GNOSIS 3/2010
APPENDICE La ‘DECEPTION’ L’inganno nell’analisi delle informazioni e nella strategia un pericolo e un’opportunità |
Daniele ZOTTI |
Le origini degli studi sulla deception L’interesse per le operazioni di deception militare nasce, nel mondo anglosassone, dopo la Seconda Guerra Mondiale e si collega alla riflessione sulla natura e l’organizzazione delle operazioni di inganno messe in atto dagli Alleati contro le forze tedesche e che avevano lo scopo di favorire le operazioni anfibie che scandiscono il progressivo assalto alla fortezza continentale del Terzo Reich, dallo sbarco in Nord Africa a quello in Sicilia, a Salerno e in Normandia. Se fino all’inizio degli anni Sessanta queste ricostruzioni storiche rappresentano le principali pubblicazioni sulla deception nelle operazioni militari, a partire dalla fine del decennio e nel corso degli anni Settanta e Ottanta cominciano a comparire studi incentrati su un approccio più vicino alla metodologia delle scienze sociali. Si sviluppa dunque un tentativo di rintracciare le regole che possano costruire una teoria dell’inganno scientificamente soddisfacente, capace dunque di astrarre dall’esperienza storica le indicazioni per costruire un paradigma interpretativo generale, non vincolato alle specificità delle singole operazioni e suscettibile di essere utilizzato per analizzare le operazioni d’inganno nell’ultima parte della Guerra Fredda. È in questa fase che il numero di pubblicazioni cresce e apre un filone più vicino agli studi di intelligence, in particolare al problema dell’analisi delle informazioni e dello studio della sorpresa nelle operazioni militari. (2) In questo contesto si inserisce il lavoro di Barton Whaley, che cerca di fornire a future ricerche una base di dati e casi raccolti dalla storia militare del Novecento, fino alla Guerra dei sei Giorni. (3) I dati raccolti da Whaley sono molto schematici, e susciterebbero perplessità ad un esame storico, che li riterrebbe completamente de-contestualizzati. Il proposito di Whaley è però quello di ricercare regolarità e discontinuità nei modelli di deception rintracciati negli esempi storici, per avviare in seguito la ricerca di una teoria generale che ne spieghi il funzionamento. La serrata competizione con i servizi d’intelligence dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, e in special modo la necessità di confrontarsi con la maestria sovietica nella cosiddetta maskirovka (che comprende il camouflage, la disinformazione e l’inganno nelle operazioni militari e d’intelligence), rende gli americani sempre più sensibili rispetto al problema della propria vulnerabilità alla deception sovietica e alla difficoltà di penetrare il sistema nemico. Questa circostanza espande il campo dell’indagine dei meccanismi dell’inganno nell’epoca del confronto bipolare. Tracce di questa riflessione si trovano nel testo di Gooch e Perlmutter, edito nel 1982. (4) Ma già all’inizio degli anni Settanta Graham Allison si poneva una serie di problemi sulla percezione delle intenzioni dell’avversario e sulla manipolazione di questa percezione, nel quadro della sua rassegna dei modelli di analisi dei processi decisionali collegati all’esame della crisi dei missili a Cuba. (5) Il fatto stesso che molti dei testi appena citati, che hanno anche quarant’anni, siano stati ripubblicati negli ultimi otto, indica come le fonti cui attingere per riordinare le idee e riprendere la ricerca sull’inganno siano assai limitate e si renda necessario riallacciarsi ai risultati raggiunti nel periodo della Guerra Fredda per tentare di adattarli alle circostanze dei conflitti che travagliano oggi il sistema internazionale. Il rischio che si corre nel recuperare quanto scoperto o teorizzato finora è che si riprendano anche metodi di rappresentazione della realtà che appartengono a quella fase storica e che oggi potrebbero essere più un impedimento che una risorsa. Vediamo per sommi capi come alcuni dei principali autori anglosassoni in tema di deception hanno finora impostato la definizione e le caratteristiche dell’inganno. Il già citato iniziatore di uno