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GNOSIS 3/2010
La guerra della droga in Messico

Narcos e terroristi
la possibile alleanza


Guido OLIMPIO


Foto da http://1.bp.blogspot.com/
 
]Dalle autobomba ai massacri di massa. I narcotrafficanti messicani tendono a porsi come vero e proprio contropotere, secondo l’allarme lanciato dal Presidente Calderon, mentre l’Fbi afferma che i cartelli sono più pericolosi di Al Qaeda. Le bande, le tattiche, le armi, le divisioni territoriali, gli obiettivi dei gruppi armati danno il quadro della situazione messicana che secondo Guido Olimpio comporta un alto rischio di evoluzione con inedite alleanze. Infatti nel mondo del crimine “mai dire mai”. I Servizi di Intelligence tracciano possibili linee di sviluppo, soprattutto alla luce delle nuove tattiche militari dei cartelli le cui ambizioni economiche potrebbero travalicare il tradizionale mercato statunitense.
La globalizzazione e la crisi economica sono due punti a favore del crimine. I narcos si muovono rapidamente, hanno denaro fresco, possono investire e cercare alleanze. Il governo messicano guarda con attenzione ai sistemi impiegati dall’Italia nella lotta alle mafie: confisca e sequestro dei beni, azione combinata di Intelligence e Polizia giudiziaria. Ma ha bisogno di aiuto e di sostegno da parte della Comunità Internazionale. Intanto, suggerendo mezzi diversi da quelli puramente militari.




Con l’autobomba fatta detonare il 15 luglio a Ciudad Juarez e la minaccia di altri attacchi, il Messico ha compiuto un ulteriore passo verso il narco-terrorismo aprendo scenari che ricordano da vicino la Colombia degli anni ‘80. Per alcuni esperti l’accostamento è prematuro e le incursioni dei trafficanti sono solo diventate più violente. Anzi taluni, paragonando la situazione attuale con quella degli anni ‘90, hanno sostenuto che il quadro non è poi così fosco.
I mesi a venire diranno se la catena di episodi – e comportamenti – si trasformeranno in tendenza ma certo la faida che oppone le organizzazioni criminali è entrata in una fase molto acuta, con una progressiva militarizzazione del conflitto. E non tanto per l’intervento dei 50 mila uomini dell’esercito messicano – con esiti non esaltanti – in funzione anti-crimine. Terrore o meno, è incontrovertibile che i narcos sono spesso meglio armati dei soldati, usano tattiche simili alla guerriglia, hanno mobilità, dispongono di un alto volume di fuoco, tendono a stabilire un controllo – vero – del territorio. E non solo in senso “economico”, con lo sfruttamento dell’area per la vendita o il passaggio della droga. I cartelli puntano a dominare una determinata area geografica e la proteggono con tutti i mezzi a disposizione. Esattamente come può fare un movimento di insorti. Citiamo due fonti non sospette. Il presidente messicano Felipe Calderon ha dichiarato che le gang vanno ben oltre il racket degli stupefacenti e intendono stabilire un loro potere. La seconda è apparsa, all’inizio di agosto, sul sito ufficiale dell’Fbi e recita: “i cartelli sono più pericolosi di Al Qaeda”.
Sempre in questo periodo, il direttore dell’intelligence Guillermo Valdes, ha rivelato che dal 2006 le vittime degli scontri sono state 28 mila, con il 23% nella sola Ciudad Juarez. Una cifra superiore a quella finora fornita e che conferma quanto sospettato da osservatori indipendenti. Nel medesimo periodo le Forze dell’ordine hanno sequestrato 84 mila armi da fuoco e 411 milioni di dollari in contanti frutto di attività illecite. Sempre a partire dal 2006 sono stati registrati 963 scontri a fuoco tra Forze dell’ordine e banditi. Per avere un parametro di comparazione offriamo un altro dato: solo nel mese di luglio 2010 si sono avuti 1234 omicidi. Nel lontano Iraq – a giugno – sono stati 535 ed è stato considerato uno dei mesi peggiori.


