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GNOSIS 3/2010
Mediterraneo prossimo venturo

Dalla crisi ambientale al rischio destabilizzazione


Corrado Maria DACLON


Foto da www.omero.it/media/
 
Povertà diffusa, incremento demografico, disoccupazione giovanile, mutamenti sociali, dipendenze energetiche e degrado ambientale. È il quadro socioeconomico dello scacchiere che ingloba i Paesi mediterranei del sud e dell’area orientale, obbligati a confrontarsi con una serie di problemi fonti di instabilità, disordini, a volte terreno di coltura per il terrorismo, nell’analisi a tutto campo tracciata dal professore Corrado Maria Daclon. Poiché il territorio in se’ tende a perdere il valore originario dal profilo strategico, dalla “geopolitica degli spazi” si passa alla “geopolitica dei flussi” nel cui ambito il braccio militare diventa garante della stabilità proprio dei flussi economici, energetici, informativi, che costituiscono le vere risorse, incluse le risorse naturali. Per quanto riguarda poi il futuro, gli scenari geopolitici ed economici sono indissolubilmente legati a tre elementi chiave per l’area mediterranea: crescita demografica, perdita di aree fertili e approvvigionamento idrico. Soprattutto quest’ultimo elemento rappresenta la causa prima di nuove possibili tensioni, in relazione al controllo e allo sfruttamento delle risorse.



Potrebbe apparire quantomeno ardito, in un’analisi geopolitica rivolta all’energia e alle risorse naturali, creare un nesso tra la ex dominazione sovietica sull’Europa dell’Est e sui Balcani, ed il retaggio bizantino e ottomano, in considerazione dell’influenza politica e religiosa esercitata dall’Impero romano d’oriente sullo sviluppo della Russia. La stessa Grecia e la Turchia non rientravano nell’area d’influenza sovietica e cercarono di integrare nelle loro tradizioni le norme e le consuetudini politiche occidentali, quale ad esempio l’adesione all’Alleanza Atlantica. Eppure, sia all’Europa orientale che ai Balcani è mancata l’esperienza mercantile e storicamente decentralizzata dell’occidente, allo stesso modo in cui questi Paesi non hanno conosciuto fino all’‘89 l’abbandono dell’oppressione dei regimi dittatoriali comunisti. Come ha asserito lo storico delle crociate Sir Steven Runciman, durante tutta la storia dell’Impero romano vi è stata una conflittualità latente tra oriente e occidente. Questa divenne palese quando l’impero occidentale crollò mentre il mondo ellenistico prosperò per un altro millennio. Le differenze furono acuite nel medioevo dalla divisione tra le chiese d’occidente e oriente, divisione ancora evidente nella linea che da Libano e Grecia risale fino alla Russia.
A differenza della divisione dell’area mediterranea tra oriente e occidente, quella tra Mediterraneo del nord e del sud non richiede di particolari sottolineature per essere resa evidente. Le diversità di esperienze sono visibili in questo momento nella dicotomia tra differenti livelli di sviluppo, nonché nella lotta latente, negli Stati musulmani, tra un socialismo laico, debitore per molti aspetti nei confronti dell’Europa, e un rinascente fondamentalismo islamico soprattutto dopo l’11 Settembre.
In poche parole, la regione mediterranea che appare unitaria geograficamente risulta profondamente diversificata: una zona di frontiera tra due, tre e (se si include anche Israele) addirittura quattro tradizioni culturali con i loro riflessi politici e strategici.
Nessuna analisi geopolitica può permettersi di ignorare queste peculiarità, poiché fanno parte di quelle regole del gioco che le iniziative di programmazione strategica devono rispettare per ambire ad una lungimiranza temporale. Come nessuna iniziativa politica può sottovalutare le diversità del bacino mediterraneo in ambito energetico, ambientale, demografico, sociale.
