La Brexit
di Sergio Romano
Nell’Unione europea la Gran Bretagna è stata sempre trattata come un ospite di riguardo. Quando un suo Primo ministro, Margaret Thatcher, disse che voleva riprendersi i suoi soldi («I want my money back») le fu consentito di avere nella politica agricola comune un trattamento speciale. Negli anni seguenti Londra ha ottenuto il diritto di restare nell’Unione senza sottoscrivere gli accordi di Schengen, le disposizioni sulla moneta comune, sulla giustizia e gli affari interni, sulla politica sociale. Ha aderito all’opt-out per quest’ultima durante il lungo governo di Tony Blair, ma i privilegi concessi a Londra avevano costretto l’Unione, nel frattempo, a fare qualche eccezione anche per altri paesi: Danimarca, Irlanda, Polonia e Repubblica Ceca.
Se la maggioranza degli elettori britannici avesse votato per restare nella Ue, oggi saremmo alle prese con i membri dell’Unione che chiedono di ottenere tutti o alcuni dei favori fatti a David Cameron per esaudire le sue richieste e permettergli di vincere il referendum. Qualcuno, indubbiamente, rivendicherebbe il diritto di ritardare di alcuni anni la concessione dei benefici assistenziali ai cittadini dell’Unione che vanno a lavorare nel loro Paese. Altri vorrebbero essere formalmente dispensati dall’impegno a operare per un’unione sempre più stretta («an ever closer union»). Altri ancora pretenderebbero di non partecipare agli eventuali salvataggi bancari realizzati con il bilancio comunitario.
Queste e altre concessioni dovremmo fare se il referendum avesse approvato il compromesso negoziato da Juncker e Cameron. Ma Cameron ha perduto, la Gran Bretagna ha un nuovo Primo ministro nella persona di Theresa May e i negoziati per l’uscita dall’Unione cominceranno verosimilmente all’inizio dell’anno prossimo. Dovremmo considerarci sconfitti e guardare al futuro con preoccupazione? O non dovremmo piuttosto rallegrarci che il referendum britannico ci abbia liberato da un equivoco?
Se il generale De Gaulle fosse ancora vivo, affermerebbe «Ve lo avevo detto». Nella conferenza stampa del 27 novembre 1967, quando si oppose all’ingresso del Regno Unito nella Comunità economica europea, il generale spiegò che la Gran Bretagna era «insulare, marittima, legata ai Paesi più diversi e decisa a mantenere con essi i suoi speciali rapporti». Avrebbe potuto aggiungere, come aveva detto in altre circostanze, che l’Inghilterra aveva una relazione particolare con gli Stati Uniti e che sarebbe stata, se fosse divenuta membro della Comunità, il loro cavallo di Troia.
Molti videro nelle parole del generale un disegno gollista, contrario sostanzialmente allo spirito federalista che aveva animato i creatori della Ceca, della Ced e del Mercato Comune. Qualcuno ricordò che Winston Churchill, in un discorso all’Università di Zurigo nel 1946, aveva pronunciato le parole «Stati Uniti d’Europa»; e molti, quindi, salutarono con favore le aperture di Georges Pompidou quando succedette a De Gaulle nel 1969. Ma dimenticarono che in altre occasioni Churchill si era espresso diversamente. Aveva detto che non voleva essere il «becchino dell’Impero britannico» e aveva parlato delle relazioni anglo-americane come di un indissolubile «rapporto speciale».