Il territorio

Valutazioni convergenti della Dea (l’agenzia anti-droga statunitense), dell’Fbi e delle medesime autorità messicane ritengono che la battaglia sia più aspra dove il controllo del territorio è in discussione. E citano come fino all’estate 2010 siano diminuiti gli scontri in Bassa California. Continuano a esserci delitti, agguati, sparizioni ma al confine con la California il Cartello di Sinaloa di Joaquim “El Chapo” Guzman ha messo a segno punti a favore. La cattura di Teodoro Simentel, detto El Teo, ha agevolato la manovra di accerchiamento del padrino.
Diverso il quadro nello Stato di Sonora. Guzman e il suo complice Ismael Zambada hanno intensificato le operazioni contro i Beltran Leyva e i fratelli Enrique Parra, conosciuti anche come i “Los Numeros”.
Particolarmente violenti i combattimenti – con caratteristiche simili a quelle viste in Iraq – nella regione di Saric e Caborca, a poche decine di chilometri dalla frontiera con l’Arizona. I miliziani di Sinaloa hanno dovuto faticare per eliminare sacche di resistenza tenute da un bandito locale, appoggiato da circa 300 uomini, fedele ai Leyva. Un duello mortale sia per il traffico di stupefacenti che di clandestini diretti negli Usa. Il quadro tattico-strategico in questa zona è crudo: le Forze dell’ordine hanno subìto o assistito all’iniziativa dei criminali, in grado di controllare le scarse vie di comunicazione come di impossessarsi di numerosi ranch, poi trasformati in piattaforme per il contrabbando. Chi ci abitava è stato costretto ad andarsene. In alcune situazioni – conflitti a fuoco del 1° e del 30 luglio – l’atteggiamento delle autorità è parso debole e non sono mancate ombre oscure con le consuete accuse di connivenza.
Gli stati di Chihuahua, Nuevo Leon, Taumalipas, Coahuila sono gli altri punti chiave di questo incredibile fronte. Sempre secondo le valutazioni messicane il motivo è che i gruppi si stanno contendendo, con stragi e agguati, la rotta. Gli schieramenti vedono da un lato Sinaloa appoggiata dalla Familia Michoacana, dai fratelli Valencia e dal cosiddetto “braccio civile” del Cartello del Golfo. Sulla barricata opposta i Los Zetas – staccatisi dal Golfo –, i Leyva (ma afflitti da scissioni), il cartello di Juarez dei Carrillo Fuentes.
In maggio a Torreon si sarebbe tenuto un summit che ha sancito la frattura dei Los Zetas – capitanati da Heriberto Lazcano e Miguel Trevino Morales – dal Golfo accompagnata da un’intesa per la fornitura diretta di coca da parte dei colombiani. I Zetas ribelli, ben armati e meglio addestrati rispetto ad altri gruppi, hanno offerto in cambio il corridoio che da Taumalipas porta in Texas e vie di contrabbando nello Yucatan, Tabasco, Michoacan e Guerrero. Linee di traffici illegali attaccate dai rivali che riconoscevano – nell’estate 2010 – la leadership di Osiel Guilen, Eduardo Costilla Sanchez detto “El Coss” e Ezequiel Cardenas, alias “Tony Tormenta”.
I Loz Zetas, pur subendo perdite, avrebbero conquistato posizioni nel Nuevo Leon dove la polizia è infiltrata dalle gang o come si dice in gergo “cartellizzata”, ossia parteggia per questo o quel gruppo.
Un sospetto ed un’accusa – quella dei vincoli segreti – che arriva fino ai massimi vertici dello Stato. In questi primi mesi del 2010 quelli del Golfo hanno accusato il governo di favorire il cartello di Sinaloa. Un aiuto che in base ad uno scenario dovrebbe favorire una sorta di patto di non belligeranza. Ma l’esecutivo ha risposto, a fine luglio, con l’uccisione in un conflitto a fuoco di Nacho Coronel, numero tre di Sinaloa e grande gestore del mercato delle anfetamine. Un colpo ad effetto che potrebbe – stando a talune interpretazioni – scatenare dissensi in una realtà abbastanza compatta come quella guidata da “El Chapo” Guzman. Durante l’operazione, l’esercito ha sequestrato il computer di Coronel: nella memoria del pc – si dice – sarebbero conservate le prove dei legami con il mondo della politica. Del resto Nacho ha vissuto per molto tempo nella zona di Guadalajara, abitando in ville simili a regge. L’unica precauzione per non farsi notare era quella di muoversi con una scorta ridotta. Un po’ poco per un super-ricercato.
Il gioco delle alleanze è comunque suscettibile di sorprese. La vittoria di un gruppo o, a volte, un semplice sgarbo possono cambiare le caselle in sede locale. Il 26 luglio 2010, ad esempio, il massacro di sei persone fatte ritrovare all’interno di un veicolo ha annunciato la nascita del cartello della Sierra (Guerrero). Come per gli altri i killer hanno sostenuto che gli ammazzati erano “ladri e stupratori”. Impossibile verificare queste versioni. In alcune località i cartelli, oltre a delinquere, hanno imposto il loro ordine con il solo obiettivo di trafficare senza fastidi. Nello stato di Michoacan, la Familia che afferma di ispirarsi ai testi sacri, si presenta come paladina dei cittadini. Ma i suoi sicari, costretti dai capi a leggere la Bibbia, mutilano e decapitano.
Inoltre le ambizioni di piccoli boss, spesso spalleggiati da uomini pronti a tutto, hanno la forza di alterare “fotografie” consolidate. Senza dimenticare, infine, la libertà di movimento che si sono guadagnate le gang giovanili trasformate in carne da cannone dei narcos. Bande come gli “Aztecas” (con i Barrio Aztecas in Nord America) e “Los Artistas Asesinos” regolano i loro conti in campagne parallele. Nelle città messicane – e a volte americane – o nelle prigioni che continuano ad essere in mano ai criminali. Molti omicidi avvengono non per ordine dei padrini, bensì in seguito a decisioni di giovani teste calde. Non sempre un delitto ha un movente preciso. E questo rappresenta la misura della deriva messicana.


