GNOSIS 2/2012
Intelligence Il fattore umano nella guerra al terrorismo |
Guido OLIMPIO |
Oggi la guerra al terrorismo ha la sua espressione più muscolosa con i raid dei droni. Non c’è ‘santuario’ – dall’area tribale pachistana allo Yemen – dove i velivoli senza pilota conducono una caccia senza quartiere a qaedisti e militanti. L’idea è che queste macchine letali possano fare il ‘lavoro sporco’. Se non puoi mandare agenti in carne ed ossa ti affidi al ‘Reaper’, il mietitore. Ma la capacità dei droni sarebbe ridotta se non ci fosse un’attività sul terreno condotta da persone che rischiano la vita. Sono loro che raccolgono i dati e li passano alla ‘stazione’ che poi li processa e decide cosa fare. Un ruolo che vale per le missioni affidate ai droni, ma che si estende a qualsiasi azione di intelligence. Il fattore umano Il fattore umano, spesso negletto o offuscato dalle meraviglie della tecnologia, può essere davvero decisivo. Una conferma è emersa tra aprile e maggio di quest’anno, quando è stato sventato un nuovo attentato ad un aereo di linea. Lo doveva compiere un terrorista suicida, fornito di un tipo più sofisticato di ‘mutande-bomba’. Un piano concepito dalla branca yemenita di Al Qaeda. Solo che il probabile kamikaze era un infiltrato dei Servizi sauditi che ha assecondato l’operazione fino ad un passo dall’ora X, per poi scappare negli Emirati. Una volta a Dubai, ha consegnato ai suoi ‘gestori’ l’ordigno e ha fornito indicazioni cruciali sul gruppo estremista. Svelando probabilmente più del dovuto, diverse fonti hanno ricostruito il percorso della talpa. Cittadino inglese d’origini mediorientali, è stato agganciato dagli 007 sauditi proprio in Gran Bretagna. Quindi, è stato ‘coltivato’ e trasformato in militante perfetto. Il candidato ideale per essere reclutato da una formazione qaedista, doveva: 1) apparire determinato, 2) conoscere bene l’Occidente, 3) avere un passaporto britannico che gli permettesse di viaggiare in Europa e in USA senza necessità di visti. Il passaggio successivo è stato più ‘fumoso’. Forse un secondo informatore ha avvisato Riad che i qaedisti cercavano qualcuno che potesse condurre una nuova operazione. E, allora, la ‘talpa’ si è offerta. Oppure, è stato scelto per i motivi che abbiamo indicato. Il risultato non cambia: il progetto è stato neutralizzato. Il successo non è casuale. Ed ha già avuto un precedente noto (ottobre 2010). Sempre un infiltrato ha permesso di scoprire ordigni celati nelle cartucce di toner e poi spediti dallo Yemen a bordo di aerei cargo. Tutto questo è merito di un paziente lavoro organizzato da Riad che ha usato un programma di rieducazione di militanti per reclutarne alcuni. E una volta in libertà sono tornati sul sentiero del Jihad, trasformandosi in preziose spie. Si tratta di manovre ad alto rischio. Perché non è detto che l’infiltrato si penta due volte. Come il famoso medico giordano Hamam Al Balawi. Jihadista, arrestato dai giordani, ha accettato di collaborare (in parte) e si è unito ai talebani. Amman e la Cia pensavano di aver in mano l’uomo giusto, colui che aveva promesso di portarli ad Ayman Al Zawahiri, invece, Al Balawi ha beffato tutti, ottenuto un incontro con i responsabili dell’Intelligence americana a Khost, si è fatto saltare, annientando la ‘stazione’ (30 dicembre 2009). Un colpo micidiale che ha messo in luce come sia complicato gestire una fonte primaria. Difficoltà accresciuta, in questo caso, dalla presenza di due ‘attori’. I giordani e gli americani. Alleati, abituati a lavorare insieme, ma con approcci differenti. Più pazienti e cauti i mediorientali, affamati di risultati e più impulsivi i secondi. Forse una minor fretta nell’arrivare al bersaglio grosso – Al Zarkawi – avrebbe evitato il disastro di Khost. Un altro Paese che ha collaborato, in modo efficace con l’Occidente, è stata la Libia di Muammar Gheddafi. Sembra un paradosso che Tripoli, nota per i suoi legami con il terrorismo – dall’Ira nord irlandese alle fazioni mediorientali più agguerrite – abbia lavorato con l’Ovest. Ma è proprio così. È, infatti, emerso che i Servizi libici, in collaborazione con quelli britannici, hanno sostenuto una moschea in un Paese europeo frequentata da estremisti. Alcuni sono stati attentamente monitorati, altri ‘ingaggiati’ per attività di infiltrazione in ambienti estremisti. L’esatta portata dell’operazione non è nota ma, a giudicare dalle indiscrezioni apparse sulla stampa inglese, il patto ha dato dei frutti consistenti in un’arena estesa. Va ricordato, che nella gerarchia qaedista i militanti libici hanno ricoperto incarichi molto importanti, così come non erano pochi i ‘volontari’ partiti dall’Est e finiti nei campi afghani. Molto abili nella gestione di ‘talpe’ gli israeliani. In chiave interna con gli uomini gestiti dallo Shin Bet e in quella globale con gli agenti arruolati dal Mossad. Nel primo caso, alcuni agenti doppi si sono rivelati preziosi per sventare attentati in Israele