GNOSIS 1/2012
Evasione fiscale e riciclaggio un intreccio perverso |
Ranieri RAZZANTE |
Il concetto di reato presupposto L’analisi del concetto di reato presupposto del riciclaggio parte necessariamente dalle norme previste dalla Convenzione di Strasburgo sul riciclaggio dell’8 novembre 1990, modificata dalla Convenzione di Varsavia del 16 maggio 2005. Per reato presupposto s’intende, secondo quanto previsto dall’art. 1, lettera e) della Convenzione suddetta, “qualsiasi reato in conseguenza del quale si formano proventi che possono diventare oggetto di uno dei reati definiti all’art. 9 della presente Convenzione”. L’articolo 9 appena menzionato detta le caratteristiche fondamentali che devono contraddistinguere i reati di riciclaggio e reimpiego di denaro previsti dagli ordinamenti degli Stati appartenenti all’UE. La lettera della Convenzione, quindi, si estende a macchia d’olio su qualsiasi reato (doloso o colposo) dal quale possano trarsi proventi da riciclare (2) . In sostanza, tutti i reati da cui scaturiscono proventi suscettibili di valutazione economica, sono considerati potenziali reati presupposto del riciclaggio (3) . La ratio, evidentemente, sta nella volontà del legislatore comunitario di arginare nel miglior modo possibile l’occultamento, la conversione, il trasferimento, la dissimulazione o il reinvestimento dei proventi (4) di origine illecita. Ogni ordinamento deve prevedere norme atte a reprimere qualsiasi forma di riciclaggio di valori economici illecitamente prodotti. L’unica precisazione della Convenzione di Strasburgo riguardante il mare magnum dei reati che possono essere presupposto del riciclaggio la si trova nel comma 4 dell’art. 9. Questo comma stabilisce per ciascuna Parte (ciascuno Stato firmatario) la possibilità di prevedere all’interno del proprio ordinamento che solo i reati puniti con una pena privativa della libertà o con una misura di sicurezza, entrambe di durata minima superiore a sei mesi, possano essere considerati presupposto del riciclaggio. Lo stesso comma specifica anche che ad ogni Stato firmatario è lasciata la possibilità di prevedere una lista o una categoria di reati presupposto specifici. Si pensi, a quest’ultimo riguardo, alle formulazioni del nostro art. 648-bis c.p. precedenti rispetto a quella attuale: anche il codice penale italiano tipizzava i reati-presupposto del riciclaggio (5) . La previsione di questo comma della Convenzione, quindi, permette ai vari ordinamenti di “tutelare” quelle condotte illecite che, sebbene produttive di proventi, siano considerate “a scarso disvalore sociale”, tanto da essere punite con pene ridotte e tanto, appunto, da potersi escludere dalle condotte costituenti presupposto del riciclaggio. L’ordinamento italiano ha recepito in parte i dettami della Convenzione di Strasburgo. L’art. 648-bis, infatti, stabilisce che il denaro, i beni e le altre utilità debbano essere provenienti da delitto non colposo. Il legislatore (con l’ultima modifica del 1993 dell’articolo in questione) ha optato per una “apertura” dei delitti presupposto a tutti i delitti non colposi con una sola previsione attenuante (comma 3) qualora il reato presupposto sia punibile con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. Una interpretazione letterale del disposto porta a far rientrare nell’insieme dei delitti presupposto del riciclaggio tutti i delitti dolosi, con l’esclusione dei, in verità pochissimi, delitti colposi. Si è passati così da una eccessiva limitazione-tipizzazione dei reati presupposto prevista dalla versione del 1990 dell’articolo (rapina, estorsione, sequestro e traffico di stupefacenti) ad una formulazione che rischia di configurare come presupposto del riciclaggio fatti a scarso disvalore sociale. Ad oggi vi è contrasto circa l’esatta interpretazione della locuzione “provenienti da delitto non colposo” (6) : secondo una tesi da molti avallata (per tutti Zanchetti) (7) si