L’impunità

Il presidente Felipe Calderon ha designato la lotta al crimine quale punto centrale della sua amministrazione ed ha deciso di impiegare l’esercito. I risultati sono stati contenuti e temporanei. Più affidabili dei poliziotti – però non in tutte le regioni – i soldati hanno affrontato in campo aperto i narcos. Ma il problema fondamentale resta quello di amministrare la Giustizia, di istruire processi e di arrivare a sentenze certe e sicure. Esaminiamo il periodo dicembre 2006-settembre 2009: sono stati arrestati per crimini legati alla droga 226.667 persone. Bene, solo un quarto è stato incriminato ed appena il 15% ha conosciuto un verdetto. Guardiamo “dentro” Ciudad Juarez, la città morta. Nel 2009 si sono avuti 2600 delitti, ma la polizia ha istruito appena 93 casi. Per gli altri nessuna inchiesta vera. In Bassa California 33 mila arrestati, dei quali 24 mila sono poi stati rilasciati. A Sinaloa, una delle zone più insanguinate, 9700 arrestati e 5606 liberati. Nella regione di Taumaulipas 3600 catturati, 2083 in libertà.
Interessanti anche i dati relativi all’affiliazione dei sospettati finiti in prigione. Nel periodo dicembre 2006-16 luglio 2010 il 38% degli arrestati apparteneva al Golfo, il 32% alla Familia Michoacana, al 31,7% a Sinaloa e il 4% al più piccolo cartello di Sinaloa.
Alcuni rilasci sono avvenuti per mancanza di prove o per la difficoltà di istruire i processi. Situazioni che hanno beneficiato sia la manovalanza sia personaggi di rilievo. La stampa locale ha citato il caso di Osvaldo Munoz El Gonzo. La polizia lo riteneva collegato a 40 omicidi, un anno dopo non era stato ancora incriminato ed è tornato libero. Non diverso il destino di Juan Pablo Castello, “accostato” a 28 assassinii: è in libertà.