Dopo l’ultima guerra mondiale i rapporti tra Europa occidentale e regione del Mediterraneo sono stati contraddistinti da diverse fasi. La prima è stata caratterizzata dalla perdita dell’egemonia dell’Europa, a cui si sono sostituite le superpotenze che hanno dominato il periodo della guerra fredda. Conseguentemente la regione è divenuta uno dei principali teatri su cui si misurava l’equilibrio est-ovest. La sua importanza non era altrettanto rilevante di quella, cruciale, del fronte centrale europeo che attraversava la Germania, o di quella della Norvegia che controllava la via d’uscita della principale flotta sovietica con base a Murmansk. Tuttavia, in queste fasi alcuni Stati rivieraschi lanciarono la dottrina “Mediterraneo ai mediterranei” che, però, incontrò un’accoglienza moderata in quanto la situazione di stallo tra le superpotenze è stata via via tacitamente considerata come una garanzia per la stabilità della regione, oltre ad aver sostenuto di fatto diversi governi e persino offerto a singoli Stati lo spazio economico e politico all’interno del quale promuovere le iniziative da essi giudicate prioritarie.
Naturalmente per l’Europa il Mediterraneo non è importante solo perché costituisce uno dei fianchi della NATO, ma anche perché nei suoi confronti esiste una lunga tradizione di vicinato. Dal 1962 non esistevano più colonie nella regione, tuttavia i legami intessuti tra società, economie e culture degli scomparsi imperi, e quelli più antichi dovuti a semplici ragioni geografiche, non erano fragili come apparivano, ed ancor oggi svolgono un ruolo di primo piano nei rapporti economici e politici internazionali. I soli flussi commerciali dimostrano che molti di tali rapporti sono rimasti più stretti di quanto la “decolonizzazione politica” avrebbe potuto far presumere. Anzi, in alcuni casi sono addirittura rafforzati. L’intenso sviluppo economico del dopoguerra, basato su ingenti importazioni di petrolio a basso prezzo, ha fatto del Mediterraneo la porta di accesso al Golfo Persico e una importante area dal profilo della geopolitica dell’energia. Un ruolo cardine quindi quello del Mediterraneo per i rapporti est-ovest (al di là degli accordi tra NATO e Russia stipulati più di recente), per i rapporti con Paesi limitrofi appartenenti ad altre aree culturali di matrice islamica (aree molto estese e popolate), come pure per le linee di comunicazione con le regioni di produzione del petrolio.
Negli anni Cinquanta, mentre l’Europa iniziava a ritirarsi dalla regione, erano già in corso mutamenti che introdussero una fase totalmente nuova all’inizio del decennio successivo. Tali mutamenti erano essenzialmente il risultato della rinascita degli Stati del bacino Mediterraneo, favorita dalla ripresa economica postbellica. L’inquietudine nei confronti della guerra fredda suscitata da questa situazione acquisì un contenuto positivo, con la crescente speranza che la distensione avrebbe offerto nuovi margini di manovra. Rispetto al periodo della guerra fredda i governi locali si sentirono sempre più liberi di perseguire scopi autonomi e di ricercare nuovi partners, senza per questo ripudiare i rapporti privilegiati con una delle due superpotenze.
L’espansione economica dell’Europa occidentale offriva enormi sbocchi potenziali per le esportazioni attirando, inoltre, un numero crescente di lavoratori migranti dal sud e rivelandosi un elemento trainante per lo sviluppo dell’intera regione. Si avviò così il fenomeno migratorio che avrebbe condotto all’innesto di intere comunità musulmane in aree localizzate dei nostri Stati europei, fenomeno questo che oggi desta concrete preoccupazioni nelle analisi sulla sicurezza e sul nuovo terrorismo, e che richiede sicuramente una visione storicizzata e diacronica.