può giungere ad una esatta definizione distinguendo il concetto di provenienza da reato da quello di pertinenza al reato. In questo senso oggetto del riciclaggio possono essere i beni provenienti da delitto in senso stretto, ovvero i ricavi del reato (il prodotto, il profitto ed il prezzo) ma non certo lo strumento-mezzo del reato. Sulla base dell’interpretazione del concetto di “provenienti da delitto non colposo” sono state fornite divergenti soluzioni alla problematica relativa al riciclaggio del denaro proveniente dai reati tributari. Possono essere considerati i reati tributari presupposto del riciclaggio? L’orientamento maggioritario secondo cui si considerano tali reati quali potenziali presupposto del riciclaggio è stato fatto proprio inizialmente sia dal cd. “Decalogo-ter” della Banca d’Italia sia dalla circolare della Guardia di Finanza del 18/08/2008. La Banca d’Italia nelle sue “Istruzioni operative per l’individuazione di operazioni sospette” (8) ha stabilito che: “Le violazioni delle norme tributarie sono strumento utilizzato per precostituire fondi di provenienza illecita da reinserire nel circuito economico ovvero possono rappresentare una delle manifestazioni di più articolate condotte criminose volte ad immettere in attività economiche apparentemente lecite disponibilità derivante da altri illeciti. Operazioni connesse a condotte che non costituiscono delitto sotto il profilo fiscale possono comunque costituire strumento per occultare attività criminose di altra natura”. Anche nella circolare n. 81 dell’agosto 2008 emessa dal Comando generale della G.d.F. tale orientamento è confermato. Secondo un’ autorevole e differente tesi (L.D. Cerqua) (9) occorre operare una distinzione: dalla categoria dei delitti-presupposto devono essere esclusi i delitti in materia di imposte dirette e sul valore aggiunto, che non producono ricchezza, mentre in detta categoria devono essere ricompresi i delitti di contrabbando doganale, che invece producono ricchezza, la quale proviene quindi da essi. Nei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 (10) viene punita la dissimulazione diretta a fini di evasione d’imposta, in quanto non vi sono beni che provengono da attività delittuosa. Queste le posizioni più significative della dottrina. Certo non può non darsi il giusto peso al dato letterale. La locuzione “denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo” indica chiaramente che tutti i delitti non colposi possono essere presupposto del riciclaggio. I reati tributari previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 e successive modificazioni sono tutti delitti, fra l’altro a dolo specifico. La mancata o falsa fatturazione (11) così come la mancata dichiarazione sono definite delitti dall’ordinamento. Questi delitti generano utilità detenute illecitamente che, evidentemente, possono essere oggetto di riciclaggio. Si può quindi sostenere che anche nella dichiarazione fraudolenta od infedele il denaro “risparmiato” (perché non versato al Fisco) provenga da attività illecita. I problemi, semmai, sorgono nel momento in cui debba dimostrarsi che proprio quel denaro proviene da delitto tributario o quando debba dimostrarsi del pari l’elemento soggettivo di colui che ha riciclato. È importante aggiungere che il dolo richiesto dall’art. 648-bis c.p. è generico (12) e comprende la volontà di compiere le attività relative ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa di beni o di altre utilità e la consapevolezza di tale provenienza, senza alcun riferimento a scopi di profitto o lucro (13) . Il concetto di “proventi” oggetto del riciclaggio Nella definizione fornita dall’articolo 1 della Convenzione di Strasburgo, “provento significa ogni vantaggio economico derivato od ottenuto, direttamente o indirettamente, da reati. Esso può consistere in qualsiasi valore patrimoniale, come definito nel sottoparagrafo b) del