Armi e tattiche

Imitando quando già avvenuto in Colombia, i narcos hanno lanciato una clamorosa sfida alle autorità ricorrendo alle autobomba. Il 15 luglio 2010 una vettura è esplosa in una strada di Ciudad Juarez, 4 le vittime. Un’azione attribuita ai banditi de “La Linea”, braccio armato del cartello di Juarez. Incredibile la tattica usata. I narcos hanno sequestrato un uomo, lo hanno vestito con una divisa da vigile, quindi lo hanno ferito in modo grave. Qualche minuto dopo il finto agente è stato abbandonato su un marciapiede. I criminali hanno avvisato con una telefonata anonima un vicino commissariato. Quando soccorsi e agenti sono affluiti sul posto, i narcos hanno attivato la carica celata nella vettura. Gli artificieri hanno accertato che la bomba era composta da esplosivo civile rubato in una miniera e da un cellulare. Successive perizie hanno stabilito che l’ordigno era identico a quello usato nel 1994 in un attentato nel Distretto Federale, attacco rivendicato – secondo le autorità – dal Procup, movimento di estrema sinistra.
L’uso dell’autobomba potrebbe segnalare la volontà dei narcos di accrescere l’impatto delle operazioni contro le Forze dell’ordine. Le vetture – al pari di quanto è avvenuto in Medio Oriente ma anche in Europa – possono diventare degli arieti esplosivi per devastare postazioni fisse o colpire convogli militari. Inoltre seminano il terrore tra la popolazione, poiché è chiaro che non sono armi “selettive”. Una deflagrazione in una zona abitata rischia di avere conseguenze devastanti. Ed è quello che è accaduto in Colombia negli anni ‘80.
Significativo anche il presunto movente dell’attacco. I narco-terroristi volevano punire le Forze di polizia perché accusate di sostenere i rivali di Sinaloa. E con l’intento di ampliare l’effetto di un attentato senza precedenti, i criminali si sono rivolti alle autorità statunitensi affinché indaghino sulle connessioni tra Sinaloa e il potere. Ad organizzare l’attacco, come si è detto, “La Linea”, struttura che agisce su input della famiglia Carrillo Fuentes al vertice del cartello di Juarez. Gli americani non escludono che quest’ultima formazione voglia trascinare gli Stati Uniti nel conflitto. Non va dimenticato che sempre una banda legata alla “Linea”, gli Aztecas, ha ucciso in marzo tre dipendenti del Consolato Usa di Ciudad Juarez. Una sede diplomatica davvero nel mirino: infatti, subito dopo l’esplosione dell’autobomba, è stata chiusa per alcuni giorni.
La comparsa delle vetture trappolate è stata preceduta da uso indiscriminato di granate. Solo nel 2009 sono avvenuti 72 attacchi con bombe a mano e dal 2007 ne sono state sequestrate 5800. Per il 90 per cento si tratta di granate risalenti ai conflitti civili combattuti in Centro America e dunque hanno più di vent’anni. Sotto le amministrazioni Reagan e Bush senior gli Stati Uniti hanno fornito a paesi amici stock impressionanti. In particolare la “popolare” M67: solo il Salvador ne avrebbe ricevuto nel periodo 1980-93 ben 266 mila. Oggi sono acquistabili al mercato nero per un prezzo che oscilla tra i 100 e i 150 dollari. Nel tentativo di sottrarle ai criminali, le autorità arrivano ad offrire 200 dollari per ogni granata consegnata.
Le bombe a mano compaiono, insieme al Kalashnikov, nell’equipaggiamento standard dei miliziani agli ordini dei cartelli. Le lanciano contro i veicoli della polizia o negli assalti alle casermette. O ancora nei conflitti a fuoco tra bande. Si rivolgono invece a trafficanti di armi in Guatemala per rifornirsi delle granate da 40 millimetri. Sempre di origine centro-americana numerosi Rpg, sparati contro i mezzi blindati.
Quanto alle armi da fuoco – come abbiano illustrato in un precedente articolo su Gnosis – la fonte primaria restano gli Stati Uniti. Un calcolo approssimativo stima in 20 mila le armi illegali contrabbandate ogni anno dagli Usa verso il Messico. Un mercato da 20 milioni di dollari, con prezzi abbordabili vista la disponibilità di liquidi dei narcos: un Kalashnikov costa sui 1200 dollari, una pistola nuova di zecca circa 1000. Nei numerosi sequestri condotti dall’esercito compaiono molti Ar 15 americani e i temuti Barrett, fucili potenti in grado di perforare le blindature. Altro particolare che dà l’idea di cosa siano gli scontri è la passione dei narcos per i caricatori a tamburo da 72 proiettili per i loro fucili d’assalto. A volte sono installati in coppia. I tiratori – non troppo precisi – non vogliono correre il rischio di rimanere senza colpi. E, infatti, l’esercito ha confiscato centinaia di caricatori a tamburo.
Le officine dei cartelli hanno lavorato alacremente per proteggere i loro veicoli. Molti sono blindati da officine professionali, altri modificati da meccanici assoldati ad hoc. Nella parte posteriore di pick up cabinati e Suv sono creati dei “gusci” corazzati all’interno dei quali prendono posizione tiratori scelti. Frequente è l’installazione di Barrett e mitragliatrici. Molto richiesti i mezzi con tetto apribile, perché facilitano l’uso delle armi.
Durante gli ultimi due anni, specie negli stati di frontiera, i criminali hanno iniziato a muoversi in convogli di grandi dimensioni. Decine di veicoli, pieni di sicari armati in modo pesante, con i quali investono le località tenute dai clan rivali e, talvolta, ingaggiano conflitti a fuoco con l’esercito. Tre episodi, avvenuti tra maggio e luglio, hanno dimostrato di cosa siano capaci i narcos. In maggio un gruppo di Los Zetas si è lanciato all’attacco usando un camion corazzato in modo artigianale. Aveva la cabina di guida protetta, così come le fiancate e le ruote. Un mezzo simile a quelli usati dalle truppe dello Sri Lanka e dai contractor in Iraq: secondo immagini diffuse su Internet il veicolo non ha superato il battesimo del fuoco. Il “mostro” è stato prima danneggiato e poi incendiato. Con relativo narco-messaggio lasciato sulla carrozzeria annerita per deridere i costruttori del bestione.
Diverso lo scenario verificatosi all’inizio e alla fine di luglio nella zona di Saric e Tubutama, a ridosso del confine con l’Arizona. In due occasioni, convogli armati di Sinaloa, sostenuti da gruppi alleati, si sono infiltrati in un territorio tenuto da El Gilo del Cid, un alleato dei Leyva a capo di una formazione di circa 200-300 uomini. Pur assediato e con scorte ridotte, El Gilo si è rivelato un avversario temibile. Ben informato sui movimenti nemici, ha schierato i suoi miliziani su piccole colline ai lati della strada statale, quindi a sorpresa è riuscito a bloccare il lungo corteo di Sinaloa: barricate di mezzi create in testa e in coda al convoglio hanno impedito agli avversari di manovrare.
A questo punto i seguaci di El Gilo hanno aperto il fuoco sui rivali annientandoli. Il bilancio ufficiale ha fissato in 20 le vittime ma voci di popolo ritengono che i morti siano stati almeno il doppio. A fine luglio, Sinaloa si sarebbe presa la rivincita, muovendo gli uomini con maggior cautela ed evitando le strade sorvegliate dalle sentinelle del boss locale. Incerta la sorte di El Gilo: forse è stato ucciso.
Altro esempio di come i narcos ricorrano alle colonne mobili è emerso a Ciudad Valles, il 30 luglio. Una formazione di otto veicoli – Suv e fuoristrada – è entrata in città attorno alle 18. E si è lanciata in una caccia al poliziotto: ne hanno uccisi sette, compresi alcuni all’interno di un piccolo ufficio. Compiuto il massacro la carovana della morte – forse legata ai Los Zetas – si è allontanata senza perdite.
A partire dalla fine del 2009 le bande criminali hanno lanciato la campagna dei blocchi. Con azioni simultanee, piccoli nuclei si impadroniscono di bus e camion con i quali creano sbarramenti lungo le principali arterie. I blitz servono come diversivo, come show di forza oppure per impedire l’afflusso di rinforzi in zone dove i narcos stanno per colpire. La strategia dei blocchi è stata usata, in passato, dai qaedisti iracheni ma anche, nel 2006, dal “Primero comando de la capital”, una tra le più famose gang di Rio de Janeiro.
Informazioni di intelligence Usa – e per ora non confermate da dati precisi – non escludono che il passaggio al narco-terrore coincida con contatti tra i cartelli e elementi che hanno militato in formazioni armate o guerrigliere. Ci sono sospetti su ex soldati delle Forze speciali serbe – la loro presenza è un fatto certo in Sud America – americani, russi e anche mediorientali. I Los Zetas – questo è un elemento accertato dalle indagini – si avvalgono dei veterani della guerra civile in Guatemala, i temuti kaybiles. Per usare un termine calcistico molto in voga, le autorità messicane affermano che la “cantera” – il vivaio giovanile – dei Los Zetas sia proprio il Guatemala. Ma, negli ultimi tempi, i sicari avrebbero iniziato a reclutare in modo esteso anche nella regione di Los Angeles. Ovviamente non si può definirli dei professionisti della guerra, ma hanno il duplice vantaggio di avere la nazionalità statunitense e di avere fretta di “crescere”. Per questo non hanno timore ad essere impiegati come killer. Una ripetizione di quanto è avvenuto in Texas, settore di Laredo, dove i baby-killer sono una realtà ben radicata. Dormono in America, ammazzano in Messico, tornano a casa a dormire.
Analisi di alcuni combattimenti hanno permesso di fissare modus operandi, armi e tecniche dei narcos:

