GNOSIS 1/2012
ATTUALITA' OSSERVATORIO MEDITERRANEO L'incognita siriana |
Matteo PIZZIGALLO |
Dopo la Tunisia, il Marocco e l’Egitto, seguendo sempre i nuovi cartelli indicatori piantati all’indomani della “primavera araba”, il nostro viaggio fa tappa in Siria laddove, però, a differenza dei suindicati Paesi, la crisi, a causa di una serie di “incognite” politico-internazionali, rischia di aggravarsi pericolosamente. Ma, procediamo con ordine. Innanzitutto va ricordato che al tempo della guerra fredda la Siria, sia pure con modalità ed intensità diverse, è stato il più fedele e leale alleato dell’Urss nell’Oriente Mediterraneo, uno scacchiere fortemente destabilizzato anche a causa del pressoché permanente contrasto arabo-israeliano. In cambio dell’utilizzo dei preziosi porti siriani da parte della Quinta Squadra navale sovietica, stabilmente dislocata nel Mediterraneo, l’Urss inviò consistenti forniture militari e, soprattutto, missili, aerei e blindati. L’8 ottobre 1980 veniva firmato a Mosca il Trattato di amicizia e cooperazione, che garantiva al presidente Hafez Assad (al potere in Siria dal 1970) un costante flusso di aiuti finanziari, di armamenti d’avanguardia e l’assistenza tecnica di numerosi consiglieri militari. Circa dieci anni dopo, la precipitosa successione di eventi seguita alla caduta del Muro di Berlino, accelerò i processi di ricollocazione in atto nei vari Paesi ex alleati dei sovietici e, ovviamente, sospinse anche il Governo di Damasco verso posizioni meno intransigenti, all’epoca molto apprezzate da alcuni Governi occidentali che, in una qualche misura, cominciarono gradatamente a ridimensionare sospetti e accuse di contiguità con la galassia del terrorismo arabo a lungo attribuiti ai Servizi segreti siriani. In occasione della prima guerra del Golfo per la liberazione del Kuwait, la Siria perfezionò il suo percorso di “riabilitazione” internazionale entrando nella coalizione anti-irakena a guida americana. Così, dopo anni di isolamento, con la partecipazione alle operazioni militari della coalizione, la Siria recuperava una posizione centrale nei nuovi assetti del Medio Oriente e, al tempo stesso, poteva allungare la sua minacciosa influenza sul Libano perennemente in bilico fra le varie fazioni in lotta. Il 22 maggio 1991 a Damasco, sotto lo sguardo compiaciuto delle diplomazie occidentali favorevoli alla pax siriana nel Libano, veniva firmato il Trattato di fratellanza e cooperazione fra Siria e Libano che, tra l’altro, stabilendo uno stretto “coordinamento” nel settore della sicurezza militare, di fatto legittimava quella stabile presenza di truppe siriane, in particolare a Beirut e nella valle della Bekaa protrattasi addirittura fino al 2005. Intanto in Siria, dopo la morte del presidente Hafez Assad, tutto il potere passava, il 17 luglio 2000, nelle mani del figlio Bashar Assad che, all’epoca, aveva 34 anni. Bashar, che in politica interna aveva annunciato l’avvio di un programma di riforme, lasciando intravedere una qualche attenuazione (purtroppo durata ben poco) delle dure pratiche repressive e discriminatorie del regime nei confronti delle opposizioni; in politica estera, per compiacere i Paesi europei, si mostrò subito favorevole ad un graduale ripiegamento delle truppe siriane in Libano, di fatto parzialmente avviato nel giugno 2001. Tre mesi dopo, però, l’attacco del terrorismo islamico alle Twin Towers di New York e le successive invasioni americane dell’Afghanistan (2001) e dell’Iraq (2003) sconvolsero nel profondo tutto il sistema internazionale, mettendo a durissima prova i rapporti dei Paesi Occidentali, Stati Uniti in testa, con i vari Paesi arabi creando, altresì, ulteriori divisioni e polemiche tra gli stessi Alleati europei. Al tempo stesso erano ripresi sia gli attentati in Cisgiordania (cui seguivano le intermittenti occupazioni israeliane), sia gli attacchi dei miliziani sciiti filo iraniani di