studio sistematico della deception, Barton Whaley, fornisce due formulazioni del funzionamento degli stratagemmi: la prima nel suo primo libro, Stratagem, e la seconda tredici anni dopo, in un saggio pubblicato nel sopra menzionato testo di Gooch e Perlmutter. Nella prima impostazione l’inganno si sviluppa secondo una logica lineare: il deceiver cerca di indurre il target a scegliere, tra le sue opzioni di azione, quella che favorisce i propri piani, facendogli credere che trarrà un vantaggio da quel determinato corso d’azione. La persuasione/manipolazione del target avviene attraverso gli stratagemmi, che Whaley organizza in tre principali categorie: 1 diversions – diversivi, suddivisi in feints (finte, che comportano un contatto col nemico) e demonstrations (dimostrazioni, che non prevedono contatto diretto) per distogliere il nemico dal vero obiettivo dell’operazione, 2 camouflage – camuffamento, distinto in dissimulativo, per nascondere le proprie unità e simulativo, per fornire al nemico falsi bersagli o per indirizzarlo verso unità fittizie – e 3 disinformation – ovvero l’attività di veicolare informazioni vere e rilevanti (signals), irrilevanti (noise) o false e rilevanti (disinformation se la trasmissione è deliberata, misinformation se la trasmissione è accidentale) all’intelligence o ai decisori nemici. Un ulteriore concetto che Whaley introduce e che verrà ripreso dalla gran parte degli autori successivi è quello di channels, cioè i canali attraverso i quali l’informazione viene veicolata. Le caratteristiche e le modalità di funzionamento dei channels sono molto importanti per capire come, in quali tempi e con quali esiti il nemico recepisce le informazioni manipolate che gli sono state veicolate. Nel complesso della sua prima teoria, Whaley è interessato ad enucleare i concetti fondamentali che scandiscono il processo logico dell’inganno e nel farlo cerca di individuare differenti categorie e modalità in cui ciascuna fase dell’inganno può essere suddivisa. Infine, sottolinea l’importanza del rapporto tra simulazione (del falso) e dissimulazione (del vero) come principio fondamentale di successo riscontrato in tutti i casi storici di impiego dell’inganno. Nella successiva riorganizzazione della sua riflessione sulla deception, Whaley riprende proprio la coppia di concetti antinomici simulazione/dissimulazione e vi costruisce attorno una tassonomia, cioè un’ordinata disposizione di concetti che si articola come segue: la dissimulazione si declina in tre forme, in ordine decrescente di efficacia, cioè masking – nascondere le proprie caratteristiche (Sun Zi avrebbe detto: la propria forma) – repackaging – mutare la propria forma per farla somigliare ad un’altra – e dazzling – confondere la propria forma e la percezione che ne riesce ad avere il nemico. La simulazione invece si struttura, anch’essa in ordine d’efficacia decrescente, in mimicking – l’imitazione di un’altra forma, nota al nostro nemico – inventing – la creazione di una forma interamente nuova e sconosciuta al nemico – e decoying – la creazione di una forma alternativa che divida e confonda l’attenzione del nemico, aumentandone l’incertezza. A questa formulazione Whaley aggiunge uno schema, sotto forma di diagramma di flusso, che cerca di identificare i passaggi fondamentali della pianificazione e dell’esecuzione di un’operazione di inganno. Nello spazio di questa breve rassegna non è possibile entrare nei dettagli di questa e delle altre teorie sulla deception, ma è possibile anticipare una conclusione generale che si estende a tutti gli autori anglosassoni presi qui in considerazione: il nemico è, in modo più o meno accentuato in tutte le differenti impostazioni dei diversi autori, un oggetto pressoché passivo dell’attività di pianificazione e di esecuzione dell’inganno, e la principale preoccupazione di tutta la “scuola anglosassone” sulla deception è che le percezioni del nemico siano correttamente registrate e interpretate perché questo – quasi automaticamente – faccia ciò che il piano prevede: ovvero sia ingannato e sconfitto. Anche Daniel e Herbig (6) si