a) Molti indossano lo stesso tipo di scarpe: un modo per riconoscersi durante la fase di osservazione.
b) Ricorso a segnali di identificazione: lettere o X sui vetri delle vetture, strisce colorate legate al braccio. Situazione già viste in conflitti (Thailandia, Filippine) dove si contrappongono forze rivali ma appartenenti ad una stessa entità.
c) Uso di corpetti anti-proiettile e di ampie giberne per un gran numero di caricatori. A volte sono contrassegnate con le sigle del cartello di appartenenza (Gdf, Familia, Zetas). Spesso indossano divise mimetiche o scure, rubate alla polizia o acquistate.
d) Rinvenuti molti proiettili inesplosi e caricatori mezzi pieni: si tratta di indizi di munizioni non buone, cattivo funzionamento delle armi, scarso addestramento.
e) Largo dispendio di munizioni, quasi a saturare un obiettivo. Questo spiega anche il ricorso ai caricatori a tamburo.
f) Scontri a fuoco prolungati: i banditi in alcune situazioni ricorrono al mordi e fuggi, ma se le circostanze lo richiedono possono restare sul campo per periodi estesi.
g) I fucili d’assalto, a volte, presentano un calcio in legno “fatto in casa”: forse le armi sono state contrabbandate senza calcio per nasconderle meglio oppure perché hanno subìto danni.
h) Presenza costante di apparati radio per i contatti tra i gruppi di fuoco.
i) Tipo di armi: Ak 47, M4, M16, fucili d’assalto dotati di lanciagranate da 40 mm, G3, Barrett, fucili di precisione, pistole M1911 e Beretta 92, pochi revolver (non servono nei conflitti a fuoco prolungati).


