GNOSIS 1/2011
Movimento operaio e sindacati nel 150° dell’Unità d’Italia Il sindacato: dalla difesa di classe alle sfide della globalizzazione |
Franco FERRAROTTI |
Il 17 marzo 2011 si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. È una data importante. Non è l’occasione di retoriche carducciane né di nostalgie nazionalistiche. È invece una data che impone una seria meditazione sullo stato dell’Italia come nazione politicamente unita e come centro di valori culturali che fanno parte integrante e che sono, anzi, alla base della coscienza europea. Ad una osservazione fredda, non obnubilata dai vapori dell’emotività, presenta una curiosa, forse unica contraddizione: come nazione l’Italia è certamente una costruzione recente, se si pensa che lo stesso «mondo nuovo», gli Stati Uniti d’America, hanno celebrato il loro bicentenario nel 1976. Non solo; è una costruzione unitaria oggi percorsa da fremiti e da esigenze di decentramento in senso federale, che non si vogliono né separatistici né secessionistici, ma che riflettono una varietà straordinariamente vivace e pittoresca di usi e costumi, tanto da giustificare la definizione dell’Italia come «un arcipelago di culture», che la legge del 1859, tendente a uniformare la penisola quasi come una fotocopia del vecchio, glorioso Piemonte non è riuscita ad appiattire. Ma come società, l’Italia è, a un calcolo sia pure sommario, antichissima, presente sulla scena del mondo da tempo immemorabile, tale comunque da coprire un arco di trenta secoli. In questa realtà, frastagliata eppure consapevole di un comune destino, la funzione del movimento operaio e delle sue organizzazione sindacali, è stata decisiva per garantire l’equilibrio, lo sviluppo, la modernizzazione e il progresso del Paese come realtà fondamentalmente unitaria. A differenza di altri movimenti sindacali, come sarà chiarito nel seguito, quello italiano, a cominciare dalla fondazione della Confederazione generale del Lavoro alla fine dell’Ottocento, nello stesso torno di tempo in cui si venivano organizzando i grandi partiti popolari di massa, in particolare il Partito socialista, i sindacati italiani sono apparsi fin dall’origine ancorati saldamente al territorio, attraverso organizzazioni originali, come Le Camere del Lavoro, aperte a tutte le categorie professionali e a tutte le federazioni di arti e mestieri. Inoltre, l’azione sindacale, in un Paese povero di materie prime e ricco di bocche da sfamare, che fino al termine della seconda guerra mondiale ha esportato braccia da lavoro in tutto il mondo, si è posta come obiettivo primario, tenendo soprattutto presente il problema rurale, l’approvazione e la rigida applicazione della Legge per l’imponibile di manodopera nell’agricoltura. In questo senso, il movimento sindacale italiano si è venuto storicamente svolgendo in stretto contatto con le comunità territoriali e con un’apertura, a proposito delle iscrizioni, che lo garantiva contro la formazione di posizioni elitarie di vantaggio relativo e di più o meno larvato parassitismo. Nella situazione italiana il business unionism non ha mai veramente attecchito. L’origine del sindacalismo si è legata a un atto di solidarietà sociale, al di là e spesso contro le «leggi del mercato». Questo atto non è dottrinario. È la risposta, anche ingenua, ai bisogni delle classi lavoratrici: la casa, il cibo, il salario regolare, l’assistenza medica. Può assumere forme incongrue, espressione non di interessi di classe, ma di generica buona volontà. Sembra storicamente assodato che, ancor prima di essere un’organizzazione sindacale in senso proprio, vale a dire un’organizzazione dotata di una struttura continuativa nel tempo, con un gruppo dirigente chiaramente definito nelle sue mansioni e nei suoi scopi dichiarati, il movimento operaio è un atto di solidarietà umana, sempre autentico e sofferto, vissuto prima che teorizzato. Si vedano, per esempio, le società di Mutuo Soccorso. Si dice movimento operaio, usando il singolare, ma il plurale sarebbe più corretto. Va infatti presa in attenta considerazione la variabilità storica. In effetti, il contesto storico specifico pesa sui singoli movimenti operai e sulle forme sindacali cui hanno dato origine, determinandone natura, struttura organizzativa, orientamenti ideali. Per esempio, il sindacato nordamericano è a-ideologico, strutturato verticalmente in base alle categorie professionali; accetta come iscritti solo quelli che si possono pagare regolarmente le quote. È infatti fondato da Samuel Gompers, segretario generale della Cigar makers Union, e solo nel 1936 ha luogo la fusione, mai la confusione, con il Congress of Industrial organations, animato da Walter Renther, che