o fornire informazioni poi usate per ricostruire ‘mappe del terrore’. Nel secondo, gli israeliani hanno penetrato gruppi temuti o – secondo notizie di fonte Usa – dato vita alle classiche manovre di ‘falsa bandiera’. Hanno arruolato dissidenti iraniani facendosi passare per la Cia e li hanno poi impiegati per azioni di sabotaggio. I pericoli I casi saudita, giordano e israeliano – realtà vicine e lontane – offrono spunti sui pericoli insiti nel ricorso agli agenti doppi. I tre Paesi, infatti, hanno registrato punti a favore ma anche patito – come abbiamo accennato in precedenza – rovesci. Tralasciando i successi, ci soffermiamo sui secondi indicando alcune ‘tendenze’. Il pentimento – Con i terroristi qaedisti non si è mai sicuri del loro totale pentimento. La componente religiosa è forte e supera l’appartenenza ad un movimento politico. Dunque il ‘collaboratore’ inizia a lavorare con l’Intelligence, fornisce dati probanti, diventa un ‘asso’ importante. Ma non è detto che questa scelta sia eterna. Questo crea l’esigenza di controllare l’attendibilità della persona così come di quello che racconta. La trappola – L’agente doppio può solo fingere di collaborare (vicenda del dottore giordano e la Cia). Oppure è convinto dai terroristi a cambiare idea. I palestinesi hanno spesso offerto la possibilità agli informatori degli israeliani di ‘espiare’ il loro tradimento partecipando ad attentati. E questo avviene per scelta oppure per fattori contingenti. L’uccisione di un congiunto o un evento drammatico uniti al rimorso per aver servito il nemico diventano la molla. L’interdizione – I talebani, con i qaedisti, sono ossessionati dagli infiltrati. In talune situazioni rifiutano persino di accogliere reclute non ‘garantite’, per paura di essere gabbati. Inoltre, hanno creato piccoli team la cui unica missione è quella di scoprire le ‘talpe’. Specie nell’area tribale, molti elementi sospetti sono stati decapitati perché accusati di essere dei ‘doppi’. Il teatro Le tattiche cambiano, a seconda del teatro dove gli agenti sono chiamati ad agire: in uno ‘sterile’ – come può essere l’Europa – è chiaro che un agente occidentale abbia qualche vantaggio. La rete di controllo, i luoghi di aggregazione e i dati a disposizione permettono tanto alle Forze di polizia che ai Servizi di sicurezza di agire con punti di riferimento. Occhi e orecchie che ascoltano, captano, sorvegliano, senza essere esposti a pericoli. Il grande flusso di cittadini stranieri diventa la ‘bolla’ dove cercare qualcuno disposto a collaborare e, magari, a trasferirsi – come nel caso saudita – in aree sensibili. Ben più ardua la missione in territori ostili o dove l’ambiente circostante può riservare sorprese. In questa cornice è evidente che crescono i rischi. L’agente non solo deve andare all’attacco – nel senso di cercare notizie – ma anche proteggersi. Però essere in uno di questi avamposti permette di cogliere in anticipo un ‘frammento’ che diventa notizia-chiave. In un’epoca di grandi sommovimenti sociali si creano poi delle ‘finestre d’opportunità’. I gruppi terroristici, pressati militarmente, sono combattuti tra il bisogno di riempire vuoti con uomini che potranno tornare utili – il caso degli europei – e il timore di essere infiltrati. Lo stesso Osama in una delle sue tante lettere sosteneva che fosse più facile pescare qualcuno in Occidente, senza costringerlo a un difficile viaggio verso uno dei ‘santuari’. Era già sul posto e non si correva il rischio di portare ‘in casa’ persone non di fiducia svelando contatti, luoghi, rete. Tuttavia, sulla capacità di controllo da parte dei militanti viene ad incidere il fenomeno dei volontari che vogliono partecipare alle rivolte nei Paesi arabi. Specie quelle dove si deve usare il fucile. È chiaro che si apre una breccia, nonostante le diffidenze dei qaedisti. Le realtà tumultuose, con regimi che cadono e spinte rivoluzionarie, allargano le maglie. E il primo elemento di contatto può essere non necessariamente l’uso delle armi. Ma è la manifestazione, il corteo. È qui che il futuro infiltrato viene notato e può trovare il gancio. Gli episodi yemeniti rappresentano la prova che i margini ci sono. E qui l’humint è il grimaldello. Che può essere usato tanto contro gruppi eversivi come nei confronti di apparati nemici. La necessità per alcuni paesi di ottenere prodotti strategici diventa l’amo al quale spesso restano attaccate delle spie. Gli anni post 11 settembre hanno ruotato attorno al totem della tecnologia. Intercettazioni, ‘cimici’ ultrasensibili, flotte di satelliti spia e squadriglie di droni sono diventate le armi principali dell’arsenale anti-terrore. Ma, con il passare del tempo, si è tornati a rivalutare il ‘fattore umano’. Non è infallibile, commette degli errori di valutazione, ma è il solo che può interagire – ottenendo risultati – con una minaccia che è composta non da macchine, ma da uomini.
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