Hezbollah, al confine libanese contro i villaggi israeliani. In questo quadro, Iran e Siria vennero messe in cima della lista degli Stati “canaglia” accusati dagli Stati Uniti di sostenere direttamente o indirettamente organizzazioni terroristiche, di fiancheggiare gruppi combattenti palestinesi, nonché milizie armate operanti nel Libano meridionale. L’11 maggio 2004 il presidente americano Bush firmava il Syrian Accountability and Lebanese Sovereignity Restoration Act che predisponeva, ancora una volta, un ulteriore programma di sanzioni economiche e diplomatiche contro il regime di Damasco. Sempre per iniziativa degli Stati Uniti e della Francia, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite veniva approvata la Risoluzione n. 1559 del 2 settembre 2004, che ordinava il ritiro totale delle truppe siriane dal Libano. Intanto, il 14 febbraio 2005, veniva assassinato a Beirut l’ex premier libanese Rafiq Hariri (punto di riferimento dell’ampio fronte politico anti-siriano) e, da più parti, si addossò subito la colpa ai Servizi segreti di Damasco. L’Unione Europea condannò aspramente l’attentato e appoggiò la richiesta di istituire una Commissione d’inchiesta internazionale. Ancora una volta, nell’aprile 2005, la Siria si ritrovò inserita tra i Paesi problematici. Portò, comunque, a termine l’evacuazione delle proprie truppe dal Libano anche se, attraverso i suoi stretti legami con i miliziani di Hezbollah (molto attivi nei confronti di Israele), continuava ancora ad esercitare una certa influenza nella turbolenta regione. Nei mesi seguenti la crisi dell’estate del 2006 nel Libano meridionale, seguita dai duri scontri fra Hezbollah ed esercito israeliano, bloccati solo con l’invio della missione di pace Unifil II (a tutt’oggi operativa); poi, alla fine di dicembre 2008, l’attacco israeliano alla Striscia di Gaza (nel quadro dell’Operazione piombo fuso) fecero salire di nuovo la tensione in tutto l’Oriente Mediterraneo, creando ulteriori problemi in un’area già fortemente destabilizzata dalla perdurante occupazione militare americana dell’Iraq. Nel tentativo di ‘limitare i danni’ della crisi e di rilanciare il processo di pace in Medio Oriente, i Paesi occidentali, non senza qualche imbarazzo, ‘riaprirono’ alla Siria cercando di riattivare i canali di dialogo e di comunicazione. E così la Siria, di cui erano ben note anche in Occidente sia le spietate politiche repressive contro gli oppositori interni del regime (ma di cui poco si parlava) sia le sue intense relazioni con l’Iran (da molti considerato come una sorta di Stato professionista della destabilizzazione), nel corso del 2010, per esigenze di realpolitik, tornò ad essere, dopo anni di rapporti intermittenti, un interlocutore delle diplomazie europee, anche se le nuove fasi di dialogo furono come quelle più volte praticate in passato, caratterizzate dalle solite reciproche diffidenze. Eppure, all’improvviso, nonostante l’occhiuta sorveglianza dei Servizi di sicurezza, il vento della primavera araba cominciò a soffiare anche in Siria, mettendo a dura prova il mito della solidità del regime. Ben presto, nei primi mesi del 2011, le proteste di massa si diffusero da Homs a Damasco, da Latakia ad Aleppo. A differenza di Tunisia, Egitto e Libia, ove, sia pure modalità diverse e con l’impegno e il sacrificio di migliaia di giovani protagonisti, la “primavera araba” aveva provocato la caduta dei despoti e il repentino collasso dei loro regimi, in Siria, invece, la situazione era ben diversa e si presentava come un’equazione a troppe incognite. Innanzitutto, da un punto di vista religioso: in Siria, circa il 10% della popolazione è di religione cristiana (sia cattolici che ortodossi), mentre il 75% di religione musulmana di osservanza sunnita; la rimanente quota minoritaria è sì di religione musulmana, ma di osservanza alawita, una sorta di ramo siriano della più grande confessione religiosa