raccoglie i sindacati soprattutto dell’automobile, che ne saranno sempre la punta più avanzata, la United Automobile Workers, con sede a Detroit, Michigan. Radicalmente diversa è la situazione in Europa. Qui il movimento operaio non è a-ideologico. Si muove su linee direttive che investono tutta la società e appare quindi pervaso da una forte consapevolezza politica e da una specifica coscienza di classe con precise ricadute ideologiche e politiche. Come in altra sede ho osservato cadute le corporazioni di mestiere e le gilde medioevali, le quali, attraverso un complicato sistema di regolamenti e di controlli, assicuravano un rapporto sufficientemente armonico fra produttori e consumatori, tocca ora al mercato di svolgere tale funzione integrativa. Ma il nesso che il mercato capitalistico fornisce non è più il nesso personale, diretto fra artigiano e cliente e, all’interno del processo produttivo, fra maestro di bottega e giornalieri; esso si configura invece nell’astratto, impersonale, automaticamente equilibrantesi rapporto fra domanda e offerta. Considerato globalmente, sia come organizzazione professionale che come movimento politico in senso proprio, il movimento operaio si configura come una sistematica azione di frenaggio rispetto al funzionamento meccanico del mercato capitalistico e come un’articolata reazione al puro dispiegarsi della legge della domanda e dell’offerta. Questa è, naturalmente, una generalizzazione interpretativa. Nella realtà storica le cose sono assai più complesse e le stesse prese di posizione del movimento operaio non sono da vedersi come dettate da principî ideologici astratti, bensì come «risposte», variamente efficaci, a circostanze specifiche in determinati contesti storici e culturali. Una storia «non dinastica» del movimento operaio, ossia non preoccupata di salvare a priori una data ortodossia, capace di vederne lo sviluppo in rapporto alle iniziative della controparte imprenditoriale, nel quadro delle risorse economiche disponibili e delle strutture istituzionali legalmente codificate, a contatto con una determinata attrezzatura tecnica e con una particolare eredità storica, un particolare regime politico e una particolare posizione geografica, è ancora da scrivere. Così, in Italia, in una situazione in cui, dato il ritardato sviluppo industriale in senso moderno, anche l’organizzazione del movimento operaio parte in ritardo, troviamo i tipografi in prima fila nella difficile transizione dalle generiche società di Mutuo Soccorso alla costituzione di «coalizioni operaie» decise a opporre chiara e sistematica resistenza alla controparte padronale. Le industrie tessili sono certamente le più antiche, e anche le più famose quanto a orari di lavoro e a intensità di sfruttamento, ma per avere il primo esempio di un’associazione permanente, di resistenza sindacale dobbiamo attendere l’iniziativa di quell’élite operaia che si raccoglie nella «federazione del libro». Presto imitati dai loro compagni di Genova e di Milano, e poi da quelli delle più importanti città italiane, il 7 maggio 1848 quaranta operai costituiscono a Torino la «Società dei compositori Tipografici». La «Società» non si propone fini rivoluzionari e neppure fonda la propria attività su piattaforme ideologiche. Essa ripropone e si preoccupa, con un minimalismo che sarà poi caratteristico del business unionism, cioè di un’importante tendenza del movimento operaio mondiale, di difendere una «tariffa di lavoro», da poco ottenuta dai padroni. È difficile comprendere e valutare correttamente la deliberata concretezza e limitezza degli obiettivi delle primissime organizzazioni operaie italiane senza tener conto del loro retroterra storico. Con riguardo alla posizione operaia, si può tuttavia affermare che in Italia, come del resto in altri paesi dell’Europa continentale, in particolare in Francia e in Germania, il marxismo sia apparso agli inizi di questo secolo come una realistica interpretazione e una spiegazione, se non proprio scientifica, psicologicamente plausibile dei problemi che stavano davanti alle classi lavoratrici subalterne. L’interpretazione marxistica, in definitiva sostanzialmente vittoriosa rispetto alle altre, doveva assai presto offrire il fondamento dottrinario per la creazione di partiti operai di classe e, in particolare, giustificare la diversa posizione e funzione attribuita al sindacato e al partito politico – il primo, difensore degli interessi a breve scadenza e subalterno rispetto al partito, interprete, quest’ultimo, della situazione storica e dei rapporti di forza fra le classi e guida nella lotta pratica per rovesciare tali rapporti – lo status quo –, por termine allo sfruttamento, cioè