cimentano con una classificazione degli scopi e delle modalità di attuazione dell’inganno e lo fanno individuando un’articolata e non sempre convincente tassonomia incardinata sulla distinzione tra operazioni di deception che incrementano l’ambiguità (ovvero l’incertezza) del bersaglio riguardo la situazione in cui si trova a decidere e ad agire (A-type deceptions) e operazioni che incrementano la determinazione del bersaglio a scegliere l’opzione che il deceiver preferisce, attraverso la manipolazione (misleading) delle sue percezioni e valutazioni (M-type deceptions). Benché si apprezzi lo sforzo di formalizzare i concetti fondamentali di una teoria dell’inganno, il livello di astrattezza di queste impostazioni è tale da comprometterne, come spesso accade con le rappresentazioni squisitamente accademiche della realtà, anche la più elementare forma di applicazione pratica. Anche quando il tema della deception è trattato da illustri e celebrati teorici dell’intelligence come Michael Handel, il livello di astrazione formale resta molto elevato. Handel adotta un approccio che si concentra sul problema dell’inganno nella raccolta e nell’analisi delle informazioni da parte delle agenzie d’intelligence. Il livello di analisi è dunque quello strategico, mentre gli altri autori si sono soffermati sul livello tattico e operativo. Handel collega la deception alla dissimulazione (in senso passivo) delle proprie capacità ed intenzioni e alla manipolazione (in senso attivo) della percezione che il nemico ha di tali capacità e intenzioni. Anche l’antropologa Myrdene Anderson propone un particolare approccio sistemico allo studio della deception, basato sulle caratteristiche di scambio di informazioni tra l’ingannatore (sender) e l’ingannato (receiver). Il modello che ne ricava le consente di sviluppare l’analisi del rapporto tra l’inganno (che definisce come l’invio di informazioni distorte) e la segretezza (cioè la soppressione di informazioni): a seconda che il passaggio di informazioni sia intenzionale o no, che le informazioni siano credute o meno e che il destinatario reagisca in senso favorevole o no alle sollecitazioni del sender, viene costruita una matrice dei risultati dell’interazione che rende conto della possibilità dell’ingannatore di sospendere o continuare e incrementare lo sforzo di inganno. (7) A fianco di questi autori si potrebbero citare alcuni altri, ma ben poco si aggiungerebbe all’impostazione generale dell’inganno che hanno elaborato gli anglosassoni. È piuttosto da rilevare che in molti casi la formulazione di nuove tassonomie, la disarticolazione dei concetti in filamenti di idee e di definizioni sempre più eterei, l’invenzione di parole su cui far valere un copyright intellettuale, tutto ciò risponde soprattutto all’esigenza che molti accademici hanno di ritagliarsi una teoria cui legare il proprio nome, e tale da consentire loro di presidiare una nicchia di sapere accademico specialistico, cui spesso è collegabile un filone di pubblicazioni dedicato. Un altro approccio al problema dell’inganno è quello psicologico. (8) I migliori risultati in questo senso si sono ottenuti quando ci si è concentrati sul problema delle trappole cognitive, cioè di quei meccanismi di ragionamento che ci inducono a ricavare dalle informazioni che raccogliamo una serie di deduzioni o di supposizioni che sono logicamente fallaci, suscettibili di produrre una scorretta valutazione complessiva della realtà e una selezione delle opzioni di azione disponibili che si dimostra più o meno sbagliata e non sostenuta da fatti verificati o da processi di funzionamento del reale che siano pienamente compresi. Il problema delle trappole cognitive rinvia a problemi di metodologia dell’analisi, e, in generale, di epistemologia, che esulano dal nostro discorso, ma richiama la possibilità di sfruttare le debolezze cognitive dell’uomo (l’analista) e delle sue organizzazioni (le Agenzie d’intelligence) per mettere in atto operazioni di deception a vari livelli e di differente complessità. I limiti della concezione americana della deception Nei fatti, il tipo di