GNOSIS 3/2011
LA CULTURA RECENSIONI L'oro nazista: una caccia infinita |
Alain CHARBONNIER |
Che il denaro sia il “nervo della guerra” era già noto a Cicerone, anche se, quindici secoli dopo, la massima veniva confutata da Niccolò Machiavelli. Certo è che le risorse economiche sono una delle componenti del complesso sistema che alimenta la macchina bellica di un paese in guerra. Lo sapeva bene il regime nazista e lo sapeva bene il vertice della Reichsbank. Per sostenere la guerra tedesca era indispensabile disporre di imponenti risorse per pagare le forniture che arrivavano da paesi neutrali come, per esempio, il ferro svedese. C’era un solo sistema: depredare i paesi occupati, a cominciare dalle riserve auree. Un bottino immenso che non risparmiò praticamente nessuno degli Stati sotto il pieno dominio nazista. Una spoliazione a doppia valenza: una parte, diciamo così, “ufficiale”, contabilizzata, di competenza della Reichsbank e, quindi, dello Stato, un’altra parte appannaggio delle SS, frutto delle ruberie a danno, soprattutto, degli ebrei e di quanti finivano nei lager. Ma anche in questo caso esisteva una contabilità che dava conto quasi di ogni grammo d’oro, dai lingotti alle monete, dai monili alle protesi dentarie. Un tesoro che ha lasciato ampie tracce, tutte in gran parte ripercorse alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con un’appendice: i predoni furono a loro volta depredati. Vale a dire una parte di quanto prelevato dai tedeschi, trasferito in diversi nascondigli prima del crollo finale, fu a sua volta depredata dagli Alleati. Al tesoro dei nazisti è strettamente connessa la vicenda dell’oro della Banca d’Italia, trasferito prima a Milano e poi a Fortezza e, in parte, nel caveau della Reichsbank. Ma anche l’Italia aveva fatto la sua parte, appropriandosi delle riserve auree jugoslave. Furono trasportate in Italia sotto il naso dei tedeschi, nascoste a bordo di un finto treno ospedale. Il libro di Antonio Cicchino e Roberto Olivo, “Caccia all’oro nazista – Dai lingotti della Banca d’Italia ai beni degli ebrei: indagine sui tesori scomparsi”, p. 328, Mursia, Milano, ripercorre le straordinarie vicende di tonnellate d’oro in viaggio per mezza Europa, alcune tornate ai legittimi proprietari, altre diventate proprietà privata di abili banchieri, di nazisti scampati alla giustizia, di veri e propri banditi. Scrivono gli autori a pagina 274: “Ma una volta terminate le ostilità, anche le ‘forze del Bene’, liberatrici dalle tirannie totalitarie e dispensatrici di democrazia, si rivelarono uomini in carne, ossa e avidità, come tutti, dandosi a saccheggi, stupri, omicidi, corruzione, malversazioni, estorsioni, manipolazioni finanziarie, espropriazioni illecite ad alti livelli, contrabbando, traffico di droga, mercato nero”. Nel 1957 il Guinness dei Primati, sotto la voce “Furto: la più grande rapina mai risolta” scriveva: “La più grande rapina che si conosca è quella delle riserve auree dello Stato tedesco, effettuata in Baviera nel giugno del 1945 da un gruppo di soldati americani insieme a dei civili tedeschi. Durante un trasporto sparirono 750 lingotti d’oro del valore di 3.528.000 dollari, insieme a sei sacchi di banconote e 25 cassette di lingotti di platino e di pietre preziose. Nessuno dei responsabili è mai stato arrestato”. I tesori nascosti dai nazisti fecero nascere numerose leggende, anche perché corrisponde a verità che nelle ultime settimane di guerra circolavano in Europa partite d’oro con storie diverse: dai beni saccheggiati alle comunità ebraiche, all’oro sottratto alla Banca d’Italia nell’ottobre del 1943. È così che ogni tanto salta fuori la notizia di rinnovate cacce al tesoro, nonostante siano trascorsi quasi settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Eppure gli strascichi e, soprattutto, i misteri di tante vicende di quell’immane conflitto continuano a tenere banco. La scomparsa di ingenti ricchezze appartenute al Terzo Reich e in parte al regime fascista è uno degli argomenti capaci di mobilitare legioni di ricercatori più o meno titolati, lanciati per terra e per mare alla ricerca dei tesori nascosti. Enzo Antonio Cicchino e Roberto Olivo, giornalisti e ricercatori storici, con certosina pazienza, hanno messo insieme una vera e propria mappa delle ricchezze predate durante la guerra. “Caccia all’oro nazista” si apre con la vicenda del tesoro della Banca d’Italia, 120 tonnellate d’oro, tra cui otto provenienti dalla Banca nazionale jugoslava e finite, nel 1941, nei forzieri italiani come preda bellica, più 14 tonnellate e mezzo trasferite all’Italia dal Governo francese di Vichy e altri 373 chili provenienti dalle razzie in Grecia. Una montagna d’oro che dopo l’8 Settembre finì per una parte a Fortezza, in Alto Adige, un’altra in Germania, una terza nelle banche svizzere. A guerra finita, l’oro tornò nei forzieri italiani. Ma ancora oggi si favoleggia di 79 casse interrate nei cunicoli del Monte Soratte. Cicchino e Olivo raccontano