alla preistoria dell’umanità, dare inizio, infine, ad una nuova condizione umana ottimisticamente protesa verso una saturnia aetas, in cui il libero sviluppo di ognuno sia condizione per lo sviluppo di ognuno sia condizione per lo sviluppo di tutti. Storicamente, al tramonto delle società di Mutuo Soccorso corrisponde l’affermarsi sempre più vigoroso delle Leghe di Resistenza (organizzazioni di difesa degli interessi economici e professionali dei lavoratori dell’industria e dell’agricoltura) e lo svilupparsi, dopo il 1891 (anno di fondazione del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani), delle Camere del Lavoro, che i socialisti andarono creando nelle principali città dell’Italia settentrionale. Le Camere del Lavoro furono istituite ad imitazione delle Bourses du Travail francesi e avevano lo scopo di attuare forme più efficaci e più ampie di tutela operaia. Esse comprendevano tante sezioni quanti erano i mestieri, le arti e le professioni degli iscritti alle Società di Mutuo Soccorso e dei soci di Cooperative. La funzione principale delle Camere del Lavoro fu indubbiamente quella del collocamento, ma esse rappresentarono anche strumenti particolarmente efficaci di diffusione delle idee socialiste per ampi strati di lavoratori, per i quali la difesa economica professionale dei propri interessi finiva per rappresentare solo l’aspetto immediato di una consapevolezza di classe che tendeva a scorgere la risoluzione della «questione operaia» attraverso il superamento della società capitalistica. Beneficiando dell’esperienza storica dell’ultimo mezzo secolo o poco più, noi oggi sappiamo che il capitalismo è insuperabile perché si supera da sé. Proteiforme, dinamico, il capitalismo crea ricchezza e nello stesso tempo si dedica a quello che, con un ossimoro di dubbia eleganza, è stata definita la «distruzione creativa». Il capitalismo ha dimostrato di non aver bisogno di una democrazia rappresentativa. Alligna e convive con qualsiasi regime politico perché è relativamente indipendente e, anzi, indifferente ai governi purché gli lascino mano libera nel cosiddetto «libero mercato». Accade che analisti sociali ritardatari, martiri del libro-paga e delle consulenze d’oro, siano condannati a scoprire l’ombrello. Cento anni dopo Thorstein Veblen e i marxisti austriaci, scoprono il capitalismo finanziario e le sue diaboliche, incontrollabili speculazioni. Il vero problema, a mio parere, consiste nell’avere adottato un valore strumentale – l’innovazione tecnica – come valore finale. Da questo punto di vista, è appena necessario osservare che la funzione sociale, in termini di tenuta del sistema economico e politico complessivo, è stata ed è tuttora fondamentale. Con i sindacati le masse popolari trovarono uno strumento efficace di partecipazione, per quanto indiretta e talvolta manipolativa, ad uno Stato che da monoclasse, soprattutto a partire dalla fase giolittiana fino alla Prima Guerra Mondiale, si andava facendo pluriclasse, in concomitanza con la modernizzazione dell’economia che da rurale si avviava verso l’industrializzazione, a partire dagli opifici tessili alle fabbriche metalmeccaniche, chimiche e siderurgiche. Con il fascismo viene soppressa la libertà sindacale, in particolare vengono colpite ed eliminate le commissioni interne, garanti della presenza dei rappresentanti operai nei luoghi di lavoro e quindi in grado di captarne, capirne ed esprimere le esigenze al di fuori di filtri ideologici. Terminato il Secondo conflitto mondiale, la ripresa sindacale è rapida e aiuta in maniera diretta e talvolta originale, specialmente con i Consigli di Gestione, analoghi a quelli della Mitbestimmung tedesca, la ricostruzione democratica dell’Italia. Solo con l’avvento della Guerra Fredda, l’unità sindacale entra in crisi. Accanto alla CGIL, nascono la CCGIL, poi CISL a orientamento democristiano, e la UIL, socialdemocratica. Il rischio, per i sindacati, è allora quello di ridursi a mere «cinghie di trasmissione» delle istanze dei partiti politici e quindi di perdere la loro autonomia. La «Guerra Fredda», l’aspro confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica, durato circa mezzo secolo, dalla fine del Secondo conflitto mondiale alla caduta del Muro di Berlino, doveva inevitabilmente spezzare l’unità dei sindacati e indebolire la loro capacità di resistere ed eventualmente modificare le iniziative padronali. Resta tuttavia importante l’azione di contenimento, canalizzazione e difesa delle istanze del lavoro subordinato da parte dei sindacati. Non concordo pienamente con la definizione delle iniziative sindacali come una sorta di «controrivoluzione industriale». È certo però che la presenza