impostazione che gli americani stanno dando alla riflessione sul ruolo e il funzionamento dell’inganno rischia di influenzare e di limitare gli sforzi di ricerca che si stanno facendo in altri paesi. L’approccio anglosassone presenta, come si è visto, forti limiti: l’aspirazione a dare un fondamento scientifico alla teoria della deception, e quindi conforme alla definizione accademica delle metodologie delle scienze sociali, li conduce a esasperare alcuni concetti e a fornire un quadro spesso eccessivamente semplificato del modo in cui può funzionare un’operazione di inganno. Il ricorso ai princìpi della Teoria dei Giochi – in taluni casi esplicito, in altri più indiretto – rende la riflessione molto schematica ed è determinato prevalentemente dalla necessità di collegarsi ad una teoria tuttora prevalente nelle accademie americane, e che dunque fornisce l’aura della legittimazione scientifica, piuttosto che dall’impegno di indagare con efficacia i complessi meccanismi dell’inganno. Un esempio si ricava dal cosiddetto ciclo della deception che – in modo simile al concetto di “ciclo dell’intelligence” – viene elaborato per mettere in evidenza le procedure e le fasi di allestimento di un’operazione d’inganno. La bontà esplicativa dello schema a lato rischia di confinare la riflessione sull’inganno ad una dimensione che gli americani padroneggiano assai bene – quella dell’organizzazione, comando e controllo delle operazioni – ma che tende a fornire un’immagine artificiosamente chiara e netta della situazione decisionale e delle condizioni di pianificazione e di attuazione delle operazioni d’inganno. Oltre a ciò, è utile notare che i due autori del modello sopra riportato, Waltz e Bennett, sono due ingegneri elettronici che hanno raccolto nel loro testo gran parte delle teorie e degli sforzi esplicativi sull’inganno elaborati dagli altri autori anglosassoni, per poi formulare un loro paradigma e impostare le linee generali di un pacchetto di strumenti informatici che possa aiutare gli operatori della deception e della counterdeception nella loro attività di pianificazione sia di operazioni “offensive” sia di sistemi e procedure di protezione dall’inganno altrui. Questo paradigma si articola su quattro concetti: truth (le informazioni e i dati veri), denial (il complesso delle azioni e delle procedure adottate per impedire al nemico l’accesso alle informazioni e ai dati veri), deceit (le informazioni e i dati falsi forniti al nemico), misdirection (identifica dove e quando l’attenzione del bersaglio si appunta, su quali dati e informazioni).
La combinazione di questi quattro concetti che gli autori organizzano, ancora una volta, in una matrice. Tuttavia, Waltz e Bennett tendono ad aggiungere ai limiti già segnalati un altro elemento pericoloso: l’idea che sia possibile sviluppare un unico e universale supporto tecnologico che, accuratamente programmato e appropriatamente utilizzato, possa sopperire ai limiti degli analisti umani e automatizzare almeno una parte del processo di analisi delle informazioni, alla ricerca degli indicatori dell’inganno perpetrato dal nemico o per verificare che l’operazione da noi avviata sia stata correttamente attuata. L’impiego della tecnologia non è qui giudicato negativamente, ma è opportuno ricordare che gli americani tendono ad associarvi una caratteristica ulteriore: la sostituzione funzionale del discernimento umano. La tentazione della semplificazione dei problemi attraverso teorie semplicistiche e tecnologie semplificatorie può innescare una pericolosa sindrome di superiorità e un insidioso compiacimento intellettuale (complacency e smugness, come la chiamano i nostri anglosassoni): entrambi sono elementi essenziali dell’auto-inganno e costituiscono un eccellente viatico per il disastro. Tanto per darne una prova, nessun autore sembra avere le idee molto chiare su cosa si debba intendere con feedback in relazione allo schema sopra riportato o ad altri sostanzialmente simili, salvo accennare all’intercettazione e decrittazione dei messaggi nemici, che confermino la ricezione delle informazioni del deceiver e