presente articolo”. Secondo il sottoparagrafo b) dell’articolo 1 summenzionato, per valori patrimoniali s’intendono: “valori in qualsiasi modo descritti, materiali o immateriali, mobili o immobili, nonché documenti legali o strumenti comprovanti il diritto di proprietà o altri diritti sui predetti valori”. Anche in questo caso la formulazione è tanto chiara quanto generica. Provento-oggetto di riciclaggio può essere ogni vantaggio economico derivato od ottenuto, direttamente o indirettamente, da reati. Trasfondendo e coordinando quanto stabilito dalla Convenzione con quanto previsto dal nostro codice penale si giunge a questa definizione: tutto il denaro, i beni o le altre utilità derivati od ottenuti, direttamente o indirettamente, da delitti, possono divenire oggetto di riciclaggio. Possono divenire oggetto di riciclaggio i proventi di una rapina, quelli di un sequestro, quelli di una estorsione, ed anche, direi, quelli di una dichiarazione dei redditi infedele. È vero che il reddito è stato lecitamente prodotto ma “l’attivo in più” che riviene dalla dichiarazione infedele comporta, oltre che la consumazione di uno specifico delitto, la produzione di attività potenzialmente riciclabili. Non si pensi ai casi in cui grazie alle dichiarazioni infedeli si “risparmiano” cinquecento, mille o duemila euro di tasse ma ai casi in cui si risparmiano decine di migliaia di euro. D’altronde è lo stesso D.Lgs. n. 74/2000 a fissare dei tetti minimi superati i quali si perfezionano determinati reati tributari. In ogni caso, comunque, il problema della gravità dell’illecito commesso riguarda tutti i delitti presupposto del riciclaggio e non solo i reati fiscali. Così come possono divenire oggetto di riciclaggio diecimila euro provento di una rapina, possono divenirlo, a maggior ragione, centocinquanta milioni delle vecchie lire rivenienti da evasione fiscale. Tutti i reati tributari, lo si ripete, sono delitti da cui si ottengono, direttamente, vantaggi economici. Le definizioni fornite dalla Convenzione di Strasburgo, a tal riguardo, si coniugano perfettamente con quanto stabilito dal nostro ordinamento. Attualmente le dimensioni internazionali della crisi economica sono evidentemente all’origine di un’importante novità introdotta nella nuova versione delle 40 Raccomandazioni del GAFI, approvata il 16 febbraio scorso: l’inclusione dei reati fiscali tra i presupposti del riciclaggio (14) (cfr. Racc. n. 3). La nuova Raccomandazione non comporta novità per l’Italia la quale, avendo adottato un’opzione all crimes, già comprende, ormai da un po’ di tempo e come già evidenziato i reati tributari tra i presupposti del riciclaggio, ma il pressante invito del GAFI è indicativo di un nuovo clima, suscettibile di dare slancio alla lotta all’evasione anche nel nostro Paese (15) . I problemi legati all’individuazione dei proventi del reato tributario (quando oggetto di riciclaggio) e all’individuazione dell’elemento soggettivo Stabilito che i reati fiscali possono costituire presupposto del riciclaggio, la questione ed il problema fondamentale, come già brevemente anticipato, consiste nella difficoltà di individuare precisamente i proventi dei reati tributari che possono poi diventare l’oggetto del riciclaggio. Il riciclaggio come tutti sanno e come stabilito nel codice penale, può essere commesso “fuori dei casi di concorso nel reato”. Chi commette, o chi concorre nel commettere, il reato presupposto, cioè, non risponde anche ex art. 648-bis. L’autoriciclaggio, almeno per ora, non è contemplato dall’ordinamento. I proventi di un reato fiscale, quindi, devono essere necessariamente riciclati da un terzo il quale preveda la provenienza illecita degli stessi. Si ipotizzi, per esempio, il caso di un commercialista che operi per conto del suo cliente o di un funzionario di banca che compia operazioni per conto di un correntista. Nell’uno e nell’altro caso, il commercialista