GNOSIS 1/2011
La sicurezza in Europa e l'Unità d'Italia Tramonto del legittimismo e concerto delle potenze |
Luigi Vittorio FERRARIS |
Gli avvenimenti che hanno investito la penisola italiana negli anni 1859-1861 possono essere visitati sotto diverse angolature e, nel celebrarli, sarebbe consigliabile evitare di lasciare troppo spazio a polemiche storicamente fuorvianti. Più razionale affidarsi ad analisi che tengano conto del contesto storico-politico europeo entro il quale si colloca l’inattesa Unità di quasi tutta la penisola in un solo Stato, il primo Stato italiano, Unità conseguita nel giro di pochi mesi. Di gran momento le conseguenze sull’equilibrio e sulla sicurezza in Europa, che il nuovo Regno d’Italia alterava irrompendo all’improvviso con i suoi 22 milioni di abitanti sulla scena europea e incidendo sullo stesso diritto internazionale con indirizzi che prolungano la loro influenza sino ad oggi: il sopravvento della legittimità della volontà dei popoli sulla legalità delle norme era un fatto rivoluzionario allora, come è parimenti rivoluzionario oggi ritenere che la salvaguardia e la promozione dei diritti fondamentali o umani debbano prevalere sulla legalità per perseguire la pace e la stabilità nella sicurezza collettiva sino al dovere di proteggere gli individui. La tragedia del periodo rivoluzionario e poi napoleonico, una seconda guerra dei trent’anni, tutto aveva travolto ridisegnando con arbitrio la carta dell’Europa al servizio dell’egemonia francese. Fra guerre, paci e fragili armistizi l’esercizio della forza aveva “esportato” con mezzi impropri il nuovo credo della libertà, che aveva largamente allignato, ma altrettanto il senso dell’identità nazionale contro l’altrui predominio sino a costituire una amalgama fra volontà di riscatto nazionale e germi di ansia liberale (1) . Il Congresso di Vienna nel 1815 aveva dato testimonianza coraggiosa di una saggezza apprezzabile: l’Europa doveva trovare, finalmente, la sua stabilità in una sicurezza da affidare all’equilibrio fra le maggiori potenze, un equilibrio fondato sul legittimismo (2) . In omaggio al diritto pubblico europeo e alla legittimità del potere (3) doveva essere statuito alla stregua delle istruzioni cui si atteneva Talleyrand che “la sovranità non può essere acquistata per il semplice fatto della conquista” e che “nessun titolo di sovranità ha valore per gli altri Stati se non in quanto essi l’abbiano riconosciuto”. La sicurezza degli Stati legalmente ricostituiti doveva essere garantita dall’intesa o “concerto” fra le grandi potenze (Russia, Prussia, Austria e Inghilterra, cui si aggiunse con straordinaria abilità la Francia), un concerto da porre a fondamento della stabilità e della pace a vantaggio dei popoli, indotti ad affidarsi alla solida ancora del legittimismo. Parametri di questa sicurezza generale, l’impegno di intervenire per sostenere ad ogni costo una stabilità rigida (la Santa Alleanza dei congressi di Lubiana e Verona), nonché il proposito di non muoversi guerra, mentre senza remore era aperta la competizione per occupare territori altrui (la Polonia ad esempio) o per acquisire colonie o per lacerare l’Impero Ottomano, a condizione che le grandi potenze rimanessero padrone della gestione dell’equilibrio. Ben presto profonde crepe tolgono vigore a un siffatto sistema di sicurezza che si voleva inflessibile: i semi rivoluzionari o riformatori sparsi a piene mani dalla Rivoluzione Francese e dal dominio napoleonico non potevano essere più soffocati. I popoli non si accontentavano della stabilità della pace riconquistata, ma pretendevano il riconoscimento di nuove libertà e dell’indipendenza nel segno delle individualità nazionali: nulla potevano imperi plurinazionali (austriaco o russo), né la ottusa pertinacia di alcuni sovrani (ad esempio il Re di Spagna o il Re delle Due