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punto di vista 4/2015

punto di vista GUERRA ALLO STATO ISLAMICO:
LEZIONI APPRESE E PRESTO DIMENTICATE?

di Gianandrea Gaiani biografia

Gli attacchi terroristici del ‘venerdì 13’ a Parigi, che hanno provocato oltre 130 morti e più di 400 feriti, hanno segnato le coscienze europee e sono stati interpretati da molti come un deciso cambio di passo dell’offensiva jihadista contro la Francia e l’Europa. Riferendosi agli artefici di tali attentati, non è inesatto parlare di miliziani dello Stato Islamico, perché gli uomini del Califfato che hanno effettuato il blitz erano avvezzi all’uso delle armi da guerra e le dinamiche tattiche con cui è stata condotta l’azione non sono dissimili da quelle dei combattimenti urbani ad Aleppo o nei sobborghi di Damasco.
Nel mirino degli uomini del Califfato non c’erano solo i cosiddetti ‘obiettivi sensibili’, come la redazione del giornale «Charlie Hebdo» colpita nel dicembre scorso o lo Stade de France, ove era presente il Presidente François Hollande. L’attacco sanguinoso ha mietuto le sue vittime tra gli avventori di bar e ristoranti e il pubblico di un concerto rock, persone uccise per caso, perché si trovavano in quel luogo in quel momento.
Un aspetto brutale che ha suscitato orrore nel mondo e che ha innescato l’infuriata reazione di Parigi, i cui vertici politici, inclusa l’opposizione, non hanno esitato a parlare di ‘guerra senza pietà’ e ‘sterminio’. La risposta non costituisce certo una novità neppure per il terrorismo di matrice islamista. Stupisce la rapidità con cui sembrano dimenticate le lezioni apprese da fatti pur recenti che sono costati la vita di tante vittime innocenti.
Gli attentati di Al Qaeda nelle stazioni ferroviarie di Madrid, nel 2004, e su un autobus e nella metropolitana di Londra l’anno successivo erano volti a colpire nel mucchio, a uccidere pendolari, lavoratori, studenti, non obiettivi specifici o ‘target’ di elevato valore politico, istituzionale o simbolico. Anche gli ordigni esplosi due anni or sono alla Maratona di Boston puntavano solo a uccidere cittadini qualunque.
Non c’è nulla di nuovo, dunque, nella strategia del terrore mostrata dallo Stato islamico che, come ieri Al Qaeda, punta a seminare il panico nell’opinione pubblica dei Paesi colpiti, dimostrando l’incapacità delle Forze di sicurezza di garantire la protezione della popolazione. Un obiettivo perseguito dai jihadisti a Parigi come a Damasco e a Baghdad, dove autobomba e kamikaze mietono decine di vittime quasi ogni giorno; o in Israele, dove agli accoltellamenti si aggiungono, da anni, azioni suicide e lanci di razzi da Gaza.
Le polemiche sorte intorno all’efficienza e all’efficacia dell’attività di prevenzione affidata ai Servizi di sicurezza rappresentano, per molti versi, un ulteriore successo per i terroristi, riusciti a minare le basi di fiducia che legano l’opinione pubblica alle Istituzioni preposte alla tutela della sicurezza della collettività nazionale.