ed il funzionario devono volontariamente effettuare operazioni che permettano di riciclare i proventi. Il loro agire, in sostanza, deve essere doloso (16) . A questo punto ci si potrebbe dilungare in una ulteriore trattazione sulla precisa natura dell’elemento soggettivo che contraddistingue i “riciclatori”: devono questi accettare il rischio che i proventi provengano da attività illecite o devono esserne certi? La norma, per esprimersi tecnicamente, richiede il dolo eventuale (17) o il dolo generico quali elementi soggettivi rispetto alla provenienza della res? Sia che si propenda per il dolo eventuale sia che si propenda per quello generico, sta di fatto che in un eventuale processo il Pubblico Ministero di turno dovrà preoccuparsi di dimostrare almeno (al minimo) l’accettazione del rischio-dolo eventuale da parte del riciclatore. Ma a parte questa difficoltà, come può acclararsi che proprio quei beni provengano da reato tributario? I proventi dell’evasione fiscale, al momento della consumazione del reato stesso, si confondono con il patrimonio dell’evasore. Come può accertarsi che il riciclatore sapesse (o accettasse il rischio) che i beni provenissero da reato? L’individuazione dei proventi illeciti (già complicata per gli altri reati presupposto) diviene ancora più difficile nel caso dei reati fiscali. Proprio sulla base di quanto detto si assume che, sebbene si considerino possibili presupposto del riciclaggio, nel caso di reati fiscali l’individuazione dei proventi illeciti diviene per i giudici più che una probatio diabolica. A ciò si aggiunga che l’elemento soggettivo (18) richiesto al riciclatore rispetto alla conoscenza della provenienza illecita dei proventi è, come detto, il dolo generico; non basta, quindi, dimostrare l’accettazione del rischio ma si deve dimostrare la consapevolezza del riciclatore rispetto alla provenienza delittuosa della res (oltre alla individuazione della res stessa) (19) . L’autoriciclaggio come possibile soluzione Come si è già avuto modo di anticipare, il reato di autoriciclaggio non è previsto dal codice penale sebbene si siano susseguite nel tempo svariate proposte per la sua introduzione, ed una in particolare sia tuttora al vaglio delle commissioni parlamentari. In molti ordinamenti degli Stati ad “economia avanzata” tale reato è previsto ed il GAFI, in più d’una occasione, nelle sue raccomandazioni, ha invitato gli Stati non ancora allineati, ad adeguarsi. L’articolo 648-bis c.p. esclude, grazie alla c.d. “clausola di riserva” (fuori dei casi di concorso nel reato) (20) , la possibilità che colui che ha commesso e chiunque abbia concorso nel commettere il reato presupposto possa rispondere anche di riciclaggio. La scelta del legislatore, evidentemente, è sempre stata dettata dalla volontà di evitare il ne bis in idem (il riciclaggio, si ricorda, prevede una pena massima di dodici anni). Si è sempre sostenuto che la pena prevista per il reato presupposto racchiuda già in sé la punizione per l’eventuale dissimulazione dei proventi. In sostanza, la pena prevista per il reato di rapina, per esempio, prevede e punisce a priori la “naturale” volontà del rapinatore di riutilizzare, di reinvestire, di lavare i proventi del reato presupposto. L’autoriciclaggio appesantirebbe eccessivamente la posizione di colui che ha commesso il reato presupposto soprattutto nei casi in cui si tratti di reato minore (si pensi ad un piccolo furto). Queste tesi non sono certo trascurabili ma si pensi a tutti quei casi in cui, dopo un grave delitto (sequestro, rapina, estorsione, usura, ecc.), lo stesso soggetto attivo del reato presupposto agisca per dissimularne i proventi e poi, processato, risponda solo per il reato a monte. In molti casi l’ordinamento permette indirettamente ai malavitosi di godere di un “privilegio” proprio in ragione della non-punibilità del post factum. L’introduzione dell’autoriciclaggio consentirebbe