Sicilie), né le contraddizioni fra i principi tedeschi o la mobilità della Francia fra la Seconda Restaurazione e il re borghese Luigi Filippo. Pertanto la omogeneità del legittimismo si incrinava per non aver saputo comprendere che i sommi principi della rivoluzione francese (e americana) non potevano essere condannati all’oblio. La sovversione riemergeva con frequenza insopprimibile travalicando i confini dei singoli Stati: fra i tanti i movimenti mazziniani con la loro influenza in Italia dal Piemonte sino alle Romagne e alla Lombardia o alla Calabria e persino nei Balcani. Nonostante che la vagheggiata stabilità legittimista fosse minata alla base, la sicurezza dell’equilibrio europeo reggeva alle tensioni. La “rivoluzione” nel 1848 sembrò poter sopraffare il legittimismo proclamando mediante il costituzionalismo valori nazionali e liberali. La rivoluzione fallì, ma non del tutto in Francia con il bonapartismo liberaleggiante e soprattutto non nel Regno di Sardegna, pronto a porsi alla guida degli italiani tutti. La Questione d’Oriente riaccesa dall’inarrestabile declino dell’Impero Ottomano scuote l’equilibrio delle grandi potenze, le quali nella Guerra di Crimea perseguono propri interessi ben lontani dalla pretesa armonia di Vienna. Il Trattato di Parigi del 1856 è il segnale della crisi del sistema dell’equilibrio. Le aspirazioni nazionali possono esprimersi. Ne è indizio l’aver discusso una “questione Italiana” quale atto d’accusa a carico dei regimi illiberali nella penisola: emerge la rilevanza dei diritti fondamentali, che saranno più tardi chiamati diritti umani pretesi a gran voce (4) . Ma come perseguire quelle aspirazioni? Era ineludibile il ricorso ad una guerra contro l’Austria, che solo il Regno di Sardegna poteva condurre – ma non da solo – ponendosi al di fuori dell’equilibrio della sicurezza europea e in contrasto con il diritto pubblico europeo ribadito dal Congresso di Vienna. Dunque una esplicita Realpolitik per il raggiungimento di obbiettivi ben concreti ammantati di idealismo condiviso: il realismo degli interessi doveva prevalere sul rigore del diritto (5) . La guerra franco-sarda-austriaca del 1859 mette a nudo la frattura dell’equilibrio e del legittimismo: dopo quarant’anni in Europa Stati europei si muovono guerra con vigore ben maggiore di tre anni prima sulle rive del Mar Nero. Si perseguono ingrandimenti territoriali per risolvere la questione italiana in nome della libertà contro il servaggio straniero (cioè austriaco): all’inizio cautamente per non lacerare i criteri legittimisti di Vienna (un Regno dell’Italia settentrionale e una confederazione presieduta dal Pontefice Romano), ma poi con un moto accelerato abbandonandoli del tutto. La volontà di conseguire con realismo l’obbiettivo poco si curava delle conseguenze sulla sicurezza in Europa. L’inanellarsi degli eventi sino al marzo 1861 sconvolge totalmente ogni soluzione legittimista e i parametri della sicurezza si trasformano: rimane operante il concerto delle grandi potenze (cinque e dopo poco sei con l’Italia) per regolare gli affari europei, anzi quelli mondiali, ma oramai in ragione degli interessi di ciascuno senza nessun principio di guida ideologica, quale era il legittimismo. Dunque ne scaturisce un nuovo modello di sicurezza rivelatosi provvisorio anch’esso e foriero di immani tragedie dopo appena poco più di trent’anni di pace, una pace più breve di quella che il Congresso di Vienna aveva elargito. Le radici del nuovo modello di sicurezza vanno individuate nella natura degli accadimenti del 1859-1861, i quali trasformano in nome della libertà e della volontà popolare la struttura del sistema internazionale al pari delle sempre flessibili norme del diritto internazionale: I) una guerra contro l’Austria esplicitamente provocata, in virtù di un accordo segreto, con pretesti e