sciita, ben radicata prevalentemente in Iran. Di osservanza alawita sono tutti i componenti della famiglia presidenziale Assad, nonché tutte le cariche di ogni ordine e grado del regime, della pubblica amministrazione, delle Forze armate, della polizia e dei Servizi segreti. Ma soprattutto, di osservanza alawita sono larga parte dei militari delle ben addestrate unità di élite dell’esercito. In questo quadro, le notizie della “primavera araba” tunisina ed egiziana, diffuse attraverso la rete di blogger e attivisti, sono state subito accolte dalla straganza maggioranza della popolazione siriana di osservanza sunnita (per lungo tempo discriminata dalla vita politica) come la tanto attesa occasione liberatoria per protestare contro l’oppressivo regime degli Assad. La risposta del regime fu immediata. Alla stessa stregua di quanto era accaduto nel massacro di Hama (del febbraio 1982, quando le truppe dell’allora presidente Hafez Assad, padre di Bashar, soffocarono nel sangue di oltre ventimila morti la rivolta organizzata dai movimenti sunniti), anche nei confronti delle grandi manifestazioni popolari di protesta della primavera siriana, la repressione, fu ovunque violenta, feroce e spietata, lasciando sul campo, (secondo le accorate denunce delle varie organizzazioni umanitarie internazionali) migliaia e migliaia di vittime civili provocando, inoltre, un gran numero di profughi riversatisi in Turchia e Libano. Questa guerra asimmetrica tutt’oggi in corso fra il regime siriano e una parte consistente del suo popolo, ha riempito i notiziari televisivi e le pagine dei giornali di tutto il mondo, creando indignazione e sconcerto nell’opinione pubblica e nella comunità internazionale. A differenza di quanto è avvenuto nel caso della Libia (laddove è stato possibile attuare un intervento militare legittimato dall’Onu), nel caso della Siria, tutte le varie proposte di eventuali iniziative multilaterali messe in campo dalla comunità internazionale, si sono infrante sul veto assoluto posto da Russia e Cina a qualsiasi azione militare esterna comunque concepita, bloccando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E così, la già difficile equazione siriana veniva complicata dall’incognita russa. Infatti, ben consapevole della cruciale posizione geostrategica del suo Paese, il presidente siriano Bashar, pur al tempo delle più recenti ‘prove’di dialogo con i Paesi europei e con la Turchia, non aveva mai smesso di coltivare buoni rapporti, non solo con l’irrequieto vicino regime sciita iraniano ma anche, e soprattutto, con la Russia. Nella prima metà del febbraio 2012 nel porto di Tartus (importante base sovietica nel Mediterraneo al tempo della guerra fredda) sono giunte in visita di “solidarietà” due navi militari iraniane, mentre continuavano ad incrociare nelle stesse acque, o erano alla fonda nello stesso porto, ben più grosse navi militari russe, fra le quali anche la portaerei Admiral Kuznetsov e l’incrociatore lanciamissili Moskva. Il ritorno di una sia pur limitata presenza navale russa in Mediterraneo, è bene ricordarlo, non passa solo attraverso la piena disponibilità della base “amica” di Tartus, ma anche attraverso le forniture militari al Governo di Damasco: come, ad esempio, del sistema mobile di difesa costiera Bastion, nonché di batterie missilistiche terra-aria e di molto altro ancora. Intorno alla crisi siriana, dunque, ruotano interessi geopolitici di particolare rilevanza, anche se non sempre esplicitati con chiarezza, che influenzano il ruolo e l’atteggiamento dei vari Attori statuali e non statuali coinvolti. L’ostinazione russa nel continuare a difendere quel che resta dell’indifendibile regime siriano da possibili aggressioni militari straniere, sia legittimate dal Consiglio di Sicurezza sia, eventualmente, pianificate in maniera unilaterale dagli Amici della Siria (il gruppo di contatto voluto da Stati Uniti, Unione Europea, Turchia