GNOSIS 1/2011
Dal “mare nostrum” al Risorgimento arabo L’Italia nel Mediterraneo alla ricerca del nuovo ruolo |
Matteo PIZZIGALLO |
L’Italia e il Mediterraneo (1861-2011) uno sguardo d’insieme Con la nascita, il 17 marzo 1861, del nuovo Stato unitario si compiva finalmente la prima fase del Risorgimento, inteso non solo come uno straordinario progetto politico-territoriale, ma anche come resurrezione interiore dell’Italia per cui, con slancio, purezza di spirito e dedizione assoluta si era sacrificata una gloriosa generazione di giovani patrioti coraggiosamente “pronti alla morte”. All’indomani dell’Unità, oltre a grandi problemi interni ed internazionali ancora aperti (dal consolidamento economico-sociale della fragile struttura nazionale alla questione romana) che andavano fronteggiati con sollecitudine, la nuova Italia nata dal Risorgimento, per così dire, “ereditava” anche tutto quello che, nel corso dei secoli, si era via via depositato nella memoria collettiva della sua gente ritornata finalmente insieme. E così, accanto alla mai sopita aspirazione all’unità della nazione coltivata anche durante gli anni più bui e difficili (sia pur da pochi lungimiranti spiriti liberi), nella memoria storica collettiva del popolo italiano, lungo il filo del venerato ricordo delle gloriose antiche Repubbliche marinare, si era altresì perpetuata nel tempo una naturale vocazione mediterranea, destinata a riprendere vigore e a crescere con il nuovo Stato unitario. Del resto, il nuovo Stato, immerso nel mare, era, per la sua stessa collocazione geografica, proiettato verso il Mediterraneo che, con l’apertura (1869) del Canale di Suez aveva ritrovato centralità nel più generale assetto geopolitico ed economico del sistema internazionale nell’ultimo scorcio di Ottocento. L’apertura del Canale di Suez segnò uno straordinario e imponente sviluppo dell’interscambio commerciale fra i Paesi dell’Europa mediterranea e i Paesi bagnati dall’Oceano indiano, ovviamente con maggiori profitti a vantaggio dei Paesi europei. Secondo alcuni dati apparsi su pubblicazioni dell’epoca, nel primo anno di esercizio del Canale di Suez erano transitate circa cinquecento navi con un carico complessivo di poco più di quattrocentomila tonnellate. Trent’anni dopo, il numero delle navi transitate si era più che decuplicato, mentre l’ammontare complessivo delle merci trasportate attraverso il Canale aveva di gran lunga superato quota venti milioni di tonnellate. Parallelamente al crescente aumento del traffico marittimo, attraverso il Canale di Suez, destinato sempre più a diventare uno snodo cruciale per l’assetto geopolitico dell’Oriente mediterraneo, saliva in progressione geometrica la cupidigia delle Grandi Potenze europee costantemente impegnate, nell’ultimo scorcio di Ottocento, in una forsennata corsa alla conquista di nuovi possedimenti d’Oltremare per accrescere i loro già cospicui imperi coloniali in India e nel Sud-Est asiatico. Nel maggio 1881 la Francia imponeva con la forza il suo protettorato in Tunisia (che si aggiungeva all’Algeria conquistata già da molti anni) e iniziava la sua penetrazione nell’Africa centrale, acquisendo vasti territori. Infine, dopo un’aspra contesa con la Germania, nel 1911, la Francia riuscì a imporre il suo protettorato sul Marocco, consolidando così il suo dominio sul litorale sud-occidentale del Mediterraneo. Dal suo canto l’Inghilterra, già padrona di Malta e di Cipro, nell’estate del 1882 occupava l’Egitto, cui fu subito imposto con la forza una sorta di protettorato di fatto, che autorizzava la stabile presenza di consistenti forze armate a presidio della sicurezza del Canale di Suez e dei rilevanti interessi britannici nel Mediterraneo orientale. Anche l’Italia, sul finire dell’Ottocento, aveva avviato una sia pur limitata politica coloniale volgendosi in direzione del Mar Rosso. La questione era purtroppo destinata a complicarsi con l’avvento al potere di Francesco Crispi, che si avventurò in una sciagurata operazione militare in Abissinia, tragicamente culminata nella sconfitta di Adua del 1 marzo 1896, che turbò moltissimo l’opinione pubblica italiana, provocando altresì accese polemiche sulla stampa e in Parlamento. Ne seguì una condivisa “politica di raccoglimento”, che segnò una lunga pausa di riflessione e di ripensamento sulle aspirazioni coloniali italiane. La questione tornò al centro dell’attenzione politica nel primo decennio del Novecento. In uno scenario mediterraneo già perturbato da una accesa conflittualità interimperialistica, le Grandi Potenze europee riaprirono la caccia ai nuovi mercati da conquistare, per stabilizzare