l’adeguamento ai suoi piani da parte del nemico: il problema è che le stesse superiori capacità occidentali nella SIGINT possono far passare in secondo piano la consapevolezza che il contenuto di ciò che tanto abilmente intercettiamo può essere stato manipolato proprio per ingannarci (chicken-feeding per usare ancora l’espressione anglosassone). Oltre a ciò, si pone in evidenza un ulteriore problema: gli americani distinguono piuttosto nettamente, almeno sul piano dottrinale, tra deception operations, che hanno come obiettivo la struttura decisionale e di comando nemica, e psychological operations, che, nell’ambito delle information operations, hanno come obiettivo le élite del nemico e specifici settori della popolazione. Allo stesso modo discriminano funzionalmente la deception dalla counterdeception, ma adottano anche una separazione organizzativa tra chi si occupa dell’una e chi dell’altra. Il problema della sicurezza nelle operazioni d’inganno, cioè di mantenere il segreto sui piani di deception, diventa, notoriamente, un elemento che impedisce di misurare e valutare il rischio che l’operazione sia stata compromessa da una falla non direttamente collegata all’operazione stessa. La compartimentazione delle differenti funzioni è certamente importante, ma nel caso della deception rischia di far poggiare su una base assai fragile le complesse operazioni in cui questa si esplica e soprattutto di non far pervenire ai pianificatori informazioni che, magari indirettamente, segnalano dettagli rilevanti proprio sul feedback. (9) Il rapporto tra strategia e inganno Nella visione americana, che diventa o diventerà, attraverso la NATO, quella europea, la deception è un supporto alle operazioni militari convenzionali e non lo strumento di attuazione di una strategia. Si esplicita e si accetta dunque una divaricazione tra le operazioni di inganno e le operazioni militari convenzionali. La strategia segue perciò la logica (lineare) delle operazioni convenzionali, mentre la deception le fornisce qualche opportunità addizionale di ridurre la capacità di resistenza del nemico. Esistono tuttavia, come si dirà di seguito, altre culture – quella orientale, ad esempio – in cui la strategia si articola operativamente nella concatenazione degli stratagemmi: la deception non è ancillare alla strategia, è la strategia in atto e si traduce in un piano immaginifico di azione e di manipolazione del nemico. L’impostazione è molto differente, perché richiede al pianificatore militare e al comandante che ha l’autorità di approvare il piano di “pensare per stratagemmi” e di interpretare in questo modo sia la propria azione che quella del nemico. La deception non è quindi un’attività burocratica che possa essere gestita secondo l’idea di una buona ed efficiente amministrazione. Se accettiamo l’idea che la strategia vada intesa come un piano d’inganno flessibile, intelligente e solido, l’analisi delle informazioni che la sorregge non è solo il frutto di un’organizzazione di staff efficiente e professionale, ma richiede una serie di qualità professionali e di caratteristiche personali dei pianificatori che spesso sono molto eccentriche rispetto al curriculum standard di un buon ufficiale di stato maggiore o di un bravo analista d’intelligence. Fantasia e immaginazione, capacità d’improvvisazione, una cultura fatta di molte, ponderate e sedimentate letture, esperienza sul campo, e insieme concretezza mista ad una sobria capacità di astrazione, acume logico e investigativo, dimestichezza col mondo, come anche senso dell’umorismo, spirito di osservazione (coup d’œil, come diceva Clausewitz), prontezza di risposta al mutare delle circostanze e soprattutto un forte senso del tempo e della realtà effettuale delle cose, tutte queste qualità rimandano a quel tradecraft, a quella sapienza astuta (metis, come la chiamavano i greci) che è piuttosto distante dall’imponente e anonima burocrazia che molti studiosi americani sembrano avere in mente quando trattano di deception. Si veda come segmentano un processo creativo che dovrebbe interagire con la complessa realtà della guerra.