approfittando di errori avventati della controparte (6) , da uno Stato – il Regno di Sardegna – che perseguiva un interesse diretto (arricchito da radicate convinzioni ideali, risposta generosa al “grido di dolore” di confratelli oppressi) in alleanza con un altro Stato più potente, la Francia, che credeva di rispondere agli impulsi di una idea nobile – l’aiuto ai “fratelli” italiani – corredata tuttavia da aspettative territoriali (Savoia e Nizza). Una alleanza che si prefiggeva lo scopo di sottrarre con la forza una regione (il Lombardo-Veneto) a uno Stato che quel territorio deteneva in modo del tutto legittimo, consacrato dai Trattati di Vienna del 1815 sottoscritto da entrambi gli Stati che ora volevano impadronirsene. Non si faceva alcun appello per tale azione aggressiva a motivazioni di carattere giuridico (ad esempio rivendicazione di antichi diritti dinastici o di altra natura), né a timori per la propria sicurezza in quanto si ribadiva il richiamo alla liberazione di un popolo oppresso da un regime autocratico, ma certamente Stato di diritto: giustificazioni non compatibili con i principi allora in vigore in Europa, né con lo jus publicum europaeum, né con il diritto delle genti. In sintesi un atto illegale reso legittimo da aggiornate motivazioni ideali; II) nella imminenza del conflitto viene rifiutato ogni ricorso a procedimenti di componimento della controversia sardo-austriaca. La prospettiva di un congresso internazionale per risolvere la questione italiana, proposto da parte britannica, è paventata, poiché il Regno di Sardegna voleva soddisfare le proprie pretese territoriali soltanto mediante la guerra in nome del realismo politico. Un Congresso, a parte le tante difficoltà che vi si frapponevano, non doveva aver luogo poiché il Regno di Sardegna, che ne sarebbe stato il membro più debole, non voleva e non poteva accettare di vedersi ridotto ad un ruolo di second’ordine o/e ammettere che la questione italiana potesse essere delibata dalle grandi potenze senza la partecipazione attiva di chi vi aveva maggiore interesse pur essendo il meno influente, appunto il Piemonte. Quindi la guerra era necessaria per affermare il prestigio, che in questo caso, a dispetto di quanto ne direbbe Hobbes, non era per un “nonnulla”. III) In concomitanza con la guerra si mette in atto una ingerenza palese nei diritti di Stati sovrani, sostenendo e sobillando movimenti insurrezionali, i quali riescono con la forza a spodestare legittimi sovrani (Firenze, Parma, Modena) ovvero a sottrarre territori all’autorità di uno Stato sovrano (le Legazioni a danno dello Stato Pontificio). Tale ingerenza con il sostegno a forze ribelli violava la sovranità degli Stati (7) e confliggeva con il dominio riservato tuttora attributo primario della sovranità (8) . Nella fattispecie l’ingerenza diventava conclamata mediante la nomina, del tutto arbitraria, da parte del Regno di Sardegna, cioè da parte di uno Stato estero, di “commissari” o di “dittatori” per sostituire l’autorità legittima non più operativa e questo accedendo alla richiesta espressa da insorti a un sovrano straniero (il Re Vittorio Emanuele II di Savoia) di assumere pieni poteri in luogo dei precedenti legittimi reggitori e questo nell’interesse della pace e della stabilità (come direbbe lo Statuto dell’ONU!): si osa elevare a “Commissario” il proprio rappresentante diplomatico (Boncompagni a Firenze)! Non si esitava quindi in concomitanza con successi bellici ad “esportare” un sistema di governo – la democrazia o la libertà – facendo leva su movimenti insurrezionali quale presupposta espressione della volontà popolare contro la legittimità dei governi a suo tempo insediati con il consenso della comunità internazionale. IV) Una spedizione in armi intraprende una azione a scopo di sovversione sul territorio di uno Stato legittimo e