Anche grazie all’apporto di risorse e di alleanze mediterranee in quel periodo apparve, per la prima volta, il concetto di Europa come terza forza economica (ma non militare) tra le due superpotenze. Il rinnovato ruolo dell’Europa, però, non era quello di competere con le due superpotenze, sia perché la situazione di stallo conveniva un po’ a tutti, sia perché l’Europa era troppo vicina agli Stati Uniti (certamente più che in questo periodo) per ambire a costituirne una alternativa. Ciò che si verificò fu uno spostamento verso gli orientamenti politici filo-occidentali da parte della maggioranza degli Stati mediterranei, direzione verso cui in ogni caso una parte di loro propendeva. Visto che l’Europa non aveva, come ora del resto, le caratteristiche di una potenza militare, i rapporti con la regione mediterranea nacquero per amplificare uno sviluppo economico e sociale centrato sui problemi di natura regionale, dando meno rilievo alle alleanze difensive ma senza per questo rinunciare ad esse. Nessun governo voleva rimanere escluso da questa nuova potenzialità di alleanze, a partire dal governo greco nel 1960, fino a giungere agli accordi bilaterali con tutti i Paesi della regione (ad esclusione di Albania e Libia).
Tale processo fu visto con moderato favore e con attenzione da parte dell’Alleanza Atlantica e soprattutto dagli Stati Uniti, giacché numerose ragioni di ordine politico rendevano auspicabile un’impostazione globale. Una di queste ragioni era la consapevolezza che i rapporti tra Paesi del Mediterraneo avevano connotazioni regionali e non solo bilaterali. Inoltre le contraddizioni quasi inevitabili in un quadro non coordinato di rapporti bilaterali avrebbero potuto suscitare attriti e addirittura destabilizzare l’intera regione, conseguenza questa diametralmente opposta alle dottrine statunitensi sulla stabilità.
Il bacino del Mediterraneo, globalmente inteso, non ha attualmente la solidità delle società occidentali e l’indipendenza data dalle lunghe e consolidate tradizioni politiche che animano l’Europa centrale e settentrionale. Anche quando sono caratterizzati da dinamismo e prosperità, i Paesi mediterranei del sud e dell’area orientale sono obbligati a confrontarsi con una serie di problemi fonte di incertezze, instabilità, disordini, a volte terreno di coltura per il terrorismo: povertà diffusa, forte incremento demografico, disoccupazione giovanile, forti mutamenti sociali, dipendenze energetiche e degrado ambientale.
Alcuni esempi sono dati dai Paesi del Mashrak (Egitto, Giordania, Libano e Siria), economicamente orientati verso il Golfo Persico piuttosto che verso l’Europa. L’Egitto ha potuto in una certa misura sopperire alla mancanza di valuta grazie al petrolio, ai diritti di transito per il canale di Suez, al turismo, alle rimesse degli emigrati nei Paesi del Medio Oriente, agli aiuti degli Stati Uniti. Come è chiaro che gli introiti di Paesi come Algeria e Libia sono assicurati dai mercati mondiali dei prodotti energetici e non certo dall’Europa occidentale. In tutti questi Paesi emergono, però, fenomeni comuni: il primo e più ovvio è la riduzione dell’autosufficienza alimentare che colpisce gli Stati suddetti ma anche, ad esempio, Marocco e Tunisia, rendendo questi governi interessati a rapporti con l’Europa, vale a dire con la sponda superiore del Mediterraneo, che consentano di invertire o perlomeno arrestare questa tendenza.