L’interesse degli americani è sostanzialmente concentrato sulla possibilità di allestire, all’interno o in parallelo rispetto all’enorme apparato dell’intelligence statunitense – organizzata su criteri industriali più che “artigianali” – un analogo apparato di deception e counterdeception, sorretto da ampie risorse e dotazioni tecnologiche sofisticate. L’idea – assai rischiosa – è che le dimensioni di un apparato dedicato e l’ampia disponibilità di mezzi tecnologicamente avanzati siano di per sé garanzia di successo. L’uso dell’inganno, invece, è in se stesso un’abilità che può richiedere una quantità di risorse materiali molto limitata, a volte incredibilmente ridotta, soprattutto se comparata ai risultati che si possono ottenere, e in particolare proprio contro un nemico che disponga proporzionalmente di molte risorse materiali e dell’ingombrante burocrazia che le gestisce. Le risorse immateriali dell’inganno sono invece molto sofisticate e difficili da reperire, da assemblare e da utilizzare. Il rischio di presumere che le risorse materiali rendano disponibili implicitamente quelle immateriali è molto pericoloso. La logica che informa l’idea americana sulla deception è pertanto strettamente funzionale al modo in cui sono organizzate e comandate le forze armate e l’intelligence americane, e tutti gli sforzi di teorizzare la deception e di delinearne una dottrina d’impiego esaminati fin qui sono svolti all’interno di questa logica. La visione americana della guerra e della strategia rappresenta il punto più avanzato – o, forse, solo più pubblicizzato – del pensiero militare occidentale e di questo porta tutti i segni distintivi, tutti gli elementi di forza e tutte le caratteristiche di debolezza. Nel pensiero militare occidentale ha storicamente prevalso un’idea della strategia in cui il piano di azione è semplicemente il raccordo tra i mezzi a disposizione e gli obiettivi da raggiungere, nel contesto di uno spazio definito e di un tempo determinato. Tutte le informazioni raccolte per elaborare il piano d’azione – e l’importanza dell’intelligence militare nella pianificazione e realizzazione delle operazioni è un’acquisizione sorprendentemente recente nell’organizzazione delle attività di stato maggiore – sono finalizzate ad un più efficace impiego delle risorse nell’attuazione del piano stesso. Il rapporto tra mezzi e fine è molto complesso e gran parte di ciò che pensiamo di conoscere e di padroneggiare nell’uso di questi concetti è illusorio. La definizione dello scopo di un’operazione è spesso assai più ambigua di quanto non si riconosca e mai è recepita allo stesso modo da tutti coloro che hanno parte nel processo decisionale. I mezzi, poi, possiedono una loro specifica logica di utilizzo che ne condiziona il funzionamento e le possibilità di impiego. Questo è tanto più rilevante quando i mezzi sono persone. Il fine, poi, si articola, si moltiplica e si dispone in modo complesso rispetto sia al piano della strategia che alla realtà degli eventi. Lo stesso Clausewitz fa ricorso al concetto di “subordinazione progressiva degli scopi”, a causa della quale “la differenza tra il mezzo iniziale e lo scopo finale aumenta sempre più” (10) . La logica occidentale dunque stabilisce un rapporto lineare tra mezzi e fine: in esso le nostre azioni vengono messe in ordine – temporale e causale – in vista dello scopo da conseguire. Quest’ordine, tuttavia, esiste forse nella nostra mente, ma non nella realtà. Il procedimento conduce dunque ad un’inversione del rapporto, cioè a sovrapporre il piano d’azione alla realtà e ad organizzare quest’ultima in modo che si uniformi ad esso, e quindi produca lo scopo finale che ci siamo scelti. Una prospettiva differente Per comprendere le implicazioni di questo discorso, possiamo usare le parole di un filosofo e sinologo francese, François Jullien, che ci introduce a prospettive differenti da quella occidentale, in modo da poter meglio cogliere, per differenza, le caratteristiche del nostro modo di pensare e di agire: “Ora, incontriamo in Cina un pensiero