sindacale ha costituito una argine efficace contro le possibili privatizzazioni del pubblico, speculazioni di vario ordine di un padronato in alcune fasi storiche chiaramente afflitto da delirio di onnipotenza. Le conseguenze del settarismo ideologico, sono state gravi per i sindacati. Li hanno costretti a condividere, almeno in parte, la fine delle ideologie di ascendenza ottocentesca, diventate noiosi e menzogneri megafoni dell’ufficialità. Purtroppo, insieme con il franare delle ideologie, si sono liquefatti anche gli ideali. L’emergere dell’innovazione tecnologica come fattore trainante dell’economia ha avuto e ha tuttora una conseguenza contraddittoria: per un verso, vi sono i gruppi dei lavoratori già stabilmente inseriti nel mercato del lavoro con contratti a tempo indeterminato; ma, per un altro verso e all’estremo opposto, si trova l’ingente massa dei giovani in attesa di entrare nel mercato del lavoro e in generale assunti solo con contratti a termine. Due posizioni, dunque, contrarie e simmetriche, una sorta di frattura fra le generazioni: l’iper protezione sindacale, da una parte, e la precarizzazione diffusa, dall’altra. Come ho in altra sede osservato, è l’innovazione tecnica che comanda: condanna i vecchi prodotti, crea nuovi mercati. Ma la tecnica è una perfezione priva di scopo. Un valore strumentale è venerato come valore finale. Ha il potere di scuotere e frantumare le vecchie categorie professionali, i profili di mestiere, il lavoro direttamente muscolare e al limite la stessa presenza dell’operaio-operatore, non più in tuta blu ma in camice bianco, fino a dar luogo a quel non-senso che è la jobless growth, la crescita produttiva senza posti di lavoro, e quindi il contraddittorio corto circuito sovrapproduzione-sottoconsumo. È in questo corto circuito che i giovani d’oggi sono presi, imprigionati, precarizzati. Se cresce la produzione ma svaniscono i posti sicuri e viene meno il salario regolare perché la robotificazione elimina la manodopera subordinata, che è però fatta di consumatori, il corto circuito sovrapproduzione-sottoconsumo è inevitabile. Non solo: le direzioni aziendali, dovendo fare i conti con una tecnica in continuo e rapido cambiamento e tempi di ammortamento degli investimenti sempre più brevi, non possono permettersi di firmare contratti di lavoro a tempo indeterminato. In un parola, hanno bisogno di una manodopera non solo docile, ma malleabile, mobile, precaria, fungibile. È il nuovo schiavismo delle società tecnicamente progredite. Con riguardo ai giovani d’oggi l’esclusione sociale, la precarietà economica, l’irrilevanza politica sono fatti oggettivi, empiricamente documentabili. Interpretarli in chiave psicologica o puramente culturologica è rischioso. Se ne perde il senso profondo, l’incisività determinante, il carattere di “durezza” che Émile Durkheim, agli inizi del secolo scorso, riconosceva ai fatti sociali e che lo induceva a studiarli “come cose”, comme des choses. L’emotività, oggi prevalente, comporta lo svicolamento verso i labili stati d’animo. Non sottoscriverei l’eliminazione della psicologia dal novero delle scienze sociali, decretata da Auguste Comte e da Émile Durkheim. Ma una ricerca sui giovani d’oggi, drammaticamente alle prese con i loro mezzi elementari di sussistenza autonoma, in cui analisti sociali fino a prova contraria responsabili non esitano a far sfoggio di tutto un armamentario psicoanalitico tanto criptico quanto inutile, provoca una certa dose di legittimo stupore. Termini come rimozione, depressione cronica, apatia, godimento immediato senza limiti, sfruttamento desiderante, rifiuto di sognare, castrazione del desiderio, e così via, presuppongono una folla di pazienti candidati agli ospedali psichiatrici più che giovani semplicemente in cerca di un impiego possibilmente non precario, per ottenere un mutuo, crearsi una famiglia, garantirsi un proprio spazio vitale. È chiedere troppo? Significa cedere a “godimenti immediati e senza limiti”, come dicono certi analisti oggi sulla cresta dell’onda? È a questo massiccio problema che i sindacati, oggi, devono rispondere e dare la piena misura della loro funzione storica. A questo scopo non saranno sufficienti le dichiarazioni di buona volontà, il riconoscimento del disagio giovanile, il bisogno di riformare il mercato del lavoro. La tecnologia, oggi riconosciuta come l’imperativo del progresso economico e sociale, cambia continuamente e rapidamente in modo tale che sono stati drammaticamente accorciati i tempi di ammortamento degli investimenti. Non solo: la tecnologia in rapido cambiamento ha intaccato, investito e spesso rese desuete le vecchie categorie professionali che sono le colonne