legale, il Regno delle Due Sicilie. La spedizione (i “Mille” di Garibaldi) salpa senza molte precauzioni di segretezza da un porto sito nel territorio di uno Stato, il quale non la aveva promossa, ma neppure impedita in forza del dovere di uno Stato nei confronti di chiunque intenda attentare all’integrità e alla sovranità di altro Stato con il quale si intrattengano normali rapporti diplomatici: per lo stesso Cavour un “fatto gravissimo” che peraltro “non si poteva né si doveva impedire” (9) . La giustificazione implicita si richiamava a motivazioni ideali o al rispetto di quei diritti umani o di libertà o di trattamento negati ai cittadini dello Stato oggetto dell’atto illecito. Tuttavia, lo Stato connivente è ritenuto colpevole di fomentare movimenti rivoluzionari sino al punto che due potenze (Francia e Inghilterra) sospendono per breve tempo le relazioni diplomatiche. La spedizione ha successo e lo Stato invaso si disgrega per la sua debolezza intrinseca, mentre lo Stato “colpevole” di passività è fermamente intenzionato a procedere rapidamente all’annessione. Ulteriore esempio di “esportazione” di un modello di governo considerato superiore o comunque migliore in quanto si disconosce la legittimità morale dello Stato aggredito e quindi “liberato”. V) Invasione militare da parte di uno Stato (il Regno di Sardegna) del territorio di un altro Stato sovrano (lo Stato pontificio) senza curarsi delle previste forme procedurali (dichiarazione di guerra o “guerra in forma”) adducendo fragili pretesti: prevenire sia la minaccia di corpi armati composti in larga parte di volontari alla frontiera di territori governati provvisoriamente dallo Stato interveniente, sia movimenti rivoluzionari o altri atti di violenza (si ricordino i massacri di civili perpetrati a Perugia) (10) . L’azione militare fu effettuata nella consapevolezza di compiere un atto illecito, legittimato da un presunto stato di necessità e ancora una volta nello schema ideale della volontà popolare. La dichiarazione di Vittorio Emanuele II in Ancona è esplicita e sintomatica nel testimoniare la consapevolezza che solo la storia successiva avrebbe potuto giustificare l’illegalità dell’azione liberatrice: “Qualunque sia la gravità degli eventi, io attendo tranquillo il giudizio dell’Europa civile e quello della storia, perché ho la coscienza di compiere il mio dovere di Re e Italiano! In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità delle monarchie. In Italia so che io chiudo l’era delle rivoluzioni” . VI) Annessione di Stati sovrani o di province appartenenti a Stati sovrani accogliendo la volontà degli abitanti di essere annessi o di attuare secessioni, volontà confermata da plebisciti organizzati dal potere occupante senza alcun controllo esterno o internazionale: una improvvisazione di necessità (11) . Nondimeno i plebisciti attuati a suffragio universale maschile (la prima volta nella storia!) e con la partecipazione alle urne di percentuali altissime risultavano convincenti nell’attestato unanimismo (12) , cui si fa espresso riferimento quale giustificazione dell’annessione. Dunque annessioni unilaterali con una esplicita auto proclamazione di un nuovo Stato, il tutto non a seguito di una decisione collettiva di un gruppo di Stati a conclusione di un conflitto: sino ad allora unici precedenti rilevanti le Province Unite della Dichiarazione di Utrecht del 1579 e la Dichiarazione d’Indipendenza delle Tredici Colonie americane nel 1776. La proclamazione del Regno d’Italia fu dunque un processo rivoluzionario che rispondeva a procedure inusitate sul piano del diritto nonché della politica: “gli eventi avevano superato gli uomini (13) ”. Mentre alcuni atti potevano essere mossi da una non inconsueta e da sempre immanente ragion di Stato (come l’uso preventivo della forza), altri erano innovativi. Interventi