le rispettive sfere d’influenza politica ed economica soprattutto a spese del “vecchio”, ma ancora territorialmente sovradimensionato, Impero turco, già da tempo avviato ad un lento inesorabile declino. Il presidente del Consiglio italiano, Giovanni Giolitti, sottoposto a forti pressioni, sia da parte di grandi gruppi industriali e finanziari, che da parte del nuovo (ma già diffuso) movimento nazionalista, nell’ottobre 1911, inviava un Corpo di spedizione a Tripoli che, ben presto, si spinse ad occupare tutto il litorale mediterraneo fino a Tobruk. La guerra libica cui si opposero, da posizioni minoritarie, il partito socialista e le componenti democratiche del movimento cattolico, si concluse con il Trattato di Losanna, del 1912, che riconosceva all’Italia il possesso della Tripolitania e della Cirenaica. Il controllo italiano era però limitato solamente alla fascia costiera. L’occupazione dell’intero territorio fu rallentata dalle nuove priorità militari imposte dal susseguente scoppio della Prima Guerra Mondiale e, in seguito, fu di gran lunga ostacolata e avversata dalla insidiosa guerriglia messa in campo dalla resistenza libica, la cui dura repressione italiana (protrattasi fino agli anni Trenta) ferì in maniera profonda le popolazioni locali, generando risentimento e rancore difficili da dimenticare. Tutto questo molto tempo dopo avrebbe pesato in forte misura sui rapporti italo-libici, dando origine a un prolungato contenzioso, non privo di drammatici momenti di tensione con il Governo di Tripoli, soprattutto all’indomani dell’avvento al potere (1969) del colonnello Gheddafi. La Prima Guerra Mondiale cambiò radicalmente l’assetto geopolitico del Mediterraneo. Scomparvero per sempre imperi secolari. Quello zarista fu travolto dalla rivoluzione bolscevica del 1917; gli imperi germanico, austriaco e turco furono sconfitti dalle Grandi potenze occidentali che, con cupidigia, si spartirono il ricco bottino di guerra. Fu però una spartizione ineguale a vantaggio di Gran Bretagna e Francia che, fra l’altro, attraverso il sistema dei “mandati”, una sorta di protettorato ben dissimulato, si impossessarono rispettivamente: la Francia, della Siria e del Libano; la Gran Bretagna dell’Iraq e della Palestina, ove fu consentita l’immigrazione ebraica. In seguito la forzata coabitazione fra arabi ed immigrati ebrei avrebbe dato luogo a drammatici episodi di reciproche intolleranza e ostilità. In seno alle varie Conferenze internazionali in cui furono definiti gli assetti postbellici, Gran Bretagna e Francia riservarono all’Italia (che pure aveva dato un rilevante contributo alla guerra contro i comuni nemici) un ingiusto trattamento, creando così i presupposti del malefico mito della “vittoria mutilata”, destinato ad avvelenare ulteriormente il clima politico nazionale dell’epoca. Acuito dalla crisi economica postbellica, si diffuse nel Paese un profondo malessere mescolato ad una sempre più crescente sfiducia nelle classi dirigenti liberali, di fatto immobilizzate, strette in una terribile morsa: da un lato le lotte operaie culminate nell’occupazione delle fabbriche (che tanto allarmò il grande padronato); dall’altro il frenetico e violento attivismo dei movimenti eversivi della destra antagonista, nazionalista e fascista. Peraltro, questi ultimi insistevano molto sulla politica mediterranea, accusando i Governi liberali di aver tenuto nelle varie sedi internazionali un ignobile atteggiamento “rinunciatario”, che aveva penalizzato gli interessi nazionali e tarpato le ali alla legittima aspirazione italiana ad una naturale espansione. E così, all’indomani della marcia su Roma e del consolidamento del regime, il Governo fascista impresse alla politica mediterranea un forte attivismo, rafforzando il ruolo della Marina militare come strumento di tale politica, nel tentativo di riequilibrare l’assetto geostrategico della regione, troppo sbilanciato a favore dell’Inghilterra che, attraverso una rete di munitissime basi navali (a Cipro, in Egitto, a Malta e a Gibilterra), controllava l’intero scacchiere ed era in grado di neutralizzare ogni possibile minaccia. In estrema sintesi, dunque, si può dire che la vocazione mediterranea dell’Italia, declinata in tutte le varianti aggressive, diventò il fondamentale punto di appoggio della nuova politica di prestigio e di potenza del Governo fascista, per riaffermare e rilanciare gli interessi nazionali in quello che ormai la propaganda di regime, abilmente giocata su toni fortemente emotivi, chiamava data protection. Politica di prestigio e di potenza culminata, all’indomani della conquista dell’Etiopia e della