portanti della struttura organizzativa dei sindacati. Ci troviamo così di fronte a dei datori di lavoro che non per cattiva volontà deliberata ma per ragioni oggettive, stanno diventando sempre più datori di precarietà. A loro dire, non possono assumere i giovani con contratti di lavoro tradizionali, vale a dire a tempo indeterminato, perché non sanno né sono in grado di prevedere quanto a lungo una data fase tecnico produttiva potrà durare. Non hanno solo più bisogno, di una manodopera docile, come una volta. Hanno bisogno di una manodopera subordinata malleabile, flessibile, fungibile, che si contenti di contratti di lavoro da rinnovarsi di tre mesi in tre mesi. Altrimenti, affermano con i libri aziendali alla mano, il conto economico non torna e lo spettro del fallimento dell’azienda acquista in tempi brevi, una sua temibile consistenza. Ma che cosa accade, in questa situazione precaria, ai giovani anche quando siano stati tanto fortunati da ottenere un posto di lavoro a tempo determinato? È possibile vivere di tre mesi in tre mesi senza poter fare un mutuo per l’abitazione, un progetto a media scadenza per mettere in piedi una famiglia, non vivere più con i vecchi genitori per far crescere la propria autonomia e quindi il proprio senso di responsabilità? Sembrano interrogativi retorici. Sono in realtà, aspetti di una quotidianità, a dir poco, drammatica che pesa ormai da tempo su tutta una generazione, specialmente in Italia, dove il dinamismo dell’economia e chi perde un lavoro precario non garantisce di trovare un altro equivalente. In un mio recente libro, La strage degli innocenti (Roma, Armando, 2011) ho raccolto la testimonianza da parte di un giovane lavoratore precario con riguardo ad «Una giornata al call center». Cito una parte di questa sobria, non doloristica ma semplicemente realistica testimonianza: «Quando racconto che lavoro faccio non credo che le persone capiscano cosa vuol dire. – Alla fine te ne stai seduto al telefono – non hai nessuna responsabilità – io a voi del call center vi verrei a cercare sotto casa, attaccate sempre e sto in attesa per ore – e per chi lavori? Me la puoi fare una promozione? –. Sono solo alcuni dei commenti che fanno, non è cattiveria, è che non capiscono. I call center sono una realtà molto diffusa in Italia, credo che chiunque abbia in famiglia o tra gli amici qualcuno che ci sia anche solo passato, ma il senso di alienazione di questo lavoro non viene percepito. Alienazione perché il cliente cambia, ma il lavoro è sempre lo stesso, perché qualcuno mi ringrazia ma la soddisfazione è poca e non è mai l’azienda a riconoscere il valore di un dipendente, perché posso impegnarmi di più ma lo stipendio sarà lo stesso e non è un granché. Non esiste un progetto, sono solo sei ore che devono passare, ogni giorno, ed è sempre difficile. Ho vissuto i turni di dicembre, lavoro il 24 dalle 16 alle 22 e anche il 31 fino alle 22, mia moglie si arrabbierà di sicuro, ma io che ci posso fare? Sono le 22, finalmente stacco e vado a casa. Ho fatto bene il mio lavoro, sono stato cordiale e corretto con tutti, anche con chi mi offende. Tutti mi chiedono come faccio a restare così calmo, com’è possibile che alla fine anche il cliente più arrabbiato mi saluti ringraziandomi. Quando indosso quelle cuffie io rappresento l’azienda, offendono l’azienda, non sono io, non è con me che ce l’hanno. Io ricomincio ad essere me stesso quando esco di qui. Faccio un lavoro per il quale non esisto. Per dieci ore al giorno sono un uomo-ombra, un uomo “senza qualità”, una “macchina animata”». Questa testimonianza è una riprova, non strettamente necessaria, dei nuovi problemi determinati da una evoluzione tecnica in rapido sviluppo. Questa evoluzione costituisce per i sindacati una sfida forse decisiva, che imporrà in tempi relativamente brevi la ristrutturazione organizzativa e la ridefinizione degli scopi. Nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia emerge tuttavia in piena evidenza e va riconosciuto il grande, originale apporto dato dal movimento operaio e dai suoi sindacati alla consapevole, fattiva coesione umanitaria dell’Italia di oggi al di là di ogni miraggio ideologico o velleitario sogno rivoluzionario. In questa prospettiva, le iniziative dei sindacati che organizzano e orientano il lavoro subordinato non possono essere presentate né vanno interpretate come iniziative puramente negative "contro-industriali". Si tratta al contrario di una forma di rappresentanza della grande maggioranza dei cittadini che garantisce la coesione sociale e si pone quindi come un valido fattore di unità nazionale e di democrazia politica.
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