Le comunicazioni

Altro settore dove i padrini cercano aiuto esterno è quello delle comunicazioni. Diverse organizzazioni hanno comprato tecnologia e assoldato tecnici per creare un network radio in grado di mantenere i contatti anche a lunghe distanze. In questo modo i boss hanno un controllo molto preciso sulle grosse spedizioni di cocaina, marijuana e anfetamine.
Ad assimilare il comportamento dei banditi a quello delle formazioni eversive c’è poi la campagna sistematica per silenziare o condizionare la stampa. I narcos, attraverso persone di fiducia, alimentano la loro comunicazione. La prima piattaforma è quella di Internet: su blog, siti e Youtube sono diffusi messaggi, comunicati e video per rivendicare attacchi o annunciare iniziative. Quindi c’è quella più rustica dei poster o striscioni. Appesi ai ponti – a volte insieme a cadaveri – sui muri dei luoghi attaccati o lasciati accanto ai corpi delle vittime sono dei volantini giganti. Ma accanto a ciò c’è l’intimidazione nei confronti dei reporter: nel solo 2010 ne sono stati uccisi una decina. In luglio un commando del cartello di Sinaloa ne ha sequestrati quattro per costringere una emittente tv a trasmettere un proclama. Il tentativo di condizionare la libertà di stampa rappresenta un fatto piuttosto grave e dalle forti implicazioni politiche. E purtroppo a minacciare coraggiosi giornalisti non sono solo i trafficanti ma, in alcune città, anche esponenti in divisa. Perché collusi con il crimine oppure perché non gradiscono che si raccontino gli eccessi della lotta al narcotraffico. L’emergenza, a volte, spinge l’esercito e la polizia a evidenti violazioni.
Gli analisti si attendono, per il futuro, nuove iniziative da parte delle gang nel settore della comunicazione. Con le armi fanno tacere chi vogliono, con i mass media impongono la loro “verità” e, addirittura, fanno della propaganda. Non diverso da quanto messo in piedi dai qaedisti in Medio Oriente.
Nel pieno della campagna di primavera si è verificato un sequestro di persona eccellente. Il 15 marzo è scomparso Diego Fernandez de Cevallos, politico di prestigio, già candidato alle presidenziali ed ex presidente del Senato. La personalità non aveva scorta – una necessità in Messico per chi è ricco – però si era fatto impiantare un microchip sotto pelle. In caso di scomparsa avrebbe dovuto segnalare la sua presenza. Sistema che diverse società di sicurezza offrono con prezzi abbordabili. Ma i rapitori bene informati, hanno rimosso la “cimice” ed hanno poi intavolato una trattativa con un abile strategia di comunicazione. Alla famiglia sono arrivate richieste di riscatto – con cifre oscillanti tra i 30 e i 50 milioni di dollari – accompagnate da foto di Don Diego bendato. C’era anche un testo scritto che ha suscitato l’interesse degli investigatori: in alcuni passaggi l’autore della lettera ha usato termini dei gruppi rivoluzionari di ispirazione marxista. Questo ha fatto pensare ad un sequestro politico. O ad una collusione tra rapitori ed estremisti, fenomeno ben noto anche in altri paesi.
Prima dell’uccisione di Nacho Coronel si era anche diffusa la voce che de Cevallos fosse finito nelle mani dei narcos che volevano scambiarlo con il boss detenuto in segreto dalla polizia. Non era così, ma l’ipotesi circolata in alcuni ambienti rappresentava una conferma del timore di azioni terroristiche da parte dei cartelli.