Uno dei fenomeni ambientali che desta più attenzione negli analisti internazionali europei ma anche degli Stati Uniti è la desertificazione. Questo processo, sottraendo territorio abitabile ed economicamente uti-
lizzabile, spinge progressivamente sempre più a nord gli abitanti del Maghreb, fino a costringerli a superare il mare e giungere in Europa. Un fenomeno migratorio che se fino a prima dell’11 settembre era visto solo analizzando gli aspetti demografici, economici e culturali, ora rappresenta un flusso di masse musulmane talmente eterogenee al loro interno (arabi maghrebini integralisti, mediorientali, profughi palestinesi e curdi, ecc.) da meritare un costante e attento monitoraggio. Il ritmo dell’aumento delle zone aride e desertificate nei Paesi arabi dell’Africa nord-occidentale è allarmante, centinaia di migliaia di ettari l’anno. Già nel 1980 uno studio aveva rilevato che su oltre 100 mila chilometri quadrati della Tunisia meridionale, più di 12 mila chilometri quadrati venivano trasformati dall’uomo in deserto in meno di dieci anni. Nelle zone tendenzialmente aride del Mediterraneo meridionale la popolazione cresce sensibilmente e le conseguenze di questa esplosione demografica includono molti fattori che concorrono alla desertificazione: coltivazioni intensive, disboscamenti, distruzione della vegetazione, salinizzazione di vaste aree come conseguenza di errate strategie di irrigazione, e così via. In alcuni Paesi del Maghreb sono state registrate perdite di suolo superficiale a partire da 10 tonnellate/ettaro/mese, fino a 250 tonnellate/ettaro/mese ai limiti settentrionali del Sahara. Dai 30 ai 40 mila ettari di territorio vengono persi nel Mediterraneo ogni anno solo per fenomeni di salinizzazione o alcalinizzazione.
Ecco, quindi, che la questione ambientale diviene geopolitica, tanto da poter definire queste analisi come “geopolitica delle risorse ambientali”.
Secondo alcune stime, la popolazione dell’intero bacino del Mediterraneo potrebbe raggiungere nel 2025 i 500-600 milioni di abitanti, quasi il doppio rispetto gli anni Ottanta. Ma mentre fino agli anni Cinquanta i due terzi della popolazione erano concentrati nel nord del bacino, dalla Spagna alla Grecia, nel 2025 solo un terzo degli abitanti occuperà la parte settentrionale, a causa della concomitanza tra la crescita zero europea e l’alto incremento demografico dei Paesi arabi. Infatti, le tendenze di fertilità sono alla radice degli scenari geopolitici prospettici dell’intera regione: i livelli sono sotto la soglia di sostituzione della popolazione nel nord (2,1 bambini per donna in età fertile) mentre gli indicatori sono molto alti nell’area mediterranea del sud-est (5 bambini per donna). Le stime prevedono una stabilizzazione stazionaria della popolazione del sud-est (crescita zero) non prima della fine di questo secolo, ed anche la struttura di età della popolazione giocherà il suo ruolo in questi scenari (a fronte dell’invecchiamento del nord, il sud-est presenterà enormi masse giovanili, con problemi per l’educazione, la formazione e la creazione di nuovi posti di lavoro).
Questi fenomeni, come quello della desertificazione, solo apparentemente non collegati alle dinamiche delle masse islamiche e ai conseguenti problemi posti dall’apertura del nuovo fronte “terrorismo” per l’Europa e gli Stati Uniti, rappresentano sempre più un campo di studio e di approfondimento avanzato per l’analisi strategica internazionale.
Infatti proprio il tema della gestione strategica delle risorse ambientali offre numerosi spunti di riflessione correlati, in maniera molto stretta, ai nuovi scenari. Scenari dove il “fronte militare”, inteso in senso tradizionale, è scomparso, sostituito da qualcosa di strutturalmente differente. Per una serie di variabili come la globalizzazione, l’informatica, la finanza internazionale e così via, si è passati ormai da una “geopolitica degli spazi” ad una “geopolitica dei flussi”. In generale il territorio ha perduto quello che era il suo valore originario dal profilo strategico. Le forze militari vengono impiegate non più tanto per conquistare territori ma per garantire stabilità a quei flussi economici, energetici, informativi, che costituiscono le vere risorse, incluse le risorse naturali.
Il conflitto del Darfur è dovuto ai cambiamenti climatici, come ha scritto il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in un articolo apparso sul Washington Post nel giugno 2007. “Negli ultimi 20 anni – afferma Ban Ki-moon – il Sudan ha registrato un calo nelle precipitazioni, in parte dovuto al riscaldamento globale causato dalle attività umane. Agricoltori stanziali e pastori nomadi hanno convissuto pacificamente fino a quando siccità e mancanza di cibo hanno scatenato una tragedia di cui oggi siamo testimoni”.