e Lega araba) si spiega con la preoccupazione, fortemente avvertita a Mosca, per gli effetti destabilizzanti che un crollo non assistito del regime di Damasco provocherebbe in tutta l’area mediorientale. Un’area nella quale, nel medio periodo: si indebolirebbe moltissimo la posizione geopolitica dell’Iran sciita; si estenderebbe troppo l’influenza della Turchia e delle Petrolmonarchie sunnite del Golfo (fedeli alleati degli Stati Uniti) e, soprattutto, tramonterebbe qualsiasi ambizione mediterranea della Russia. Per converso, gli Amici della Siria riuniti a Istanbul domenica 1 aprile 2012, con fermezza, hanno ribadito la necessità di aumentare la pressione sull’Onu e di accelerare in tutti i modi la caduta di Assad. Infatti, i delegati di oltre 80 Paesi hanno riconosciuto ed accreditato il Consiglio Nazionale Siriano come unico legittimo rappresentante del fronte delle opposizioni impegnandosi, altresì, a sostenere concretamente e con maggiore efficacia la resistenza antiregime. A Istanbul, dopo il severo ammonimento rivolto dal segretario di Stato americano Hillary Clinton ad Assad affinché ponga subito termine alle violenze, il premier turco Recep Erdogan, in chiusura della Conferenza, ha aggiunto: “Se l’Onu non si assume le sue responsabilità, la comunità internazionale non avrà altra scelta che accettare il diritto dei siriani all’autodifesa. I nostri fratelli e sorelle devono sapere che non sono soli e non saranno abbandonati al loro destino”. Parallelamente alle varie iniziative internazionali di monitoraggio della crisi, prosegue la paziente opera di mediazione portata avanti, non senza qualche difficoltà, da Kofi Annan designato inviato speciale congiunto di Onu e Lega Araba. Dopo un ampio giro di consultazioni condotte personalmente nelle capitali di tutti i Paesi direttamente o indirettamente coinvolti nella crisi siriana o comunque interessati alla sua soluzione, Kofi Annan ha concepito un piano in 6 punti in cui, fra l’altro, si stabilisce l’impegno: a fermare tutte le violenze e a implementare un cessate-il-fuoco sotto la supervisione dell’Onu per proteggere i civili e stabilizzare il Paese; a garantire la fornitura di assistenza umanitaria in tutte le zone colpite dalla violenza; a intensificare il ritmo del rilascio delle persone arrestate arbitrariamente; a garantire la libertà di movimento nel Paese per i giornalisti; a rispettare la libertà di associazione e il diritto a manifestare pacificamente. Il piano di Kofi Annan, cui sarebbe in sostanza favorevole il gruppo degli Amici della Siria, a condizione che trovi rapidamente concreta attuazione entro una predefinita e non procrastinabile cornice temporale certa, sarebbe altresì accettato anche dai Governi di Damasco, di Mosca e di Pechino, perché, in una qualche misura, forse potrebbe essere ancora prevedibile per Bashar Assad (anche se appare molto difficile) un possibile ruolo di interlocutore nella fase di transizione. Intorno al piano Annan, nei primi giorni di aprile (in un clima instabile in cui si alternavano scetticismo, sospetti, ma anche caute speranze) sono proseguiti pressoché ininterrottamente incontri e consultazioni ai massimi livelli fra i rappresentanti di tutti i Governi a vario titolo coinvolti nella crisi. Non sono altresì mancanti negli stessi giorni, pericolosi momenti di tensione sul confine fra Siria e Turchia ove si trovano i campi profughi. Infine all'alba del 12 aprile è finalmente entrato in vigore il cessate-il-fuoco, fra le Forze armate del regime di Damasco e i ribelli siriani, previsto al primo punto del piano di Kofi Annan, inviato speciale congiunto di Onu e Lega araba. Dal nostro canto auspichiamo che questa fragile tregua possa reggere, che si fermino le stragi e si garantisca subito assistenza umanitaria alla stremata popolazione civile. Per approfondimenti l'autore suggerisce...
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