Le dimensioni della minaccia

All’inizio di novembre un rapporto dei Servizi di sicurezza francesi – rivelato da Radio France Info – aveva evidenziato l’altissimo rischio di attacchi trasversali da parte di cellule terroristiche con basi ubicate al di fuori dei confini nazionali ma con contatti e supporto logistico in Francia.
Gruppi di fuoco composti da foreign fighters, cioè reduci del jihad in Siria o altrove, che avrebbero potuto così sfuggire, sconfinando, almeno per qualche ora al controllo dei Servizi di sicurezza. Di fatto, il rapporto sottolineava che lo Stato islamico avrebbe mosso le sue pedine sfruttando i varchi esistenti nella collaborazione tra i Servizi europei. Una lacuna che compromette le capacità di previsione integrata e la compattezza di reazione.
Nonostante a Parigi ipotizzassero azioni di questo tipo non è stato possibile prevenirle. Del resto, non è pensabile che si possano proteggere tutti i bar, tutti ristoranti e tutte le sale concerti delle città europee.
In Francia i foreign fighters rientrati dalla Siria sono centinaia e possono contare su una rete di supporto costituita da migliaia di ‘radicalizzati in sonno’, aderenti a diversi movimenti dell’Islam. Secondo l’MI5 britannico che, nell’ultimo anno, ha annunciato di aver sventato oltre una dozzina di attentati sia nel Regno Unito che contro interessi britannici nel mondo, i reduci del jihad rientrati nel Paese sono circa 400 (la metà di quelli partiti, dei quali una settantina sono rimasti uccisi in combattimento), inseriti in una lista di 3.000 soggetti considerati ‘vicini all’Islam radicale’, cioè attivi nella promozione del jihad. Anche i simpatizzanti del combattentismo, però, non devono essere pochi se un sondaggio, realizzato meno di due mesi dopo l’attacco alla redazione parigina di «Charlie Hebdo» dall’istituto ComRes per la Bbc, ha evidenziato che il 27%, su un campione di mille musulmani britannici intervistati, «comprende i motivi dietro all’attacco a Charlie Hebdo a Parigi»; l’11% ritiene, invece, che coloro che pubblicano le immagini di Maometto meritino di essere attaccati. Tale percentuale corrisponde a quella di quanti condividono le posizioni di chi combatte il jihad contro l’Occidente. Per ragionevole estensione, potremmo dire che oltre un terzo dei 2,8 milioni di islamici che vivono in Gran Bretagna approva o sostiene le ragioni dei jihadisti.
In Germania la situazione non è certo migliore. A oltre 400 jihadisti classificati come ‘pericolosi’ e 70 foreign fighters rientrati nel Paese dalla Siria e dall’Iraq (su 750 partiti per la guerra contro il regime di Bashar Assad) si affiancano 43.000 estremisti islamici.
«Fratelli, lanciate il jihad in Germania o Austria. Prendete un coltello, andate in strada e sgozzate gli infedeli» è l’appello diffuso in settembre da Muhammad Mahmoud, indicato come uno tra i più influenti foreign fighters austriaci.
Nonostante i numerosi blitz contro alcuni reclutatori, i Servizi di sicurezza tedeschi avrebbero sottolineato quanto sia difficile penetrare direttamente la rete degli islamisti radicali. In tal senso appare sempre più rilevante raccogliere informazioni sul web o dagli omologhi Organismi stranieri stranieri, incluso quello di Damasco che, da un paio d’anni, coopera con gli europei fornendo notizie e liste di jihadisti uccisi o catturati in Siria.