Sul petrolio e sulle risorse energetiche si è scritto e detto già molto, ed è sufficiente un breve accenno. Basta ricordare il delicato gioco in corso in Medio Oriente, con protagonisti quali Arabia e Russia e un arbitro quale gli Stati Uniti. Sulla base infatti della dottrina Usa della “Full Spectrum Dominance”, la nuova strategia americana che guarda alla globalizzazione, viene superato il cosidetto “containment”, retaggio della guerra fredda. Attualmente i consumi mondiali di idrocarburi si aggirano sui 77 milioni di barili/giorno, e tra vent’anni aumenteranno di circa il 60 per cento, fino a giungere a 120 milioni di barili/giorno. L’aumento, però, interesserà in gran parte regioni come l’Asia, specificamente Cina e India. Un ipotetico blocco delle importazioni per un periodo superiore ad alcune settimane avvierebbe di certo un processo di recessione su scala mondiale. Gli Usa possono assorbire con le loro riserve strategiche (aumentate di recente da 600 a 800 milioni di barili) circa 60 giorni di blocco petrolifero, tenendo conto che essi dovrebbero non solo rifornire gli Stati Uniti ma anche il resto del mondo per evitare un collasso economico degli alleati.
Nessuno dei Paesi produttori dell’area è sufficientemente stabile, ed il profilo politico-strategico è quanto mai preoccupante alla luce della progressiva radicalizzazione delle popolazioni islamiche. Un processo questo se non favorito, perlomeno non ostacolato dai governi locali, i quali concendono sempre maggiori spazi (anche economici) alle organizzazioni più radicali in cambio di una tregua politica nei loro confronti. Una riflessione più analitica va indirizzata al ruolo dell’Arabia Saudita. In particolare agli accordi nati nel febbraio 1945 quando il Presidente americano Roosevelt, ritornando da Yalta a bordo di una nave da guerra insieme al re saudita Azis-al-Saud, stipulò l’accordo che garantiva protezione alla famiglia reale saudita in cambio di privilegi alle compagnie petrolifere degli Stati Uniti. Nacque così il ruolo di “last resort” svolto dai sauditi negli anni anche all’interno del cartello Opec, dove si ponevano come ultimo regolatore del mercato in stretto accordo con il Dipartimento dell’Energia americano, dissuadendo gli altri Paesi produttori con un’arma del peso strategico di una atomica: una riserva di 3 milioni di barili/giorno di capacità produttive inutilizzate. Un aumento della produzione avrebbe determinato il crollo dei prezzi e di intere economie del Golfo. Dopo l’11 settembre gli scenari sono mutati.
L’Arabia non riveste più quel ruolo di affidabilità, e molte sono state le accuse, neppure tanto velate, di complicità di esponenti wahabiti con il terrorismo e il suo proselitismo.
Analoghe riflessioni possono essere compiute per le risorse ambientali, come ad esempio l’acqua. Proprio in Medio Oriente si sono registrate le tensioni relative al controllo del bacino del Wazzani in Libano, a pochi chilometri dal confine israeliano. Dal Wazzani e dall’altro fiume libanese Hasbani, che affluiscono nel Giordano, lo Stato israeliano trae circa un terzo del proprio fabbisogno idrico e dopo il ritiro dal Libano meridionale, avvenuto nel maggio 2000, la gestione della risorsa acqua in questi territori è divenuta via via più complessa.