di colmare questa lacuna ed impedirebbe ai delinquenti di poter scegliere per quale reato rispondere. Punendo l’autoriciclaggio non si arriverebbe a violare il citato principio del ne bis in idem sostanziale, dato che si assoggetterebbe a sanzione un mero post fatto della previa condotta illecita. Il reo, per essere anche riciclatore, dovrebbe porre in essere operazioni atte a “lavare” il bene, facendogli perdere la traccia della sua provenienza delittuosa. Tali atti, aventi natura dissimulatoria, non risultano legati, come invece di norma accade per i fatti di ricettazione, da alcun rapporto di implicazione necessaria con il fatto fonte (21) . Una possibile soluzione potrebbe essere quella di prevedere la punibilità dell’autoriciclaggio solo nei casi di reati presupposto gravi. Si potrebbero, cioè, tipizzare i reati presupposto per cui possa rispondersi anche per autoriciclaggio. Ugualmente per i reati tributari potrebbe seguirsi questa strada; d’altronde si è già detto che è lo stesso D.lgs. n. 74/2000 a prevedere soglie minime di evasione sotto le quali non si commette reato fiscale. Non si capisce perché chi evade più di settanta mila euro di tasse non possa rispondere (anche) per riciclaggio. Si pensi poi alle minori difficoltà probatorie cui andrebbe incontro l’accusa, almeno per quel che riguarda la prova dell’elemento soggettivo. In quest’ottica una modifica, ragionata, degli artt. 648-bis e 648-ter del codice penale potrebbe essere molto utile per l’amministrazione della giustizia. È necessario, a parere di chi scrive, abolire la causa di non punibilità per l’autore del reato presupposto, che si sta trasformando sempre più in una sorta di “scriminante”. A livello internazionale questa lacuna fa del nostro ordinamento una sorta di “paradiso legale” per gli autoriciclatori. In ultimo la formulazione dell’autoriciclaggio consentirebbe sia una più agevole contestazione del delitto di riciclaggio agli inquirenti e alla polizia giudiziaria, sia, per quel che maggiormente interessa in questa sede, una più concreta punibilità dei reati fiscali (22) . |
(1) In sostanza, per verificare la sussistenza o meno del concorso di persone, si dovrà riscontrare, sulla base delle concrete circostanze di fatto, l’elemento psicologico che anima i diversi protagonisti, ovvero la coscienza e volontà di commettere il reato principale o quella di compiere azioni tese alla c.d. “ripulitura” di denaro, beni o altre utilità di provenienza delittuosa. Sul punto si veda: “Attività della Guardia di Finanza a tutela del mercato dei capitali”, vol. I, “Prevenzione e contrasto del riciclaggio, del finanziamento del terrorismo e dei traffici transfrontalieri di valuta”, Circolare n. 83607/2012, pp. 90.
(2) Per comprendere l’evoluzione dell’argomento può risultare utile la lettura di un orientamento, da ritenersi ormai superato, secondo cui: “In tema di riciclaggio il reato presupposto può essere costituito soltanto dai delitti che provocano un arricchimento evidente e tangibile nella disponibilità dell’autore. La frode fiscale (di cui all’art. 4 l. 7 agosto 1982 n. 516) non costituisce un presupposto valido per la successiva attività di riciclaggio a causa dell’impossibilità concreta di individuare la natura e la consistenza dei proventi illeciti. Manca, infatti, la individuazione della “entrata” che provoca arricchimento patrimoniale, causando le condotte di falso fiscale soltanto un risparmio fiscale (nell’ipotesi di frode per evasione) ovvero un potenziale indebito rimborso (nell’ipotesi di frode per rimborso) e non un accrescimento concreto”. Uff. indagini preliminari Trib. di Milano del 19 febbraio 1999, in: “Leggi d’Italia”, banca dati, Milano 2012. (3) Sulla connessione tra reato presupposto e riciclaggio si veda: Cass. pen. Sez. II del 11/02/2009 n. 6561; Cass. pen. Sez. VI sent. del 15/10/2008 n. 495; Cass. pen. Sez. V sent. del 21/05/2008 n. 36940; Cass. pen. Sez. II