le imprese delle squadre del “Gold Rush”, esperti che dal febbraio del 1945, sotto il controllo dei Servizi segreti, dovevano individuare i nascondigli di tutti i beni della Reichsbank e delle SS. Dopo il bombardamento del 3 febbraio 1945, le stanze blindate della Reichsbank non furono più considerate sicure per proteggere i tesori del Reich che furono così smistati in varie direzioni. Furono gli uomini del “Gold Rush” a scovare nelle miniere di potassio di Kaiseroda, a mezzo miglio di profondità, tonnellate d’oro in lingotti, un milione di franchi svizzeri, un miliardo di franchi francesi, 711 sacchi contenenti ciascuno 25 mila dollari. Oltre a valigie gonfie di oggetti d’oro e d’argento, sacchi di denti e protesi dentarie d’oro, gioielli di ogni genere. In un’altra galleria della miniera erano ammassate 400 tonnellate di quadri e altre opere d’arte firmate da Rembrandt, Tiziano, Van Dyck, Raffaello, Dürer, Renoir. Fra i “tesori” scomparsi, anche se meno ingente di quelli nazisti, va ricompreso anche “l’oro di Dongo”. Si trattava di diversi milioni in oro, beni e valuta, che Mussolini aveva con sé al momento della cattura. Gli autori ricostruiscono l’intera vicenda della grande ruberia che s’intreccia con la tragica fine di “Gianna” e “Neri”, i due amanti partigiani uccisi dai loro compagni. Nel libro non mancano riferimenti a personaggi noti, come Licio Gelli, e ignoti, se non agli addetti ai lavori, come Herbert Herzog, sopravvissuto al campo di sterminio di Buchenwald, diventato una specie d’investigatore sulle tracce dell’oro trafugato dai tedeschi in tutta Europa. Il tema trattato si rivela impegnativo, anche se il ritmo narrativo è ben dosato e capace di catturare il lettore. A parte la ricostruzione minuziosa della contabilità aurea, per tonnellate, chili e grammi, così come risulta dai meticolosi documenti dei banchieri, Cicchino e Olivo scrivono di vicende che hanno contribuito ad accrescere l’interesse sui misteri dell’oro nazista. Così ripercorrono il processo a Vincenzo Azzolini, Governatore della Banca d’Italia durante il ventennio fascista, condannato a trent’anni di carcere dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, presieduto da Carlo Sforza. Una condanna draconiana quanto inutile, perché nel 1946 Azzolini fu assolto per intervenuta amnistia e perché “il fatto non costituisce reato”. Non si è poi saputo e non si saprà mai quanti lingotti d’oro i nazisti riuscirono a ricoverare nelle banche svizzere, con l’assenso dei banchieri e il supporto, persino, della Croce Rossa svizzera, secondo alcuni in relazione con la Reichsbank. Il meccanismo per trasferire oro in paesi neutrali era semplice, scrivono Cicchino e Olivo: “I nazisti vendevano l’oro alle banche elvetiche, ricevendo in cambio franchi svizzeri. Con questa valuta, i tedeschi acquistavano in Portogallo e Spagna prodotti agricoli, tessili e tungsteno, minerale essenziale per la produzione di acciai speciali, destinati all’industria pesante. Le Banche Centrali di Lisbona e di Madrid, a loro volta, usavano i franchi svizzeri per comprare i lingotti che i nazisti avevano venduto agli elvetici, chiudendo il cerchio …”. Gli autori non hanno dimenticato proprio nulla, compresi gli inevitabili riferimenti ad azioni che per la loro geniale elaborazione sono state oggetto di pellicole cinematografiche come la famosa Operazione Cicero e l’incredibile Operazione Bernhard che produsse per la Germania ben 130 milioni di sterline false stampate da maestri ebrei, con lo scopo di rovinare l’economia britannica. Secondo stime approssimative, la Germania trafugò dai paesi europei circa 515 tonnellate d’oro, senza contare quello razziati ai privati. Per indennizzare i paesi vittime delle razzie fu costituito un Pool dell’oro che doveva assegnare le restituzioni, con equanimità e in proporzione ai danni subiti. Ma la Guerra Fredda fece sì che il Pool diventasse improvvisamente strabico e così, se l’Italia e l’Austria ottennero con una certa tempestività le loro quote d’indennizzo, gli Stati finiti sotto l’influenza sovietica dovettero aspettare un bel po’. La Polonia rientrò in possesso di circa 900 chili d’oro soltanto nel 1976, 10 tonnellate furono restituite alla Cecoslovacchia nel ’82. Solo nel 1996 l’Albania ha ricevuto poco più di una tonnellata e mezza d’oro. Erano trascorsi 50 anni dalla costituzione della Commissione Tripartita che nel suo periodo di attività è costata la bellezza di 2 tonnellate e 400 chilogrammi del prezioso metallo. Il 29 giugno 1998 sono stati restituiti all’Italia ancora 764,4 chili d’oro, per un controvalore di 12 miliardi 843 milioni 868,278 lire. Gran parte della somma è stata destinata al Fondo di assistenza delle vittime delle persecuzioni naziste. Il 9 settembre 1998 la Commissione Tripartita è stata sciolta, avendo esaurito il suo compito. Ma la caccia ai tesori nazisti non si è conclusa. Per approfondimenti l'autore suggerisce...
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