Il contagio

La necessità di ritagliarsi nuovi mercati, il rifornimento diretto di cocaina, il reclutamento di nuovi “soldati” per le bande e l’enorme disponibilità finanziaria spingono i cartelli a cercare di allargare l’area d’influenza. E le conseguenze sono gravi. È sufficiente soffermarsi nel triangolo Salvador-Honduras-Guatemala dove diverse organizzazioni – con Sinaloa e Los Zetas su tutti – hanno punti d’appoggio formidabili. Un parametro drammatico che permette di misurare la violenza è il rate di omicidi rispetto alla popolazione. Vediamolo in sintesi: in Messico si hanno 14 omicidi ogni 100 mila residenti. Nel triangolo è quattro volte di più. Nel solo Salvador è stato registrato un incremento delle uccisioni del 37 per cento, con un rate di 71 delitti ogni 100 mila abitanti. Non tutti gli episodi sono riconducibili al fenomeno narcos, ma una buona parte hanno un rapporto. In modo diretto (affiliati ai cartelli) o indiretto (le diverse gang che tartassano gli immigrati che vanno verso nord e collaborano con i messicani).
Come rilevato in precedenza c’è poi la filiera delle armi, che appare inesauribile. Su queste relazioni – sostengono fonti Usa – si sono create altre alleanze, con i cartelli che aprono i loro “uffici” negli stati limitrofi, da Panama al Guatemala. Da quest’ultimo paese transitano tra le 275 e le 300 tonnellate di cocaina all’anno con destinazione gli Stati Uniti. Ben sette delle ventidue province che compongono il travagliato paese sono minacciate e l’impunità, a volte imbarazzante, dei criminali non fa presagire nulla di buono.
Le coste del Guatemala, con quelle messicane, restano poi l’approdo preferito dei famosi semi-sommergibili della coca. Battelli che filano a pelo dell’acqua alla velocità di sei-otto nodi, costruiti in fibra, in grado di trasportare 10-12 tonnellate di polvere dalla Colombia (o Ecuador). Dopo il boom del 2008-2009, il fenomeno avrebbe conosciuto una flessione: perlomeno questa è la valutazione della Guardia costiera Usa. Diverse le ragioni. Sono aumentati i controlli di interdizione con il ricorso al pattugliamento aereo a lungo raggio, l’unico efficace. Ed è cresciuta anche l’attività di intelligence nei punti di partenza, con colombiani, americani ed ecuadoregni molto impegnati in questo tipo di missione.
Non è neppure esclusa una pausa tecnica legata allo sviluppo di nuovi mezzi. In un’insenatura la polizia dell’Ecuador e la Dea hanno, infatti, scoperto, a fine giugno, il primo vero sottomarino dei narcos. Lungo trenta metri, spinto da due motori (uno diesel e l’altro elettrico), dotato di periscopio e tecnologia più sofisticata era alla vigilia del varo. Per i tecnici sarebbe stato in grado di navigare ad almeno sei metri di profondità. Nelle vicinanze c’era un accampamento capace di ospitare una cinquantina di persone, probabilmente gli operai incaricati della costruzione. È possibile che questo tipo di unità siano usate per viaggi di andata e ritorno. Un cambio significativo rispetto ai semi-sub che sono affondati dopo che la cocaina è stata sbarcata.
La Marina colombiana sospetta che la costruzione dei battelli sia in parte da attribuire a elementi delle Farc, i guerriglieri marxisti coinvolti in modo ampio nel contrabbando di coca.
Nella classifica del crimine organizzato i messicani sono balzati dal settimo al quinto posto, una promozione legata alla progressiva espansione delle loro attività. Nel loro impero non c’è solo droga ma anche pirateria di Dvd, clandestini cinesi e haitiani, petrolio, attività economiche legate al mondo del turismo e del grande commercio. I messicani hanno anche ampliato i contatti con le “sorelle” del crimine. Negli Stati Uniti hanno rafforzato i vincoli con gruppi locali e regionali. Alcuni completamente nord americani – le gang cittadine – altri di estrazione latina, come la M (mafia messicana) e le Maras del Centro America. In Europa continuano le segnalazioni su rapporti con le mafie dell’Est, russi e serbi in particolare. E nella politica estera dei cartelli un posto è riservato anche ai contatti con la ‘Ndrangheta calabrese. L’inchiesta del 2008 ha fatto emergere in modo chiaro come i narcos del Golfo avessero creato un triangolo con criminali italiani attivi tanto negli Stati Uniti che lungo la penisola per lo smercio della coca.
Sulle capacità dei cartelli di allargare il raggio d’azione, gli analisti si mantengono cauti. I numeri – consistenza, denaro, uomini – fanno pensare a un ulteriore ampliamento. Anche se, come spesso accade, sarà decifrato solo quando sarà in una fase avanzata. Tuttavia la guerra fratricida potrebbe costituire un ostacolo.