pesanti a danno di Stati sovrani, annessioni a seguito di un plebiscito e autoproclamazione di un nuovo regno erano modalità accolte con meraviglia e accettate poi per acquiescenza, dopo aver constatato che i regni e principati italiani liquidati non meritavano di essere difesi: oramai altri principii dovevano prevalere in vista dell’equilibrio e della sicurezza di un ordine internazionale. Gli effetti non tardarono a farsi sentire. Nei brevi nove anni successivi la struttura del Congresso di Vienna e del legittimismo veniva demolita e tutto cambia in Europa: dalla guerra prussiana per i Ducati dello Schleswig-Holstein e dal fallimento di una rivoluzione polacca sino alle guerre austro-prussiana e franco-prussiana con le umiliazioni dell’Austria e della Francia, dalle quali emerge vittorioso e potente un nuovo Stato, il Reich germanico detronizzando senza più remore un altro sovrano, il re di Hannover. Il tutto in nome dell’ormai non più contestabile principio della prevalenza dell’identità nazionale quale fonte di legittimità di ogni azione politica. Con il 1870 cessava anche il potere temporale del Pontefice: un fatto anch’esso assolutamente rivoluzionario nel proclamare la scissione fra lo Stato e la Chiesa, che il Regno di Sardegna aveva già introdotto con molta risolutezza. La questione romana, a lungo gravando sull’Italia, inverava una scelta da perseguire “con la rivoluzione o contro la rivoluzione” (14) . Laddove si inquadrino gli eventi nel loro succedersi nell’ambito dei principi della convivenza internazionale entro un sistema anarchico fondato su Stati sovrani, si deduce che il processo della conseguita Unità della penisola italiana ha sovvertito dalle fondamenta la struttura della sicurezza quale elaborata al Congresso di Vienna introducendo con forza nuovissimi principii destinati ad evolversi, quasi inconsapevolmente, sino a diventare centrali nella storia a cavallo fra il XX e il XXI secolo. Il legittimismo veniva rigettato in toto dall’urgere dello spirito delle nazionalità, della libertà e della organizzazione liberale del potere, mentre nella proiezione verso l’avvenire venivano intaccate anche le norme dello jus publicum europaeum, laddove impone il pacta sunt servanda ed altrettanto il rispetto di regole. Quelle regole, ieri come oggi in ragione della sovranità degli Stati, prescrivono in linea di principio la non ingerenza, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica dei soggetti internazionali, la sovranità degli Stati (15) , e le modalità nella conduzione della guerra. Invece in funzione degli avvenimenti del 1859-1861 viene invocato un diverso principio di legittimità per giustificare l’illegalità dei comportamenti: la volontà delle nazioni e dei popoli a conseguire la propria indipendenza (e quindi il diritto alla secessione e all’insurrezione e molto più tardi per analogia la liberazione dal dominio coloniale) e la propria libertà (e quindi il diritto di rovesciare sovrani e governi che non la concedessero tempestivamente in termini costituzionali o che violassero diritti fondamentali). Siffatte finalità devono prevalere, anche se si traducono in evidenti vantaggi di uno Stato, il quale nell’ingrandirsi territorialmente unilateralmente e mediante l’uso della forza si proclami sovrano in un nuovo Stato da lui stesso inventato perché mai prima esistito. Sono stati in quel tempo invocati principii innovativi oggi eretti a principii universali: la validità dei diritti fondamentali e il diritto all’autodeterminazione. Non può quindi sorprendere che il processo di riconoscimento del nuovo Regno d’Italia non fosse processo agevole. Il quid novum poteva essere accolto soltanto in ragione di scelte politiche. Cominciò l’Inghilterra che vedeva con piacere il sorgere di un nuovo Stato mediterraneo (16) e poi gli Stati Uniti, che non potevano