dell’efficacia che, non proiettando nessun piano sul corso delle cose, non deve nemmeno considerare la condotta nell’ottica mezzi-fine: quest’ultima, di conseguenza, risulta non da una applicazione (la teoria predefinita che si sovrappone al reale, in modo da potere in seguito ricalcarlo su di essa), ma piuttosto da uno sfruttamento (mettendo a profitto il potenziale implicato in una situazione data)“ (11) . Quando si arriva a parlare di inganno, ovvero di manipolazione non soltanto delle nostre azioni sul reale, ma delle percezioni che il nemico (o il nostro alleato) ha del reale e del suo modo di intraprendere azioni collegate a tali percezioni, le riflessioni del filosofo acquistano un’urgente concretezza. Quando Jullien parla del potenziale di situazione, ci sta sollecitando a “servirci del reale giocando d’astuzia con esso – non tanto a giocare d’astuzia con gli altri, cosa che a noi è sempre parsa il colmo dell’abilità [...], quanto a giocare d’astuzia con la situazione, contando sulla logica del suo svolgimento: per lasciare accadere l’effetto – e dunque senza aver bisogno di fare sforzo e di prodigarsi – ed insieme per evitare ogni crisi di rigetto nei suoi confronti, rendendolo tollerabile” (12) . Questo diverso rapporto con il reale e con il nostro modo di agire e di non agire in esso è fondamentale per elaborare una dottrina dell’inganno, sia nelle operazioni militari che in quelle d’intelligence, che si distingua dall’approccio americano e, più in generale, anglosassone. Per poter sfruttare il potenziale di una situazione che si determina nella realtà è necessario conoscere i meccanismi e i processi che quella situazione hanno generato e governano. In questo senso, le informazioni che si raccolgono non servono solo o principalmente a scoprire le capacità e le intenzioni del nemico, ma ad investigare le correnti di eventi che possono sospingere sia noi che i nostri avversari verso esiti favorevoli o disastrosi. In questa prospettiva, la raccolta e l’analisi delle informazioni sono – in modo ancora più determinante di quanto abitualmente si dica – la necessaria premessa e il costante sostegno alla strategia. Dinanzi ad una realtà mutevole e impossibile da governare, cioè da dirigere autoritativamente, l’inganno diviene l’articolazione operativa della strategia e non una semplice aggiunta, un supplemento occasionale o un accessorio ricercato. L’inganno non presuppone semplicemente una conoscenza che è negata al nemico o all’avversario, cioè quella che nella Teoria dei Giochi si chiama un’informazione privata, ma richiede che questa conoscenza sia compresa nei suoi molteplici rapporti con la realtà, nei suoi assunti, nelle sue implicazioni e nelle sue possibilità di sviluppo e di trasformazione. La conoscenza necessaria alla deception è, in linea generale, una conoscenza già molto elaborata, sofisticata, estesa e raffinata. È il frutto di un processo di analisi molto complesso che la produce e la definisce: sulla base di questo processo di analisi, della qualità dei suoi strumenti, del tempo impiegato per completarlo, delle caratteristiche delle informazioni che sono state utilizzate, si può dire se, come e a quali condizioni, la conoscenza che esso produce è base solida per costruire un piano di deception. Conclusioni Questa riflessione ci fa capire che un concetto molto legato a quello di deception, e che non si ricava da una semplice indagine etimologica né da una rassegna di esempi storici, è quello di controllo. L’inganno è un fattore di controllo dello spazio e del tempo di azione sia dell’ingannatore che dell’ingannato, ed agisce sul numero, sulla probabilità e sull’intensità delle possibilità di determinazione e di non determinazione della realtà che in tale spazio e tempo risiedono. In questa impostazione, esso diviene uno strumento non solo di riduzione del rischio, ma anche di riduzione della violenza del conflitto, perché ha lo scopo di condurre il nemico ad affrontare il momento dello scontro in condizioni di tale inferiorità da privare lo scontro stesso della caratteristica