fondazione (maggio 1936) dell’Impero, negli importanti Accordi italo-inglesi del 16 aprile 1938, noti come Accordi di Pasqua. Si trattava di un ampio ventaglio di intese, che non solo sistemava tutta una serie di questioni ancora aperte ma, soprattutto, poneva le basi politiche per il riequilibrio dell’assetto strategico del Mediterraneo, riconoscendo finalmente, come Palazzo Chigi da tempo auspicava, il ruolo, il prestigio e i diritti dell’Italia fascista. Illustrando alla Camera la portata dell’Atto italo-britannico che conteneva la dichiarazione dell’entrata in vigore degli Accordi di Pasqua, il Ministro degli Esteri Ciano, il 30 novembre del 1938, disse: “gli Accordi italo-inglesi sono un complesso di intese che, tenendo conto delle nuove realtà europee, mediterranee e africane, regolano, sulla base della più assoluta parità morale, politica e militare, i rapporti tra i due Imperi”. Era indubbiamente un successo anche sul piano del consenso interno al regime e, nell’immaginario collettivo eccitato dall’abile e persuasiva propaganda, il Mediterraneo appariva, come mai più lo sarebbe stato in seguito, il Mare Nostrum, sul quale vigilava una poderosa Armata navale composta in larga parte da moderne unità e da oltre cento sommergibili, quasi tutti di recente costruzione. Si trattava di una grande flotta che, secondo le impostazioni strategiche dell’epoca, solo per la sua stessa esistenza, avrebbe esercitato un forte potere di dissuasione nei confronti di qualsiasi nemico. Purtroppo, nel corso della Seconda Guerra Mondiale le cose andarono diversamente. Al di là degli straordinari individuali atti di coraggio e di ardimento degli equipaggi italiani, le sorti della guerra nel Mediterraneo, anche a causa di una serie di errori degli alti gradi della Marina, non furono favorevoli. Ed il tanto celebrato data protection, negli anni del conflitto, si trasformò in un mare nemico. Nel 1946, con la nascita della Repubblica, l’Italia, dopo la drammatica esperienza della Seconda Guerra Mondiale, tornava gradatamente alla “normalità” che, sul piano internazionale, imponeva il passaggio attraverso la stretta porta del Trattato di Pace con i Paesi vincitori (firmato il 10 febbraio 1947) che, fra gli altri obblighi, stabiliva la perdita di tutti i nostri possedimenti d’Oltremare. Intanto, sul Mediterraneo, cominciavano già a soffiare i primi venti di guerra fredda originata dalla sempre più forte contrapposizione fra i due Blocchi, rispettivamente guidati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. In quegli stessi anni, nonostante le resistenze di Francia e Inghilterra, rancorose custodi di quel che restava dei loro imperi coloniali, le spinte all’indipendenza dei popoli arabi della Sponda Sud e dell’Oriente mediterraneo si facevano sempre più forti. Per alcuni di questi Paesi, il cammino verso la libertà fu relativamente semplice; per altri, come Marocco, Tunisia e soprattutto Algeria fu, invece, molto complesso. Più drammatica fu la vicenda della Palestina. Dopo il fallimento del piano di spartizione in due Stati (uno ebraico e l’altro palestinese) concepito dall’Onu e il frettoloso ritiro degli inglesi, veniva unilateralmente proclamato, il 14 maggio 1948, lo Stato di Israele su tutto il territorio dell’ex mandato, dando così origine alla prima (di una lunga serie) guerra arabo-israeliana. Ancor più emblematico il caso dell’Egitto cui gli inglesi avevano concesso l’indipendenza sin dal 1922. Ma si trattava di una “finta” indipendenza, perché la Gran Bretagna manteneva il controllo del Canale di Suez e continuava ad esercitare sulla politica egiziana un forte ed invasivo condizionamento sempre più mal sopportato dagli “Ufficiali liberi”, un gruppo di giovani militari, tra i quali spiccavano Nasser e Sadat che, alle prime luci dell’alba del 23 luglio 1952, rovesciarono il debole e compromesso re Faruq, dando vita ad una nuova pagina di storia mediterranea. Infatti, la rivoluzione di Nasser imperniata su poche semplici parole d’ordine (riforme sociali, fratellanza, lotta contro tutte le forme di colonialismo), sprigionò nel mondo arabo una forte carica liberatoria che galvanizzò l’entusiasmo dei movimenti nazionalisti in vari Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo. In quest’ottica, si aprivano ampi spazi alla nuova politica mediterranea della Repubblica italiana. Con la fondazione della Repubblica, infatti, si tornò al vero spirito originario della “vocazione mediterranea”, questa volta correttamente declinata e posta sotto il segno della pace e del rispetto dell’autodeterminazione dei popoli. Ma, soprattutto, posta sotto il segno