Ma già nel 1989 l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Boutros-Ghali, allora Ministro degli esteri egiziano, osservò, riferendosi ai problemi idrici, che “la sicurezza nazionale dell’Egitto è nelle mani di almeno altri otto paesi africani”. Questa frase chiarisce bene quello che rappresenta l’acqua non solo come risorsa ambientale ma anche come fattore economico e geopolitico, e quale sia il potere che i paesi che si trovano a monte dei fiumi esercitano sui loro vicini a valle. La minaccia di una guerra per il controllo di territori ricchi di petrolio non rappresenta niente di nuovo, ma negli anni a venire l’acqua potrebbe accendere più conflitti politici dell’oro nero. In alcune regioni del mondo, la scarsità di acqua potrebbe diventare quello che la crisi dei prezzi del petrolio è stata negli anni Settanta: una fonte importante di instabilità economica e politica. Quasi il 40 per cento della popolazione mondiale dipende da sistemi fluviali comuni a due o più paesi. L’India e il Bangladesh disputano sul Gange, il Messico e gli Stati Uniti sul Colorado, la Repubblica Ceca e l’Ungheria sul Danubio.
Lasciando momentaneamente da parte il bacino mediterraneo, un’altra zona calda emergente è l’Asia centrale, dove 5 ex repubbliche sovietiche si dividono due fiumi già troppo sfruttati, l’Amu Darja e il Sjr Darja. È soprattutto nel Medio Oriente, tuttavia, che le dispute sull’acqua stanno modellando gli scenari geopolitici e i futuri economici. L’Egitto è un esempio dei dilemmi e delle incertezze che devono affrontare i paesi con una rapida crescita demografica e fonti di approvvigionamento idrico molto limitate sul proprio territorio nazionale. Circa 60 milioni di persone in Egitto dipendono quasi interamente dalle acque del Nilo, ma le origini del fiume non si trovano all’interno dei confini del paese. L’85 per cento del Nilo è generato dalla piovosità in Etiopia e scorre come Nilo azzurro nel Sudan prima di entrare in Egitto. La parte restante dipende dal sistema del Nilo bianco, che ha le sue sorgenti in Tanzania, al lago Vittoria, e si congiunge al Nilo azzurro nei pressi di Khartoum. Il fiume più lungo del mondo rifornisce in tutto nove nazioni, e in Egitto arriva per ultimo. Sulla base di un accordo sottoscritto nel 1959 con il Sudan, l’Egitto ha diritto ogni anno a 55,5 miliardi di metri cubi d’acqua del Nilo, mentre al Sudan ne sono stati assegnati 18,5. Per soddisfare il suo fabbisogno l’Egitto integra l’acqua del Nilo con piccole quantità di acque freatiche, con l’acqua del drenaggio agricolo e con acque di scolo municipali trattate. Nel 1990, ha avuto una disponibilità di 63,5 miliardi di metri cubi di acqua. Sfortunatamente, anche secondo le proiezioni più modeste, la domanda idrica egiziana salirà a 69,4 miliardi di metri cubi per la fine di questo decennio. Il valore crescente dell’acqua, le preoccupazioni concernenti la qualità e la quantità di approvvigionamenti, oltre che le possibilità di accesso, accordate o rifiutate, hanno dato luogo a un concetto di geopolitica delle risorse idriche. A questo riguardo, come si ricordava, l’acqua si avvicina al petrolio e a certe ricchezze minerali in quanto risorsa strategica. La sua rarità e il suo valore crescente porteranno sempre più a delle politiche dell’acqua e a conflitti internazionali che potranno attribuire ai diritti su quest’ultima un’importanza di primo piano.
Tutto il Medio Oriente si trova a fronteggiare una scarsità d’acqua che crea un complesso di problemi sempre più gravi. La Turchia e la Siria hanno firmato nel 1987 un protocollo che garantisce alla Siria un getto minimo di 500 metri cubi al secondo, circa la metà del volume del fiume Eufrate al confine. Ma nei decenni gli scenari sono mutati, ed ora la Siria vuole aumentare questa quota, una richiesta che la Turchia ha sinora rifiutato. Una possibile carta vincente in mano siriana è il fatto che la Turchia ha bisogno di un accordo sull’acqua con i suoi vicini più a valle per assicurarsi il finanziamento della Banca Mondiale e di altre agenzie internazionali di prestito necessario a portare a termine il suo Southeast Anatolia Project, il cui costo è stato valutato intorno ai 29 miliardi di dollari. I benefici che la Siria e l’Iraq ricaverebbero da un accordo che fornisca sicurezza idrica sono evidenti. Calcoli relativi ai futuri sviluppi demografici della regione (il tasso di crescita medio annuo è pari al 2,2-3,7 per cento) ed alla sua evoluzione climatica ed idrologica, sembrano promettere insolubili scompensi nel rapporto tra domanda e offerta delle risorse idriche degli anni a venire, con conseguenti tensioni socio-politiche a livello interno e internazionale.