Negli anni precedenti, dopo la fondazione in Campidoglio, nel 1957, di un’istituzione a cui non aveva voluto partecipare, la Gran Bretagna aveva dimostrato di preferire una zona di libero scambio (Efta), un progetto strettamente economico che fu realizzato a Stoccolma nel gennaio 1960 con la partecipazione di Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera. Fino a quel momento, quindi, la Gran Bretagna era stata coerentemente, secondo la definizione di De Gaulle, insulare, marittima e atlantica. Aveva declinato tutti gli inviti che le erano stati rivolti dai fondatori della Ceca perché non intendeva legarsi a un progetto che l’avrebbe costretta ad abbandonare il suo ruolo atlantico e la sua proiezione mondiale. Aveva cambiato idea quando, tornando sui suoi passi nel 1961, aveva chiesto di entrare nella Comunità? No, aveva semplicemente constatato che l’Efta non avrebbe dato i risultati desiderati. Le economie dei suoi soci, ai quali si aggiunsero Finlandia e Islanda, non avevano il dinamismo di cui stavano dando prova i membri del Mercato europeo comune. Temette di avere puntato sul cavallo sbagliato e giunse alla conclusione che soltanto dall’interno sarebbe riuscita a influire sull’evoluzione della Unione europea. Da quel momento dette una collaborazione decisiva alla costruzione del Mercato unico (uno dei pochi obiettivi a cui fosse realmente interessata), ma riuscì spesso a rallentare o diluire i progetti che avevano un più alto contenuto unitario. Non vi sarebbe stato un Atto Unico europeo se la presidenza italiana, durante il Consiglio di Palazzo Sforzesco a Milano nel giugno 1985, non fosse riuscita a superare le resistenze britanniche (la signora Thatcher era ancora Primo ministro) mettendo ai voti le proposte molto più europee presentate dalla Francia e dalla Germania. Battuta a Milano, la Gran Bretagna decise di con- tinuare a fare parte della Comunità sollevando obiezioni e chiedendo deroghe. Dopo il collasso dell’Impero sovietico in Europa orientale, John Major volle l’allargamento agli ex satelliti dell’Urss: una politica che avrebbe diluito l’Unione e allontanato la prospettiva di un’Europa integrata. Quando si cominciò a parlare di politica estera comune, la Gran Bretagna si adoperò perché il nuovo organo fosse privo della necessaria indipendenza e ottenne che il primo ‘ministro degli Esteri’ della Ue fosse una parlamentare britannica (Catherine Ashton).
Avrebbe continuato così, fra annacquamenti e deroghe, se nell’elettorato del partito conservatore, durante gli scorsi anni, non fosse cresciuta, come in altri Paesi europei, un’area critica che attribuisce all’Unione europea tutti i mali da cui sono oggi afflitte le società nazionali. Quando nacque un partito (United Kingdom Independence Party – Ukip) che sembrava capace di conquistare buona parte dell’elettorato euro-critico, molti deputati conservatori, preoccupati della sorte del loro seggio, hanno chiesto un referendum. Dopo qualche resistenza, David Cameron ha ceduto. Per non perdere la guida del partito e del governo, il Primo ministro ha promesso al Paese che avrebbe negoziato con Bruxelles un nuovo adattamento delle regole comunitarie alle esigenze della Gran Bretagna e avrebbe successivamente chiamato gli elettori a giudicare il risultato del suo lavoro.
Ho brevemente riassunto questa vicenda per chiarire che quella a cui abbiamo assistito negli scorsi mesi non è stata, se non indirettamente, una crisi dell’Europa: è stata una crisi del partito conservatore e della società britannica. La maggioranza degli elettori del Regno Unito ha certamente votato contro la partecipazione del proprio Paese all’Unione europea, ma il voto ha avuto, al di là delle sue ricadute economiche e finanziarie, almeno tre conseguenze impreviste ed egualmente dannose.
È stata una vittoria dei vecchi contro i giovani, molto più europei dei loro padri e nonni; è stata una vittoria dell’Inghilterra rurale, provinciale e tardo-industriale contro Londra, metropoli moderna e cosmopolita, seconda piazza finanziaria del mondo; è stata una sconfitta per quelle regioni storiche (soprattutto Scozia e Irlanda del Nord) che non desiderano lasciare l’Unione europea e che potrebbero domani lasciare l’Inghilterra.
La nostra prima preoccupazione dovrebbe essere di non deludere quella parte dell’elettorato britannico che ha votato per restare. A coloro che hanno detto di non volere uscire dall’Unione europea dobbiamo dimostrare che la loro scelta è più giusta oggi di quanto sarebbe stata trenta o quaranta anni fa. Nell’era della globalizzazione, delle grandi economie continentali e delle grandi crisi regionali, tutti i vecchi Stati europei si sono drammaticamente rimpiccioliti e nessuno di essi può affrontare da solo i nuovi problemi che ci aspettano lungo la strada.
Non sarei sorpreso se di qui a qualche tempo la Gran Bretagna ritornasse per la seconda volta sui suoi passi. Ma sarebbe un errore aspettarla. Quando busserà ancora alla porta della Unione dovrà trovare un’organizzazione che non fa deroghe e non tollera annacquamenti.