Terrorismo ed estremismo

Di fronte a una metastasi terroristica di tali dimensioni, è ovvio che i Servizi di sicurezza debbano confrontarsi con l’impossibilità sia di ‘un rischio zero’ che di un controllo totalizzante su tutti i potenziali target, peraltro in continuo incremento. Spesso, purtroppo, l’intelligence funge da capro espiatorio, come fosse un fusibile antiansia da sacrificare o da caricare di responsabilità superiori alla stessa mission e alla sostenibilità dello sforzo. Combattere il terrorismo senza sgominare ‘l’estremismo’ che alimenta ‘il brodo di cultura’ significa affrontare solo l’ultimo stadio del fenomeno, certo il più letale. Ma senza sradicarne le cause, non potrà essere sconfitto. Il problema riguarda direttamente la politica adottata in tutta Europa, che non è riuscita a discriminare, nel nome del multiculturalismo e della tolleranza, diffuse aree grigie, ai limiti dell’illegalità e della sovversione. Un’Europa che accoglie ma non integra. Lo studio di Michele Groppi, pubblicato la primavera scorsa dal Centro Militare di Studi Strategici, fotografa una situazione allarmante con 108 moschee e ‘centri di cultura’ in Italia controllati da estremisti islamici che predicano il jihad e indottrinano giovani da inviare in Siria, Yemen e Somalia, affinché siano addestrati a combattere e a uccidere. Ciò consente loro di ritornare pronti ad agire, in grado di utilizzare armi ed esplosivi, reperiti attraverso i trafficanti che dai Balcani meridionali importano in Nord Europa kalashnikov acquistati per meno di 400 euro l’uno in Kosovo e rivenduti a 2.500 euro al mercato clandestino di Parigi o di Bruxelles. Della sfida posta dall’estremismo islamico pare abbiano più consapevolezza i leader di alcuni Paesi musulmani rispetto ai governi occidentali. Basti ricordare che il Presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi ha invocato nel giugno scorso, in un memorabile e deciso intervento all’Università Al-Azhar del Cairo – il maggior centro teologico del mondo sunnita – la necessità di una vera e propria «rivoluzione religiosa» ovvero di un impegno rivolto contro le cattive interpretazioni dell’Islam.
In Francia sembra consolidata la percezione che occorra agire subito e con determinazione, impedendo che tanti cattivi maestri educhino nuove reclute al jihad. Una volta formate, infatti, esse costituiranno cellule pronte, con breve preavviso, a sacrificarsi per la ‘causa’. Tale sensazione sembra trovare conforto anche nel dibattito sulla limitazione delle libertà personali e della privacy nonché sulla necessità di modificare la Costituzione, resa improcrastinabile dall’innalzamento del livello di minaccia alla sicurezza nazionale. La strage di Parigi è stata, molto probabilmente, pianificata in breve tempo se consideriamo l’atto terroristico come rappresaglia ai raid aerei francesi estesi alla Siria dall’inizio di novembre e all’annuncio dell’invio della portaerei Charles De Gaulle a rinforzo dei velivoli già presenti negli Emirati Arabi Uniti e in Giordania. La dimostrazione di forza dell’Isis si è concretizzata anche nella rapida concatenazione degli eventi terroristici che, oltre alla strage di Parigi, in due settimane hanno visto l’abbattimento dell’Airbus russo sul Sinai – decollato dall’aeroporto di Sharm El-Sheikh carico di turisti – come risposta all’intervento di Mosca nel conflitto siriano, e il duplice attentato suicida nei quartieri sciiti di Beirut, collegabile all’impiego delle milizie Hezbollah al fianco delle truppe siriane. Un ‘messaggio’ che ha portato all’atteggiamento tiepido con cui i Paesi della Ue hanno aderito alla richiesta di aiuto di Parigi per la guerre contro lo Stato islamico. Esiste, infatti, la ragionevole possibilità che i terroristi colpiscano i Paesi che dovessero optare per un maggiore coinvolgimento nel conflitto contro il Califfato.


