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GNOSIS 1/2010
Pianeta security

La sicurezza ‘ambientale’


Gianluca Ansalone


Se le fonti energetiche sono state le cause reali dell'ultima Guerra Mondiale e di conflitti più recenti di alta e bassa tensione, l'accesso all'acqua, le carestie come conseguenza di cambiamenti climatici o dell'utilizzazione per scopi non alimentari di terre coltivabili, saranno con ogni probabilità all'origine di nuove tensioni, suscettibili di degenerare in guerre di area, premessa di coinvolgimenti più ampi. Ed è proprio questa la nuova frontiera delle analisi di intelligence, delineata nell'intervento di Gianluca Ansalone che estende la sua attenzione alle catastrofi naturali e alla disattenzione agli effetti delle mutazioni del clima su grandi masse di popolazione. In questo quadro, all'intelligence non è richiesto di smentire o avallare le previsioni scientifiche, ma di valutare i rischi per la sicurezza che, nel nuovo secolo, si traducono in mancata prevenzione del rischio e della corretta valutazione dell'interazione tra uomo e ambiente.
(Foto Ansa)


Nulla appare più controverso nel dibattito interno alla comunità scientifica degli effetti del cambiamento climatico. Gli scienziati si dividono rispetto alla consistenza e ai tempi di maturazione di uno stravolgimento, più o meno profondo, negli equilibri della biosfera.
Da quando esiste la scienza moderna, i tecnici e gli operatori hanno fatto progredire il confronto, condotto anche con toni aspri, sulla base delle evidenze dei fatti e degli effetti tendenziali prevedibili. Ma i principali risultati si sono ottenuti nel momento in cui la cerchia dei soli addetti ai lavori si è allargata a sensibilità diverse ed apparentemente non ortodosse. Un passaggio necessario quando si affrontano problematiche trasversali a molteplici aspetti della vita delle comunità organizzate, degli Stati e della loro sicurezza.
È esattamente il caso del dibattito relativo ai cambiamenti climatici, la cui portata globale implica una trasversalità nell’analisi degli effetti già presenti, potenziali o presunti, di un rivolgimento climatico.
Non si tratta più, quindi, di valutare solo l’incidenza di un aumento delle temperature medie, del livello medio dei mari sulla vita delle persone o sui sistemi economici, ma anche di gestire, da subito, gli effetti indotti della variazione climatica.
È sempre più una prerogativa delle scienze strategiche quella di valutare l’impatto di fenomeni sociali embrionali sulla gestione della sicurezza, con particolare riguardo alla capacità di prevenire minacce non convenzionali in grado di alterare lo status quo e il bilanciamento delle forze in campo. È il caso dell’analisi relativa alla crisi economica e finanziaria in atto, che è entrata stabilmente in tutti i principali documenti di intelligence e nei piani operativi delle strutture preposte alla sicurezza. Gli effetti di una contrazione nella crescita economica, infatti, vengono valutati nella prospettiva di una destabilizzazione di scenari sociali già particolarmente fragili in paesi sull’orlo del fallimento, laddove la pressione dovuta alla disoccupazione, al malcontento o semplicemente ad un impoverimento generale può condurre a violenze diffuse se non, nei casi più estremi, creare terreni di coltura ideali per il terrorismo di matrice integralista.
Sulla base di questi presupposti, anche nel mondo dei tecnici della sicurezza si fa strada una sensibilità crescente rispetto al fenomeno del cambiamento climatico; nessun alto vertice militare o analista di sicurezza potrà apportare alcun contributo significativo al dibattito scientifico tout court. Ma la previsione degli effetti indotti dai fenomeni di squilibrio climatico sono ormai una parte essenziale della pianificazione strategica per le grandi potenze, che analizzano gli scenari di sicurezza lungo proiezioni temporali di lungo periodo (un ventennio o, nei casi più estremi, un cinquantennio).
Ciò ha il merito di diffondere una buona dose di consapevolezza e di sensibilizzazione per i vertici politici e per i decision-makers, chiamati ad assumere decisioni rilevanti per fronteggiare minacce del tutto nuove, moltiplicatesi dopo lo scongelamento dei due blocchi e la fine della Guerra Fredda. Per la comunità d’intelligence si tratta di una sfida inedita, coerente con l’esigenza di mettere in campo strumenti di analisi e di prevenzione non più rapportabili alle categorie tradizionali della simmetria e della deterrenza.