non condividere l’atto unilaterale analogo a quello delle Tredici Colonie. Gli altri seguirono dopo quello di primaria importanza della Francia; ultima la Spagna (17) . La decisione unilaterale doveva essere subìta da tutti e anche da quelli riluttanti ad accettare un nuovo Stato, costituitosi con l’uso della forza senza rispettare le regole del sistema internazionale: non per consenso dei sovrani, ma per volontà di popolo, incidendo sul quadro della sicurezza generale, rendendola a lungo andare instabile. Il periodo di stabilità dopo il 1871 e sino ai prodromi della Prima Guerra Mondiale si rivelò illusorio: il Reich bismarckiano cui arrideva ogni successo nello sviluppo economico-sociale e nella modernità pretendeva di diventare una potenza mondiale; la Francia non poteva accettare la sconfitta del 1870 e non bastava a soddisfarla lo sviluppo oltreoceano; l’Austria privata della Germania non poteva non cercare il suo ingrandimento e la sua influenza nei Balcani. Infine l’Italia, la più giovane – e più debole – grande potenza era oberata dal compito di consolidare la sicurezza interna e di promuovere lo sviluppo omogeneo fra varie parti dello Stato sino alla difficoltà a tradurre in azione di politica estera obbiettivi non sempre ben individuati e comunque non omogenei con quelli delle grandi potenze dell’Europa: l’Italia voleva essere lasciata tranquilla (18) in quanto dubitava di sé stessa e perché non sapeva agire come grande potenza per partecipare alla grande politica. Una diversa struttura di equilibrio e di sicurezza si imponeva. Non era più quello della severa stabilità legittimista della Santa Alleanza, né quello del rapporto bilanciato fra quattro o cinque grandi potenze, unite da fini comuni di conservazione. Occorreva preferire alleanze, le quali non si traducevano in condivisione di obbiettivi (la Triplice Alleanza è un caso esemplare di una alleanza che non trovava identità di finalità di lungo respiro, ma soltanto convenienza di interessi unilaterali). Il modello sicurezza era costretto ad attenersi alla prevalenza degli strumenti militari. Come spiegare altrimenti che il potenziale militare dal 1875 in poi si dilati enormemente in vent’anni per le sei grandi potenze da cinque milioni a 12 milioni di soldati? (19) Ai valori etici della legittimità rivendicati a Vienna per assicurare la pace e il progresso, subentra la fiducia nel progresso senza fine e la validità in assoluto della civilizzazione occidentale considerando l’equilibrio di potenza (ovvero il balance of power) lo strumento di insostituibile efficacia per garantire la stabilità e attraverso la stabilità la pace (20) . Ma non più entro un sistema nella razionalità del Congresso di Vienna, bensì su basi bilaterali o di alleanze ristrette (ad esempio quella del 1859) in modo che nessun singolo Stato potesse minacciare seriamente gli interessi fondamentali di un altro. Prevale nel raffronto fra i potenziali militari la valenza centrale degli Stati nazionali o nazionalistici. Infatti dopo il 1859-1861, e quale effetto di quegli anni, si accentuano i movimenti di rivendicazione nazionale, i quali trovano sostegno più o meno interessato in alcuni casi, mentre in altri vengono repressi con la forza ma non più in omaggio al legittimismo, ma piuttosto per timore di derive rivoluzionarie che oltrepassino i limiti consentiti dai nuovi principii. Pertanto ci si adopera a ricondurre i nazionalismi nell’alveo dei contrapposti interessi per garantire la sicurezza ovvero ci si illude di consolidare la sicurezza con forme giuridiche di arbitrato (le convenzioni dell’Aja). Invano: il sistema internazionale di sicurezza non riesce a trattenere il prorompere degli interessi degli Stati e dei nazionalismi sino alla conseguenze catastrofiche della guerra 1914-1918, quando in Europa si spegne la luce della ragione. La