di “momento decisivo”. L’avversario è già stato sconfitto, direbbe Sun Zi, cioè condotto su un percorso di eventi che va a suo detrimento e a nostro vantaggio, prima che si presenti la circostanza di un confronto diretto, o, meglio, prima che decidiamo di accettare un confronto diretto. Diventa così possibile non limitarsi ad attaccare le capacità del nemico, ma distruggere la sua strategia: il significato stesso del piano del nemico viene svuotato dalla manipolazione delle sue percezioni e delle sue azioni, fino a porlo di fronte all’irrilevanza e alla futilità, più ancora che all’impossibilità, della sua resistenza al nostro agire. Ma come si traduce tutto questo dal piano teorico a quello pratico? Attraverso lo sviluppo di una cultura dell’inganno che vada ben oltre gli angusti limiti di una teoria scientifica e di una dottrina operativa: ciò richiede la soluzione di un difficile problema, quello di selezionare, formare e organizzare un nucleo di persone affinché sappia riconoscere l’inganno, proteggere la propria organizzazione e il proprio paese dagli stratagemmi impiegati dal nemico e usarli con consapevolezza e profitto nelle operazioni. L’unica via dunque è quella di informare di quella cultura (almeno) un’organizzazione. Quando gli americani vollero trasferire le esperienze maturate nella pianificazione della MILDEC dal teatro europeo a quello del Pacifico, crearono un corso – denominato scherzosamente “Young Ladies’ Seminary” – cui presero parte appena dieci ufficiali delle varie armi. D’altra parte, la materia stessa seleziona il proprio destinatario e il numero di persone formate non può che essere assai limitato. È solo partendo da un processo di formazione che diviene possibile sperimentare una cultura nazionale dell’inganno e trasformare una banale e un po’ miserevole attitudine levantina all’imbroglio, che certo in Italia non fa difetto, ma che si associa sempre alla mancanza di qualsiasi visione strategica, in uno strumento dalle promettenti possibilità. Da lì sarà poi possibile aggiustare e correggere il tiro, cominciare a produrre una letteratura nazionale, estendere il processo di formazione ad altre organizzazioni e sviluppare una tradizione nazionale anche formalmente strutturata.
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(1) Joint Chiefs of Staff, Military Deception, JP 3-13.4, 13 luglio 2006, p. I-1.
(2) Il testo di M. Handel, Perception, Deception and Surprise: The Case of the Yom Kippur War, The Hebrew University, 1976 contribuisce molto a questi sviluppi, collegandosi anche alle preoccupazioni israeliane dopo la vicenda della guerra del 1973. (3) Il testo di B. Whaley, Stratagem: Deception and Surprise in War, è del 1969 ed è stato ripubblicato da Artech House Information Warfare Library nel 2007. (4) J. Gooch, A. Perlmutter, (Eds.), Military Deception and Strategic Surprise, ripubblicato da Routledge nel 2007. (5) G. Allison, P. Zelikow, The Essence of Decision, Longman, 1999. La prima edizione è del 1971. Il quinto capitolo è particolarmente interessante per ricavare alcuni spunti sull’analisi della deception. (6) D. Daniel, K. Herbig, (Eds.), Strategic Military Deception, Pergamon Press, 1981. (7)M. Anderson, “Cultural Concatenation of Deceit and Secrecy”, in R.W. Mitchell e N. S. Thompson (eds.), Deception: Perspectives on Human and Nonhuman Deceit, State of New York University Press, 1986. (8) Interessante ad esempio R.J. Heuer, “Strategic Deception and Counterdeception: a Cognitive Process Approach”, in International Studies Quarterly, Vol. 25, No. 2, June 1981, pp. 294-327. (9) Si vedano le interessanti riflessioni di W. Jajko nel Commentary a M.R.D. Foot, “Conditions Making for Success and Failure of Denial and Deception: Democratic Regimes”, entrambi in R. Godson, J. Wirtz, (Eds), Strategic Denial and Deception: The Twenty-First Century Challenge, Transaction Publishers, 2002, pp. 115-122. (10) C. Clausewitz, , Vom Kriege, Ullstein, 1991, Lib. I, Cap. 2, p. 56. (11) F. Jullien, Trattato dell’efficacia, Einaudi, 1998, p. 40. (12) Ibidem. |