sull’orlo della disgregazione. In questo senso, la Costituzione irachena si avvicina a quella tedesca, dove si stabilisce che “il territorio della Federazione può essere ridefinito al fine di consentire ai Länder di svolgere con efficacia i compiti ad essi assegnati in funzione della loro dimensione e capacità” [Norma fondamentale della Repubblica federale tedesca, art. 29 co.1]. Come si vede, la Costituzione tedesca non solo non inibisce, ma anzi incoraggia la formazione di nuove aggregazioni regionali. D’altra parte, in Germania non solo non ci sono tendenze separatistiche, ma è tale la frammentazione che il governo federale sarebbe ben lieto che alcuni piccoli stati si aggregassero tra loro, in modo da avere un quadro più omogeneo con cui confrontarsi. Viceversa, in Iraq c’è da aspettarsi che i governatori daranno inizio ai processi di aggregazione molto presto. Ci si chiede, a questo punto, quale sia lo scenario più probabile. Si potrebbe pensare a una soluzione simile a quella adottata dal Belgio, dove c’è ora una Federazione tra tre entità statali: la capitale Bruxelles, le Fiandre e la Vallonia. L’Iraq si potrebbe trasformare in una Federazione di tre stati, con i Curdi al Nord, l’Islam sciita al sud e l’Islam sunnita al centro. Tuttavia, l’esempio belga, ancorché rassicurante, risulta al riguardo poco valido. In Belgio, infatti, nessuna delle due componenti in questione aspira ad un controllo sull’intero territorio nazionale, mentre invece in Iraq c’è stato un lungo dominio sunnita, vissuto in maniera conflittuale dagli Sciiti e dai Curdi. Per comprendere i possibili rischi della situazione irachena bisogna riferirsi a esperienze più traumatiche. Per certi aspetti, bisogna tenere presente la dissoluzione della ex Jugoslavia, dove i conflitti etnici alimentarono la guerra civile. D’altra parte, è stato ampiamente dimostrato che quei conflitti etnici erano in gran parte costruiti a tavolino dalle élite politiche post comuniste, in cerca di un nuovo ruolo politico: nella Bosnia-Erzegovina, ad esempio, prima della guerra scoppiata nel 1992, il tasso di mescolanza etnica era molto alto. Molto più utile ci pare il riferimento alla Nigeria, Paese che fin dall’anno dell’indipendenza, il 1960, è vissuto in una situazione fortemente conflittuale tra il nord musulmano e il sud occidentalizzato. Questa conflittualità perenne ha portato a tragedie immani fino ai nostri giorni. D’altra parte, la situazione irachena, rispetto a quella nigeriana, gode di un’amplissima e intensissima attenzione internazionale. Il rischio della disintegrazione nazionale per effetto della formazione di nuove entità regionali in conflitto tra loro può essere evitato attraverso una politica che faccia un saggio uso delle competenze del governo centrale, in materia di riequilibrio delle risorse e di integrazione sociale. Come tutte le costituzioni federali, quella irachena stabilisce una lista di materie di esclusiva competenza del governo centrale, una di esclusiva competenza degli stati e una di materie concorrenti. Il governo centrale ha la competenza esclusiva su: politica estera e rappresentanza diplomatica, politica commerciale oltre i limiti della federazione e rapporti economici con l’estero, politica fiscale [CI art. 107]. Mentre le materie concorrenti sono: politica doganale, salute pubblica, educazione pubblica [CI art. 110]. Si stabilisce poi che il governo federale e i governi locali dovranno gestire di comune accordo il petrolio e il gas estratto dagli attuali giacimenti (current fields) e per far sì che ai benefici delle estrazioni partecipino tutte le parti del Paese, con speciale riguardo a quelle meno fortunate [CI art. 109, co.1]. Per inciso osserviamo che il riferimento ai current fields lascia intravedere la possibilità che i futuri giacimenti eventualmente scoperti saranno gestiti in materia autonoma dai governi locali. Ci pare comunque da segnalare che la gestione delle risorse petrolifere, di cui viene sottolineato più volte il carattere nazionale, viene finalizzata espressamente allo sviluppo sociale della nazione. Sul piano dell’organizzazione federale, il quadro presenta una certa instabilità. Viene infatti disposto che tutte le competenze espressamente riservate al