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punto di vista 1/2019

punto di vista Una nuova Guerra fredda?
Sergio Romano biografia

Vi è una data del 2019 che Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese, attende con una certa apprensione. È quella di un giorno di giugno, trent’anni fa, in cui alcune migliaia di giovani riempirono piazza Tienanmen per chiedere un regime democratico. Dopo qualche esitazione la dirigenza comunista dette ordine di intervenire e di soffocare le manifestazioni con i carri armati.
La repressione dimostrò che Deng Xiaoping, ispiratore e regista della grande riforma, poteva essere, all’occorrenza, un despota brutale, ma ebbe anche il merito di salvare il programma riformatore iniziato sotto la sua guida. Da allora la Cina ha registrato straordinari tassi di crescita, è diventata la seconda economia mondiale, ha costruito un impero economico in Africa ed è ormai una grande potenza tecnologica.
Lo ha fatto copiando tutto ciò che di utile veniva fatto al di fuori dei suoi confini, e impadronendosi di brevetti stranieri, ma il risultato è sorprendente. Non è una democrazia, ma molti suoi cittadini hanno raggiunto livelli di prosperità che erano trent’anni fa inimmaginabili, possono viaggiare, sono diventati apprezzati clienti di tutte le località turistiche in Europa, in America e in Asia, hanno figli che frequentano le migliori scuole del mondo e una fascia alta di imprenditori privati che possono ormai competere, nel grande torneo della ricchezza, con le personalità più facoltose del pianeta.
Eppure questa Cina non è felice. I suoi leader non hanno dimenticato Tienanmen e sanno che vi sono sempre nel paese i germi della ribellione e del disordine.
È accaduto negli anni Sessanta, durante la rivoluzione culturale, quando i fondatori dello Stato erano ancora vivi.
È accaduto durante le riforme di Deng, quando l’industrializzazione, nelle zone agricole, provocava la collera dei contadini e le sedi del parti-to venivano date alle fiamme.
È accaduto anche, più recentemente, quando l’improvvisa ricchezza stava contagiando e corrompendo la macchina dello Stato e del parti-to. Xi è intervenuto con grande durezza e ha fatto pulizia.
Ma oggi esistono altri problemi che non possono essere risolti ricorrendo alla disciplina di partito.
Negli ultimi anni il tasso di crescita del Prodotto interno lordo (Pil) è progressivamente diminuito sino a un livello di poco superiore al 6%. Per le economie europee e americane la percentuale è invidiabile e irraggiungibile. Ma per un paese che occupa 9 milioni e 597.000 kmq e in cui gli abitanti, nel 2017, erano un miliardo e 387 milioni, il 6% non basta per soddisfarne l’appetito e le ambizioni.
Nel 2013, durante la visita del suo leader a una Repubblica dell’Asia centrale, la Cina ha annunciato una nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, nella terminologia inglese) che prevede la creazione di una nuova pacifica Grande muraglia formata da moderne infrastrutture che attraverseranno l’intero continente asiatico per raggiungere il Medi-terraneo e la costa atlantica dell’Europa occidentale.
Il progetto piace ad alcuni paesi e ad alcune forze politiche che vi intravedono la valorizzazione del proprio territorio, ma preoccupa chi diffida degli obiettivi cinesi o teme che Pechino non dia sufficienti garanzie sul modo in cui i lavori verranno ripartiti e gestiti. Ma il problema non è esclusivamente economico. Vi sono paesi per cui la Cina non è soltanto un concorrente. È anche una grande potenza, decisa a estendere la propria influenza sull’intero continente. Per gli Stati Uniti, in particolare, dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca è il nemico di domani.
Se gli attuali ritmi di crescita e sviluppo saranno rispettati, la Cina raddoppierà il suo Pil nei prossimi tre anni e la sua economia, quando celebrerà il centenario della Repubblica popolare (2049), sarà il triplo di quella degli Stati Uniti.