Conclusione

La narco-guerra messicana continua a essere vista come un fenomeno quasi scontato e comunque legato al teatro regionale centro-americano. Ma con il crescere delle loro capacità militari e i lampi di terrorismo, i cartelli vanno osservati con lenti diverse. Se davvero questa tendenza si consolida sarà inevitabile che i narcos cerchino di migliorare mezzi e tecniche. Per farlo dovranno rivolgersi, in modo più esteso, a specialisti e professionisti. Nell’ultimo anno ambienti conservatori americani hanno anche ipotizzato patti tra i trafficanti e movimenti islamisti, dall’Hezbollah ad Al Qaeda, con l’obiettivo di infiltrare elementi attraverso il confine Usa. In realtà vi sono stati dei contatti ma legati al puro traffico di droga. Gli Hezbollah nell’area caraibica, presunti affiliati a “Al Qaeda nel Maghreb” hanno trafficato nella regione sub-sahariana. In ogni caso i messicani non c’entravano, piuttosto erano i loro concorrenti sud americani.
Nel mondo del crimine, però, “mai dire mai”. E dunque per i Servizi di Intelligence è importante sorvegliare da vicino le linee di sviluppo. Specie se le autobomba diventeranno un’arma abituale per i cartelli e le ambizioni economiche travalicheranno il tradizionale mercato statunitense.
La globalizzazione e la crisi economica sono due punti a favore del crimine. I narcos si muovono rapidamente, hanno denaro fresco, possono investire e cercare alleanze. Una recente analisi del “Wall Street Journal” ha sottolineato come le grandi reti criminali abbiano aiutato l’Euro rastrellando banconote da 200 e 500.
Questo per dire che, senza voler per forza internazionalizzare un fenomeno che ha origini lontane, la comunità deve aiutare il Messico. Intanto suggerendo mezzi diversi da quelli puramente militari. I messicani guardano con attenzione ai sistemi impiegati dall’Italia nella lotta alle mafie: confisca e sequestro dei beni, azione combinata di intelligence e polizia giudiziaria. Nel periodo 2009-2010 hanno chiesto consigli e consigli sono arrivati. È chiaro però che le autorità devono aprirsi in modo maggiore e investire di più nella lotta alle collusioni. L’apertura di uffici di collegamento – a patto che ci siamo uno scambio vero – sono un piccolo quanto significativo contributo. Il Messico, inoltre, deve impegnarsi a conquistare la fiducia dei cittadini. E dunque la Giustizia va fatta funzionare: è inutile effettuare retate se poi il criminale non affronta il processo. Collegato a questo punto è il comportamento di chi deve far rispettare la legge: ambiguità e complicità non possono essere tollerate. Le autorità messicane potrebbero ad esempio dedicare maggiori risorse nelle indagini sul “femminicidio” di Ciudad Juarez, dove dozzine di donne sono state uccise da killer rimasti sconosciuti. Delitti dove la droga c’entra poco, ma che pesano sul tessuto sociale sempre più scettico su quello che lo Stato può fare.
Abbiamo citato questo caso solo per rammentare come la crisi messicana presenti aspetti diversi, dove non conta solo chi ha il fucile più potente. Servono risorse per competere con quelle dei criminali. Serve l’intelligenza per capire dove sottrarre consensi al nemico: lo stesso presidente Calderon ha ammesso che il suo governo “non sa spiegare la guerra ai narcos”. Serve l’intelligence per capire se e quando una realtà criminosa assume aspetti eversivi, pericolosi tanto per l’area dove opera che per altri paesi. I cartelli possono limitare la battaglia al loro territorio ma non sarebbe una sorpresa se volessero far fruttare il loro ingente tesoro investendo in Europa. Il Messico non è poi così lontano.



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