governo centrale vadano attribuite alle regioni o ai governatorati non organizzati in regione [CI art. 111]. Ora, ci si chiede che cosa potrebbe accadere in una materia cruciale non menzionata tra le competenze esclusive né del governo centrale né dei governi locali, come l’aviazione. Una compagnia aerea straniera che volesse avere il permesso di sorvolare l’Iraq si troverebbe di fronte a una situazione piuttosto imbarazzante. È evidente che questioni di tal genere troveranno soluzioni pratiche, di tipo amministrativo o legislativo-ordinario. Ma, in ogni caso, la lacuna rivela la complessità della questione federale in Iraq. Sindacato di costituzionalità: un vuoto da riempire Un altro nodo da sciogliere è quello del sindacato di costituzionalità, che è un elemento fondamentale del moderno Stato di diritto, ma è assente nella Costituzione irachena. Quando nell’ambito del lavoro costituente s’è discusso del ruolo da dare alla Corte costituzionale, s’è posto il problema della legittimazione delle decisioni di quest’ultima su base sciaritica. Ma una Corte costituzionale non può essere vincolata a una verità religiosa. S’è proposto, dunque, di renderla responsabile di fronte al Parlamento. Ma si sarebbe trattato di una bestemmia. Nella cultura costituzionale, infatti, la meccanica dei pesi e contrappesi è più importante del fondamento di legittimità di ciascuno dei “pesi”, nel senso che la garanzia fondamentale viene data al cittadino, in primo luogo, dal fatto che ogni potere è limitato da un altro potere e nessun potere ha la possibilità di “pianificare” la propria volontà a lungo e medio termine, in quanto deve far continuamente i conti con gli effetti che le sue determinazioni avranno sugli altri poteri. Solo in un secondo momento, la garanzia viene dal fatto che il potere legislativo – o anche alcuni aspetti, rispettivamente, di quello esecutivo o giudiziario – abbia la sua radice ultima nella volontà popolare. Insomma, la Corte costituzionale è un contrappeso del Parlamento e dunque non può dipendere da questo. Sicché, la Corte costituzionale non è stata inserita nella Costituzione. Il che rappresenta un grave handicap per una nascente democrazia. Un miracolo, considerato il tempo Il fatto è che i costituenti iracheni hanno avuto pochissimo tempo per lavorare. Altri paesi in condizioni per molti versi analoghe, come l’Italia e la Germania dopo la seconda guerra mondiale, la Spagna dopo il Franchismo o i paesi dell’est dopo la caduta del comunismo, hanno avuto tutto il tempo per costruire la transizione costituzionale, e per giunta in un clima relativamente tranquillo, se si considera quello che accade ogni giorno in Iraq. La mancanza di tempo è tanto più grave se si considera che l’Iraq è privo di un proprio “paesaggio costituzionale”. Nelle altre transizioni citate si trattava di riagganciarsi a esperienze costituzionali precedenti, cercando di ricondurre i rispettivi regimi antidemocratici alla dimensione di “parentesi” delle varie storie nazionali, in un clima di sostanziale solidarietà con i paesi e i popoli vicini. La Germania e l’Italia, ad esempio, avevano alle loro spalle non solo, rispettivamente, la Repubblica di Weimar e il riformismo dell’età giolittiana, ma anche le tradizioni costituzionali sviluppatesi prima dei rispettivi processi di unificazione, a partire dalla prima metà dell’Ottocento e, in qualche caso, dalla fine del Settecento. Le classi dirigenti dei partiti democratici, a loro volta, disponevano di esperti e tecnici giuristi per valutare non solo l’efficacia tecnica della Costituzione, ma il suo significato politico e le sue conseguenze sul medio e lungo periodo. Questo faceva sì che nel processo di negoziazione costituzionale, l’intreccio tra questioni politiche e questioni tecniche contribuisse a dar vita a un testo solido, equilibrato, sostanzialmente legittimo, ovvero accettato dalle principali componenti politiche e culturali nazionali. Nulla del genere è stato possibile in Iraq. Tutto è stato fatto molto in fretta e sotto stress. Per questo, la Costituzione può definirsi quasi un miracolo. A patto di considerarla un punto di partenza nella transizione alla democrazia, e non un punto di arrivo o un risultato acquisito una volta sempre. |