della diplomazia dell’amicizia, intesa come modello italiano di relazioni mediterranee concepite per privilegiare la ricerca del dialogo e della cooperazione bilaterale e multilaterale; un modello flessibile, aperto al confronto paritario e sempre fermamente ostile a qualsiasi idea di scontro di civiltà. Al tempo della ‘guerra fredda’, pur in un quadro di sostanziale fedeltà all’Alleanza atlantica e di costruttivo impegno europeista, l’Italia cercò di ritagliarsi un autonomo spazio di manovra nel Mediterraneo portando avanti una politica ispirata alla cultura universalistica e terzomondista (che animava larghi settori del partito democristiano nonché i partiti di sinistra) e, al tempo stesso, finalizzata a stabilire (con il valido supporto dell’Eni, all’epoca guidato da Enrico Mattei) intese dirette con i Paesi produttori di petrolio di nuova indipendenza e desiderosi di emanciparsi dal controllo dalle grandi Compagnie del cartello. Convinto sostenitore di una autonoma politica mediterranea di largo respiro fu Aldo Moro Presidente del Consiglio negli anni Sessanta e poi, a lungo, Ministro degli Esteri. Nonostante i limiti imposti dai rigidi schemi della contrapposizione fra i due Blocchi, Moro profuse fino alla sua tragica morte (1978) un costante impegno a sostegno del dialogo e della cooperazione considerati come i fondamentali prerequisiti di una vera politica di pace e di stabilità dell’Oriente mediterraneo. La caduta del “Muro” e la dissoluzione dell’Unione Sovietica introdussero significativi sconvolgimenti anche nel Mediterraneo, ove, alcuni delicati equilibri geopolitici e geo-economici, anche per effetto dell’azione di certi Attori statuali della regione, abili professionisti della destabilizzazione, cominciarono a vacillare pericolosamente, messi altresì a dura prova dalle spinte di vari movimenti integralisti islamici, sempre più in crescita non solo nelle “aree a rischio”, ma anche nei Paesi moderati. La terribile strage dell’11 settembre 2001 riaprì la stagione della guerra che avrebbe a lungo infestato il primo decennio del nuovo secolo, prima in Afghanistan e poi in Iraq, provocando devastanti effetti collaterali di gran lunga superiori a quelli previsti. E il vertiginoso aumento della tensione mise a dura prova anche il pur promettente Partenariato euromediterraneo inaugurato a Barcellona, rendendo più complicati i rapporti fra le Sponde Nord e Sud di un Mediterraneo diventato improvvisamente più largo. Anche nel nuovamente perturbato scenario l’Italia, sempre lealmente ancorata all’Onu ed all’Unione Europea è riuscita, nel corso di questo decennio, a rimanere comunque fedele alla sua tradizionale politica mediterranea tendenzialmente autonoma e stabilmente ispirata alla diplomazia dell’amicizia. Ma, soprattutto, l’Italia è riuscita a tenere sempre aperti i suoi molteplici canali di comunicazione di dialogo con tutti i Paesi arabi della Sponda Sud, anche con quelli più problematici, intrattenendo relazione bilaterali sempre su una condivisa base di parità, di rispetto e di reciproca non ingerenza politica, scevra da qualsiasi pregiudizio di carattere ideologico o religioso. Relazioni intrattenute non solo con gli Attori statuali, ma anche con gli attori non statuali e con i vari movimenti presenti nelle composite società arabe. Società arabe per lungo tempo rappresentate (in certe superficiali analisi occidentali) come società immobili, fatalmente strette nella morsa del fondamentalismo religioso da un lato e di logori regimi dispotici dall’altro. Ma, come dimostrano i recentissimi avvenimenti della cronaca quotidiana, da quelle società, solo apparentemente immobili, attraversate invece da forti tensioni e da speranze di libertà e di cambiamento, si è improvvisamente levato il vento, impetuoso, delle rivolte popolari. Rivolte via via esplose in vari Paesi arabi e, da ultimo, in maniera più violenta e drammatica in Libia, ove la rabbiosa reazione dell’agonizzante regime ha colpito in maniera deliberatamente crudele e brutale la sua stessa popolazione civile. Di fronte a questa nuova pericolosa ed inquietante crisi mediterranea, l’Italia che costantemente professa il rispetto per la libertà e l’autodeterminazione dei popoli e sostiene la necessità (esclusivamente sotto l’indispensabile e legittimante egida dell’Onu) delle missioni umanitarie, non può rimanere “indifferente” come ha giustamente dichiarato, il 18 marzo 2011, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, aggiungendo: “non lasciamo che vengano distrutte le speranze di un Risorgimento nel mondo arabo”.
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