Nell’anno dei festeggiamenti, molto probabilmente, il paese avrà allargato e rafforzato il suo apparato militare (il governo, mentre scrivo, sta aumentando del 7,5% il bilancio delle Forze armate), occuperà posizioni di prima fila nel campo delle scienze, avrà fatto passi da gigante nelle nuove tecnologie e potrà contare sulle straordinarie ricadute economiche della sua nuova Via della Seta.
Molti americani, rappresentati dal loro presidente, sono convinti che questi progressi siano pericolosi e debbano essere frenati. Trump lo sta facendo con piani e misure che sono spesso offensivi, provocatori e in qualche caso controproducenti.
Ha cominciato una guerra dei dazi che limita le esportazioni cinesi verso il mercato americano, ma anche le esportazioni americane verso la Cina. Chiede che la Cina smetta di pretendere che le industrie straniere, quando lavorano sul suo territorio, trasmettano al committente le proprie tecnologie. Sostiene che Huawei, il gigante cinese delle telecomunicazioni, potrebbe usare la propria tecnologia e quella ‘rubata’ alle industrie occidentali per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti con operazioni di intelligence; ha proibito alle Agenzie americane di comperare i suoi prodotti e la sua magistratura ha chiesto al Canada di estradare la signora Meng Wanzhou, figlia del fondatore dell’azienda e ‘colpevole’ di avere violato le sanzioni americane contro l’Iran.
La Cina, intanto, ha reagito con un’azione giudiziaria contro il governo americano per l’ordine impartito alle sue Agenzie e ha arrestato un cittadino canadese; ma nello scontro sui dazi sembra ricercare il dialogo.
Siamo ormai nel mezzo di una nuova Guerra fredda in cui le due maggiori potenze mondiali ricorrono, per il momento, soprattutto ad armi economiche e giudiziarie.
Ma nelle scorse settimane, alla fine di febbraio, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha incontrato il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, e ha colto l’occasione per lanciare un ammonimento a Pechino dichiarando che ogni minaccia cinese farebbe scattare il trattato di reciproca difesa stipulato tra Manila e Washington. Pompeo alludeva, anzitutto, agli arcipelaghi dei mari meridionali del continente cinese che la Cina rivendica contro eguali pretese del Giappone e del Vietnam; ma anche agli scogli che la Cina riesce a trasformare in altrettanti isolotti equipaggiati con aeroporti militari e scali d’approdo: operazioni nelle quali non vi è soltanto un disegno strategico. Vi è anche l’intenzione di rivendicare e occupare tutto ciò che apparteneva all’Impero di mezzo, come la Cina era chiamata nell’antichità, di cui la Repubblica popolare si considera la moderna incarnazione. Alcuni studiosi vedono in queste ambizioni la nascita dello «Stato di civiltà», un fenomeno simile a quello che stiamo osservando in India e in Russia. Serve a ispirare nei cittadini un forte sentimento di orgoglio (Mussolini usò la romanità, fra gli anni Trenta e Quaranta, per dare una legittimità storica al nazionalismo italiano) e può essere utile per stati che hanno un immenso territorio con una popolazione multietnica e multiconfessionale. Ne hanno particolarmente bisogno i grandi paesi che furono comunisti. Il marxismo-leninismo unificava le loro società dando a ogni cittadino una stessa identità e una stessa speranza. Privati di quella identità e di quella speranza trovano nelle isole dei mari cinesi meridionali una prova tangibile del loro passato imperiale. Per gli Stati Uniti, invece, le isole cinesi sono semplicemente postazioni politiche e militari di cui la Repubblica popolare potrebbe servirsi per estendere la sua influenza a paesi dell’Asia in cui già vivono importanti comunità cinesi. Non hanno torto, ma non dovrebbero dimenticare di avere fatto una stessa politica per alcune isole dei Caraibi e del Pacifico.
Le grandi potenze si assomigliano, e quanto più si contendono uno stesso obiettivo (una leadership continentale, se non addirittura mondiale) tanto più divengono simili.

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