sent. del 5/4/2006 n. 14005 in: “Leggi d’Italia”, banca dati, Milano 2012. Da ultimo R. Razzante, “Il riciclaggio nella giurisprudenza” Normativa e prassi applicative, Milano, 2011. (4) La Direttiva 2005/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 ottobre 2005 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo prevede che: “il riciclaggio è considerato tale anche se le attività che hanno generato i beni da riciclare si sono svolte nel territorio di un altro Stato membro o di un paese terzo”. (5) Per una dettagliata analisi del rapporto tra reato presupposto e reato accessorio si veda: S. Faiella “Riciclaggio e crimine organizzato transnazionale”, ‘Teoria e pratica del diritto’, Milano 2009, pp. 72-92. (6) La Giurisprudenza della Suprema Corte ha chiarito che: “Reato presupposto del riciclaggio può essere qualunque delitto non colposo ivi compresa l’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 – bis c.p. potendo questa conseguire proventi illeciti senza necessità della commissione di reati fine; l’associazione sussiste infatti anche quando il suo scopo sia quello di trarre vantaggi o profitti da attività di per sé lecite, come la gestione di attività economiche purché il risultato sia perseguito con metodo mafioso, in particolare avvalendosi della forza di intimidazione dell’associazione. Costituisce riciclaggio qualunque condotta tesa a ripulire il denaro sporco facendo perdere le tracce della sua provenienza delittuosa”. Cass. pen. Sez. I del 27/11/2008 n. 1025, in “Leggi d’Italia” ,banca dati, Milano 2011. (7) Si veda: G. Zanchetti, “Il Riciclaggio di denaro proveniente da reato”, Milano 1997. (8) Decalogo-ter “Istruzioni operative per l’individuazione di operazioni sospette” aggiornato il 24 agosto 2010. (9) L. D. Cerqua: “I soggetti attivi e l’oggetto materiale del delitto di riciclaggio”, in “Diritto e Pratica delle società”, n. 4/2009 pp. 37 ss.. (10) Le fattispecie di reato tributario previste dal D.lgs. 74/2000 risultano ad oggi essere le seguenti: Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, commi 1, 2 e 3); Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3); Dichiarazione infedele (art. 4); Dichiarazione omessa (art. 5); Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8); Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10); Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis); Omesso versamento di Iva (art. 10-ter); Indebita compensazione (art. 10-quater); Frode in riscossione (art. 11, comma 1); Frode in transazione fiscale (art. 11, comma 2). (11) “In riferimento alla responsabilità del professionista per i reati tributari posti in essere in concorso con i propri clienti, è ben possibile il concorso nell’art. 8 del D.lgs. 74/2000, che sanziona la condotta di emissione di fatture per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione, ed è ben possibile che il concorso nella fattispecie possa essere ascritto al consulente-professionista in base all’art. 110 c.p., con il ruolo di istigatore non ostandovi né il disposto di cui all’art. 9 del medesimo D.lgs. né l’eventualità che non venga realizzato l’obiettivo di evasione fiscale avuto di mira e quindi che non si sia verificato alcun danno erariale”. Questo è quanto affermato dalla terza sezione penale della Corte di Cassazione con sentenza del 12/04/2012 n. 13982. (12) Si tratta di dolo generico, che consiste – ricordiamo – nella coscienza e volontà dell’agente di porre in essere la condotta prevista dalla norma incriminatrice con la consapevolezza della provenienza da delitto doloso, anche mediata, del denaro, del bene o dell’altra utilità. In tal senso Cass. pen. sez. IV del 15/02/2007, n. 6350. La scienza dell’agente potrà essere desunta da qualsiasi elemento e sussiste quando gli indizi in proposito siano così gravi ed univoci da autorizzare la logica conclusione della certezza che i beni ricevuti siano di derivazione