frattura del 1859-1861 aveva inoculato nel sistema internazionale europeo i germi stessi del suo éclatement. Il nuovo concerto delle grandi potenze e il modello di sicurezza dopo il 1871 non potevano reggere a lungo e altri avrebbero dovuto essere i mezzi per la stabilità e la sicurezza e auspicalmente la pace: vale a dire la prospettiva di organizzazioni internazionali non più fondate sull’automatismo ideale della balance of power. Ma questo obbiettivo poteva essere immaginato solo dopo una guerra mondiale! Un ulteriore aspetto non secondario emerge dagli eventi italiani del biennio 1859-1861: il timore di movimenti rivoluzionari, che stende la sua ombra su tutto il periodo annebbiando il fulgore della Belle Epoque. Al Congresso di Parigi del 1856 Cavour non esitava a prospettare i rischi della “rivoluzione” se non si affrontava la “questione italiana”. La costituzione del Regno d’Italia doveva contenere quel pericolo giustificando così il mancato rispetto di talune norme internazionali: occorreva evitare che pulsioni popolari – come i garibaldini – potessero dilagare dall’Italia in movimenti sovversivi diffondendo in Europa uno spirito rivoluzionario. Quindi favorire l’Unità d’Italia per una maggiore sicurezza per tutta l’Europa. Tuttavia anche dopo il 1861 i timori permangono: agitazioni mazziniane e ambigue paventate iniziative di Garibaldi (ogni suo movimento è attentamente spiato) (21) , associazioni anarchiche, sette segrete, assassinii politici. Le situazioni interne vengono monitorate con attenzione perché non incidano negativamente sul nuovo modello di sicurezza. Della sicurezza internazionale diventa funzione la sicurezza interna (uno Stato di diritto che non susciti opposizioni eversive o sovversive) contrastando quelle forze – i movimenti socialisti o sindacalisti o quelli pacifisti – le quali ritenute pericolose intervengono a mettere in dubbio, almeno potenzialmente, le capacità degli Stati a tutelare la sicurezza interna perché non si attenti alla apparente pace generale. Dopo aver consentito all’Unità d’Italia, al volgere del secolo XIX si poteva concordare con Lord Castlereagh quando a Vienna osservava che gli Stati dovevano cooperare per produrre una stabilità generale o meglio avrebbero dovuto, ma nel secolo XX questo non è avvenuto e nulla era stato previsto perché nel 1914 non si spegnesse la luce in Europa. Concludendo, dopo la cesura 1859-1861 si afferma il diritto delle nazionalità sul cammino delle evoluzioni sino al secolo XXI: il rispetto delle libertà civiche dei cittadini o sudditi e lo Stato di diritto quale presupposti necessari per a stabilità e la sicurezza in Europa. Quegli accadimenti italiani, e rivoluzionari, non hanno avuto solo un alto significato nazionale con il raggiungimento dell’Unità della penisola, ma hanno imposto l’abbandono di un sistema di sicurezza ritenuto razionale e l’adozione di un diverso un sistema di sicurezza fondato sul concerto delle potenze. Ogni sistema di sicurezza è provvisorio, perché condizionato dalle astuzie della storia: talvolta positive e benevoli, e in altre circostanze invece negative o distruttive, ma tutte non prevedibili. Nessuno nel 1859 aveva previsto il 1861 ma riconosciamo il merito dell’ardire in azioni, che hanno causato altre evoluzioni anch’esse poi destinate ad essere travolte per produrne di nuove. Ma da quei meriti sono rimasti alcuni punti fermi: il valore dell’individualità e delle aspettative dei popoli, le quali più tardi per contrastare la perversione di nazionalismi aggressivi si sono tramutate nella preminenza attribuita ai diritti umani o fondamentali e nel perseguimento della sicurezza di tutti con mezzi pacifici e condivisi in virtù di un sistema di sicurezza collettiva, almeno negli agognati obbiettivi. L’Italia del 1859-1861 ha lanciato idee nuove ed importanti in modo anticipatore con azioni concrete per realizzarle. Non è poca cosa rendersene conto per metterle meglio in risalto, non senza soddisfazione dopo 150 anni.