La guerre

Parlare oggi di guerra all’Isis lascia perplessi perché l’Occidente e i Paesi della Lega Araba hanno aderito a una Coalizione militare contro quell’organizzazione già nell’estate del 2014, dopo che le milizie di Abu Bakr Al-Baghdadi avevano invaso il nord-ovest dell’Iraq, proclamando il Califfato. In realtà, quella guerra non è mai stata combattuta veramente e lo sforzo esclusivamente aereo della Coalizione, non accompagnato da una più efficace componente terrestre, è stato inficiato dalla scarsa entità numerica delle incursioni e dagli interessi divergenti dei diversi partner. Le monarchie sunnite non sono interessate a eliminare il Califfato che combatte l’asse sciita Iran-Iraq-Siria; i turchi temono una vittoria curda; gli Stati Uniti non sono più disposti a combattere per aree energetiche non più indispensabili, considerato che lo shale-oil e lo shale-gas ne garantiscono la piena autonomia; l’Europa risulta ancora una volta marginale, anche se coinvolta in una crisi alle porte di casa, foriera di enormi problemi, dal terrorismo all’immigrazione fuori controllo.
Quindici mesi di ‘finta guerra’ hanno dunque determinato il rafforzamento dell’Isis, anche grazie a un uso dei media esaltato dal mito di ‘invincibilità’ che Al-Baghdadi può così vantare.
Dopo aver pronunciato mille volte la parola guerre, la Francia è ora chiamata ad accrescere il proprio impegno per non dare al ‘nemico’ strumenti di propaganda che possano minare la credibilità di Parigi. Nonostante la solidarietà espressa, i partner europei sembrano disposti a rilevare esclusivamente i compiti di piccoli contingenti francesi schierati in missioni Onu e Ue, dal Libano all’Africa, mentre i russi hanno già definito i francesi ‘alleati’, cogliendo così l’opportunità di sanare lo strappo determinato dalla crisi ucraina nelle relazioni con Parigi e con l’Europa.
Benché non ci siano, al momento in cui scriviamo, indicazioni sul rinnovato sforzo bellico di Parigi – a parte il già pianificato rafforzamento della componente aerea con l’invio nel Mediterraneo orientale della portaerei De Gaulle – è lecito attendersi che il Paese transalpino valuti di inviare un contingente militare in Iraq o nella stessa Siria. Le capacità di proiezione francesi consentono di mobilitare 5/6.000 uomini con blindati, artiglieria, elicotteri e mezzi corazzati. Una forza da affiancare agli eserciti che già combattono lo Stato islamico e, cioè, le truppe di Baghdad, le milizie sciite, le forze curde e l’esercito siriano appoggiato dai russi, dagli iraniani e dagli hezbollah.
Schierare truppe francesi in Siria, a fianco delle forze locali, ribalterebbe completamente la posizione di ostilità tenuta finora da Parigi nei confronti del regime di Bashar Assad. La ragion militare potrebbe imporre un realismo politico fino a ieri inimmaginabile, tenuto conto che la sola offensiva aerea, come accennato, non è in grado di assicurare i frutti attesi.
Ne è una dimostrazione il bilancio delle vittime provocate dai raid francesi e russi su Raqqa nei tre giorni successivi alla strage di Parigi: 33 jihadisti uccisi, un numero irrisorio se consideriamo che il Califfato, secondo fonti d’intelligence, continua a ricevere un migliaio di nuovi volontari ogni mese.


Che fare

La fluidità della situazione e la complessità del problema da affrontare richiedono capacità di scomporre la risposta possibile.
Da un lato, la definizione di una politica europea di contrasto unitario e multifattoriale, che contempli anche la compressione di interessi nazionali nel medio/lungo periodo e che valuti attentamente gli effetti indotti dalle azioni negli scenari attraverso il ricorso a valutazioni e analisi di tipo previsionale.
Dall’altro, un immediato riallineamento delle prassi operative di intelligence che, sdoganate dalle ataviche pulsioni centripete e autoreferenziali, si impegnino a rafforzare sistematicamente le linee collaborative già esistenti, a incrementare la propensione al jointing sul campo, a potenziare la Humint e il proprio acculturamento in direzione anche delle diversità antropologiche dell’Islam settario.
La minaccia che abbiamo di fronte è di respiro profondo, pulviscolare e fortemente asimmetrica. Tali caratteristiche impongono sensibili discontinuità nelle pratiche sia di intelligence che di sicurezza e una maggiore ‘prossimità’ della politica ai Servizi. Sono questi ultimi – al netto di scelte strategico-militari – da doversi considerare il fronte avanzato su cui contare, in specie per quanto riguarda la protezione dei Sistemi Paese.
Non possono rinvenirsi formule magiche ma, per logica e tradizione storica, il metodo più pagante è quello dell’infiltrazione programmata di agenti/spie nei settori di interesse, il conseguimento di informazioni di valenza predittiva e l’avvio delle conseguenti attività repressive.
Tutto il resto deve agire di supporto, senza pesanti sovrastrutture. Al fine di rendere più agevoli queste manovre anche il quadro giuridico va rimodulato, nel senso di prevedere più ampi margini di azione per gli operatori, senza pregiudizi demonizzanti, come si è inclini spesso a nutrire nei confronti di chi ha il dovere di agire secondo un peculiare modus operandi, diverso da quello delle Forze di polizia.

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