delittuosa specifica, anche mediata. Si veda Cass. pen. sez. VI del 25/08/1995, n. 9090. (13) Per una attenta definizione delle varie forme del dolo si rimanda, per tutte, a Cass. pen. sez. I del 29/03/1996 n. 3277. La volontà dolosa, a seconda dei vari livelli di intensità dai quali può essere caratterizzata, può dar luogo alla configurabilità del dolo intenzionale (allorché si persegue l’evento come scopo finale della condotta o come mezzo necessario per ottenere un ulteriore risultato); del dolo generico (allorché l’evento non costituisce l’obiettivo della condotta, ma l’agente lo prevede e lo accetta come risultato certo o altamente probabile di quella condotta); del dolo eventuale (connotato dall’accettazione del rischio di verificazione dell’evento visto, nella rappresentazione psichica dell’agente, come una delle possibili conseguenze della condotta). Sul punto si veda: R. Razzante “Il rischio di riciclaggio come rischio operativo”, in La Responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, n. 2 – aprile-giugno 2011, Torino, pp. 174-175. (14) Attualmente affinché si realizzi il delitto di riciclaggio, è necessaria la commissione di un reato presupposto, costituito da qualsiasi delitto non colposo, ivi compresi quelli tributari, societari e finanziari. Nello specifico la Cassazione ha affermato che: “il delitto di riciclaggio può presupporre come reato principale non solo delitti funzionalmente orientati alla creazione di capitali illeciti quali la corruzione, la concussione, i reati societari, i reati fallimentari, ma anche delitti che…vi erano estranei, come ad esempio i delitti fiscali e qualsiasi altro”. La Suprema Corte ha affermato in particolare che: “il riciclaggio esiste anche se non vengono identificati fattualmente tutti gli elementi costitutivi del reato presupposto, come ad esempio la data di commissione, potendo all’uopo sopperire le prove logiche e che non è neppure necessario che il reato presupposto sia stato accertato giudizialmente, è infatti corretto, anche sotto tale profilo, il rilievo del PM ricorrente per cui, essendo diretto il riciclaggio ad eliminare la traccia delle operazioni illecite di provenienza, soltanto l’esame degli elementi indiziari offerti dall’accusa avrebbe potuto consentire di ricostruire la traccia della provenienza, anche mediata, del denaro da attività delittuosa…“. Cass. pen. sez. I del 13/01/2009, n. 1025. (15) Nei casi in cui l’evasione assume veste di reato, essa concretizza, quale “reato presupposto”, un elemento costitutivo dell’ulteriore delitto di riciclaggio. Ma anche quando le infrazioni fiscali non assumono rilevanza penale, entrambe le violazioni presentano notevoli affinità sul piano delle modalità operative e degli strumenti ai quali riciclatori ed evasori ricorrono per occultare, trasferire, consumare o, all’occorrenza, reimpiegare nell’economia legale o anche in modo ulteriormente delittuoso le disponibilità illecitamente accumulate. Così G. Castaldi: “Gli obblighi antiriciclaggio e il contrasto dell’evasione fiscale”, intervento del 9/3/2012 su www.bancaditalia.it. (16) Nelle grandi società è complesso il meccanismo con il quale l’eventuale provento da frode fiscale viene “celato”. Chi architetta la frode spesso non è colui che ricicla. Si pensi all’imprenditore che versa il denaro (frutto di illecito tributario) su di un conto extracontabile intestato a “persona di fiducia” (ad es. moglie o figlio studente); quest’ultima potrebbe rispondere di riciclaggio da evasione fiscale. (17) Al dolo diretto è equiparato il dolo eventuale per cui se all’agente, pur non sapendolo direttamente, si è prospettata la possibilità che il denaro, i beni o le utilità da riciclare provengano da delitto doloso e, nonostante ciò, ha ugualmente compiuto il fatto materiale, così accettando il rischio di incorrere nelle sanzioni previste dall’art. 648-bis c.p., risponderà senz’altro di tale