L’importanza di tale risorsa è pure illustrata dalla sua inclusione in uno dei “cesti” in cui si articola il programma del negoziato multilaterale per il Medio Oriente che, esteso anche a soggetti non appartenenti alla regione né coinvolti attivamente nel processo di pace bilaterale, come l’Europa, viene affrontando da tempo tematiche in vario modo collegate con tale processo. La questione acqua è, ad esempio, tra i temi principali in agenda, nel caso di ripresa del negoziato tra Israele e l’Autorità Palestinese come auspicato dall’amministrazione Obama. Alle controversie internazionali, che non interessano il solo versante arabo-israeliano, ma si estendono alla stessa dimensione dei rapporti inter-arabi, si sommano preoccupazioni legate ai bisogni interni delle popolazioni.
Basti pensare che nel Medio Oriente più del 70 per cento delle risorse idriche è destinato alle colture irrigue, benché il contributo dato dal settore agricolo alla produzione ed occupazione nei diversi paesi sia declinante. L’obiettivo dell’autosufficienza alimentare, ma anche la presenza di forti gruppi di pressione a tutela degli interessi degli agricoltori, oltre che motivazioni secondarie, quali l’esigenza di contenere fenomeni di inurbamento potenzialmente destabilizzanti, sono tutti fattori che spiegano simili scelte dei governi in materia di allocazione delle risorse idriche.
Gli sforzi per raggiungere un accordo sulla divisione dell’acqua nel bacino del Giordano risalgono agli inizi degli anni Cinquanta. Nel 1953 una industria statunitense abbozzò un piano idrico per il sistema del Giordano, che fu mandato in Medio Oriente tramite un inviato speciale del Presidente Eisenhower. Dopo due anni e quattro tornate di difficili e nervosi negoziati, finalmente tutte le parti in causa si accordarono sui dettagli tecnici del progetto. Come ha scritto Miriam Lowi, esperta della situazione idrica mediorientale presso la Princeton University, i colloqui si interruppero per ragioni politiche, principalmente a causa del fatto che i paesi arabi non intendevano aumentare in alcun modo le prospettive di sviluppo del nuovo Stato di Israele. I negoziati cessarono nel 1955. Da allora si sono avuti diversi tentativi di mediazione in merito a questioni specifiche, ad esempio la diga sullo Yarmuk, ma non si è arrivati a una soluzione delle dispute idriche nel bacino del Giordano.
Sulla base di una piena consapevolezza e considerazione della “geopolitica dei flussi” e, potremmo dire, dei riflessi per la sicurezza di una “geopolitica dell’ambiente”, alcune organizzazioni internazionali si stanno muovendo da diversi anni nella direzione di analisi e intervento in materia di risorse ambientali strategiche, ad esempio con il programma della NATO “Science for Peace and Security”, di cui uno degli elementi più importanti sono le attività nel settore “Environmental Security”. Unitamente al tradizionale “hard power” in senso militare, saranno sempre maggiori gli interventi “soft power” destinati ad azioni regionali e locali per problemi ambientali magari non immediati, ma che possono rivelarsi generatori di conflitti negli anni o nei decenni a venire come, ad esempio, proprio la questione idrica o la desertificazione.
Sarà esattamente la capacità di analisi strategica nel medio e lungo termine la vera risorsa della geopolitica globale, lo strumento essenziale per i paesi e le alleanze che vorranno giocare nella leadership mondiale un ruolo da protagonisti e non da comprimari.



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