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(1) Sulla posizione tedesca antinapoleonica diversa da quella preminente in Italia cfr. il bellissimo affresco di T. Nipperdey, Deutsche Geschichte 1800-1866, Beck. München 1983, pag. 12 sgg..
(2) H.Kissinger, A world restored, Grosset&Dunlop, New York, 1964. (3) Cfr. G. Ferrero, Il Congresso di Vienna, Milano, Corbaccio, 1999, pp.163 e 193. (4) Conviene rileggere di M. d’Azeglio la straordinaria analisi del 1856, Sur les moyens propres à préparer la reconstitution de l’Italie, in M. d’Azeglio, Scritti postumi, Barbèra, Firenze, 1872, p. 245 sgg.. (5) Cfr. ottimamente G.E. Rusconi, Cavour e Bismarck, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 173. (6) Quale prova di realismo cinicamente finalizzato va ricordato il telegramma di Cavour a Massimo d’Azeglio del 21 aprile1859 (in Cavour, Autoritratto, a cura di A.Viarengo, Rizzoli, Milano, p. 342). (7) Cfr. A. Cassese. Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1984, p.104 sgg e 168 sgg., S.D. Krasner, Sovereignity, Princeton University Press, 1999, p. 47. (8) Cfr. S. Marchisio, L’ONU, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 69 sgg.. (9) Lettera di Cavour del 17 maggio 1860 in Cavour, op.cit., p. 366. (10) Per una valutazione attuale cfr. utilmente P. Ferrara, Lo stato preventivo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010. (11) Così secondo L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Eimaudoi, Torino, 1943, p. 202. (12) Cfr. A. Variengo, Cavour, Salerno, Roma, 2010, p. 443 sgg. (13) Così A. Omodeo, L’età del Risorgimento italiano, ISPI, Milano, 1942, p. 452. (14) Cfr. R. Mori, Il tramonto del potere temporale, Roma, Ediz. Storia e Letteratura, 1967, p. 239 sgg.. (15) Eloquente per una visione complessa non più attuale, ma significativa T.J. Lawrence, The principles of International Law, Heath, Boston, 1910, p. 119 sgg. (16) Il riconoscimento della Gran Bretagna era incerto nel timore che il nuovo Regno divenisse vassallo della Francia rafforzandola: cfr. A. Signoretti, Italia e Inghilterra durante il Risorgimento, Milano, Ispi, 1940, p. 337 sgg.. Cfr. P. Pastorelli, 17 marzo 1861, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011. Può sorprendere che successivamente il problema del riconoscimento del Regno d’Italia non sia considerato fra i casi dubbi di diritto internazionale: cfr. T.J. Lawrence, op.cit. Storia de, p. 87 sgg.. (17) La Spagna non solo era stata l’ultima a riconoscere il Regno d’Italia ma un rappresentante del Regno delle Due Sicilie rimase a lungo accreditato a Madrid, cfr. G. Massari, La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, Milano, Treves, 1878; vol.2°, p.337; L. Cappelletti, Storia d’Italia, Donath, Genova, 1902, p. 753. Per il riconoscimento della Russia luminarie a Bologna: A. Comandini, L’Italia nei cento Anni, Vallardi, Milano, 1932, vol. IV, p. 275. (18) Cfr. Chabod, Storia della politica estera italiana, Laterza, Bari, 1951, p. 530, Secondo le parole di Visconti Venosta il 23 aprile 1877: “una politica leale che faccia considerare il vantaggio e l’utilità per gli interessi europei della presenza e dell’azione morale di questo giovine Stato nel concerto delle grandi”. (19) In J. J. Mearsheimer, The tragedy of Great Powers Politics, Norton, New York, 2001, p. 187. (20) Probabilmente la “balance of power” é un mito o una metafora: cfr. in particolare R. Little, The balance of Power in International Relations, Cambridge University Press, 2007, passim e in particolare p. 19 sgg. (21) Cfr. fra l’altro sulle preoccupazioni per moti garibaldini V. Bersezio, Il regno di Vittorio Emanuele II, Roux. Torino, 1871, vol. VIII, p. 64 sgg. |