delitto a titolo di dolo eventuale. Cass. pen. sez. II del 23/07/2007 n. 29912. (18) In tema di dolo è significativa la pronuncia della Cassazione penale Sez. II del 15 luglio 2009, con la sentenza n. 28933, in cui si afferma che: “È giurisprudenza consolidata di questa Corte che, ai fini della configurabilità del reato di ricettazione o di riciclaggio, la prova dell’elemento soggettivo del reato può essere desunta anche dall’omessa, o non attendibile, indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede”. (19) Con una espressione non proprio penalistica potremmo dire che il delitto di riciclaggio richiede un “doppio” elemento soggettivo. Da una parte vi deve essere la consapevolezza della provenienza illecita del denaro o dei beni e dall’altra vi deve essere la volontà di dissimulare i proventi del reato presupposto. Dal punto di vista sanzionatorio, dunque, l’assenza di dolo (generico) o, processualmente, la mancata dimostrazione circa la volontarietà dell’azione, comportano l’insussistenza del fatto delittuoso. Sul punto: R. Razzante, “Il rischio di riciclaggio come rischio operativo” in op. cit.,p. 175. (20) Tradizionalmente l’incipit “fuori dei casi di concorso nel reato” che compare nell’art. 648-bis c.p., era giustificato con l’esigenza di non punire un post fatto che si veniva a configurare come sbocco naturale e tipico dell’attività delittuosa. Il riciclaggio ha infatti perso completamente il suo carattere di accessorietà rispetto al reato principale, che può essere anche un reato bagatellare, come tale punito (come spesso avviene) molto meno gravemente rispetto al reato di riciclaggio. Si veda a riguardo: R. Razzante “Il riciclaggio nella giurisprudenza”, Normativa e prassi applicative, Milano, 2011, pp. 91 a 93. (21) Inoltre, stante la natura prettamente meta-individuale degli interessi protetti dalla norma sul riciclaggio, bisogna affermare come la non punibilità dell’autoriciclaggio comporti che tali beni giuridici restino privi di tutela di fronte a fatti lesivi. La Convenzione di Strasburgo lascia libere le parti contraenti di prevedere che il reato di riciclaggio non si applichi alle persone che hanno commesso il reato principale. Quanto ai singoli ordinamenti, mentre molti Paesi di civil law si inseriscono nello stesso solco seguito dall’Italia, tant’è che l’autoriciclaggio non viene punito in Paesi come l’Austria, Germania, Danimarca, Francia, pacificamente si punisce l’autoriciclatore in tutti i Paesi di common law. La scelta di politica criminale risulta però essere oramai anacronistica, poiché legata ad una costruzione della fattispecie di riciclaggio oggi non più vigente, ma soprattutto mina la forza general preventiva della norma in esame. Si veda R. Razzante, ult. op. cit., p. 93. (22) Ciò a motivo del fatto che questi ultimi (o meglio i loro profitti) sono utilizzati dagli stessi soggetti attivi dei medesimi, per cui la clausola di “autoriciclaggio” permetterebbe, ancorchè indirettamente e con tutte le cautele del caso, di contestare (e contrastare) più efficacemente i reati de quibus. In tal senso chi scrive ha prodotto, in data 22 febbraio 2011, un apposito documento depositato presso la Commissione Parlamentare Antimafia con una possibile formulazione normativa che così reciterebbe: Art. 648-bis:”Chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, ovvero, fuori dei casi previsti dall’articolo 648, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti dai medesimi delitti è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da 2.000 a euro 20.000. La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. Nei confronti della persona che ha commesso ovvero che ha concorso nel reato presupposto si applica la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 10.000 a euro 100.000. La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale. Si applica l’ultimo comma dell’art. 648. L’art. 648-ter è abrogato”. |