Clima e sicurezza alcune previsioni

Si calcola che già oggi ben 21 Paesi del globo, in cui vivono circa 600 milioni di persone, siano a rischio di crisi alimentari croniche determinate da una crescente penuria d’acqua. Se si proietta questa dinamica nel prossimo ventennio, altri 36 Paesi, per un totale di ulteriori 1,4 miliardi di persone, finiranno in questa categoria.
Secondo stime della Banca Mondiale, la domanda globale di cibo crescerà del 50% nel 2030, come conseguenza dell’aumento della popolazione mondiale e del deciso cambio di abitudini alimentari da parte di una classe media sempre più ampia nei Paesi ad alto potenziale di sviluppo. La speculazione finanziaria legata alle commodities alimentari, che già oggi intacca la disponibilità netta nell’approvvigionamento di cibo, inciderà ulteriormente sulle quantità di cibo destinata all’alimentazione di base, a causa della pressione determinata dall’impiego sempre più diffuso di bioetanolo e biocarburanti. Si calcola che una distrazione del 10% delle colture dall’impiego alimentare alla produzione di carburanti - un ritmo che già oggi il Brasile sta adottando - causerà diverse centinaia di migliaia di nuovi affamati nei prossimi anni.
Queste sono solo alcune delle dinamiche che vengono studiate e proiettate da Organismi internazionali economici, organizzazioni dedite all’aiuto e allo sviluppo, centri di ricerca. Se si allarga però l’analisi anche alla prospettiva strategica, al di là dei rilevanti risvolti umanitari di tali emergenze, nuove e consistenti minacce discendono da queste premesse, in grado di destabilizzare la tenuta geopolitica degli Stati nazionali.
La prima conseguenza diretta riguarda la dimensione del numero di coloro che saranno costretti a migrare a causa della siccità endemica, della carenza di cibo o della impossibilità di reperire derrate alimentari. Una pressione demografica mai conosciuta nella storia moderna che non potrà che mettere in crisi la coesione sociale di alcune aree del pianeta, con ricadute pesanti anche in termini di sicurezza.
Nel 2006 il gruppo di lavoro sugli effetti economici dei cambiamenti climatici, presieduto da Sir Nicholas Stern, ha pubblicato i risultati della propria analisi, sostenendo che i danni causati dalle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e dall’avvelenamento dei corsi d’acqua costerà all’umanità intera quanto due conflitti mondiali. In quello stesso rapporto si evidenzia come, entro il 2050, il clima sarà direttamente responsabile della dislocazione forzata di 200 milioni di persone sul pianeta: si tratta dei cosiddetti “profughi ambientali”. Una cifra che, statisticamente, non è distante da quella registrata nelle diverse ere geologiche, ma che negli ultimi 300 anni ha avuto una dimensione soprattutto interna o regionale; le nuove migrazioni avranno, invece, un marcato carattere di transnazionalità e creeranno una forte pressione sociale ed economica soprattutto sull’Europa, gli USA e l’Australia.
Secondo stime dell’UNDP (United Nations Development Programme) e dell’UNHCR (l’Alto Commissariato per i Rifugiati), esistono già oggi 344 milioni di persone a rischio della vita a causa di cicloni tropicali e 521 milioni a rischio per le violente inondazioni.
L’opinione unanime degli analisti è che il cambiamento del clima agirà come moltiplicatore delle instabilità già presenti nelle aree di crisi. Nel caso di regioni fragili o di governi sull’orlo del fallimento, l’impatto del cambiamento climatico sarà decisivo per lo sgretolamento di tali sistemi, aprendo buchi neri geopolitici suscettibili di creare un effetto domino in termini di conflittualità regionale.
Ne è un tipico esempio il drammatico conflitto nel Darfur, dove le tensioni etniche, tribali e religiose, già particolarmente evidenti, sono state esasperate a seguito della persistente siccità, che ha interessato il 40% dell’estensione territoriale della vasta provincia del Sudan, causando addirittura lo spostamento fisico del confine di Stato di 60 miglia in pochi anni. I primi segnali di rivolta furono repressi anche attraverso il reclutamento di miliziani arabi, i Janjaweed, che si sono resi protagonisti del massacro di 500.000 persone e le cui violenze hanno provocato lo spostamento forzato di quasi due milioni di profughi.


Un gioco non a somma zero

Ma se per i più autorevoli consessi scientifici il cambiamento del clima rappresenta una degenerazione pericolosa e compromettente per la stabilità e la sopravvivenza di tutto il genere umano, per le scienze strategiche esso non è necessariamente un gioco a somma zero. Dagli effetti dell’evoluzione del clima alcuni attori perderanno spazio strategico, capacità di proiezione della forza e di presidio degli interessi; altri però ne usciranno rafforzati e vedranno dischiudersi nuovi vantaggi competitivi ed opportunità rese accessibili dalla nuova morfologia della carta fisica del pianeta.
I cambiamenti climatici, ad esempio, potrebbero consentire di mettere a coltura ampie zone dell’Africa, calmierando in parte la pressione speculativa sulle derrate alimentari. Nel Corno d’Africa o nelle regioni del sud del Continente, già oggi si vanno espandendo i terreni coltivabili, a fronte di un lento ma costante aumento delle aree irrigue.
Due attori che miglioreranno la loro posizione competitiva a seguito del cambiamento climatico saranno, ad esempio, la Russia e il Canada. La prima possiede quantità ingenti di gas naturale e petrolio intrappolate nei ghiacci della Siberia ed in quelli artici. Le temperature più miti a quelle latitudini potrebbero rendere più agevole l’accesso a tali riserve. Inoltre, lo scioglimento dei ghiacci artici consentirà alla Russia di sfruttare nuove e più dirette rotte commerciali verso Nord-Est e verso Nord-Ovest.
Parimenti, per il Canada l’affermarsi di condizioni climatiche più temperate nella Baia di Hudson aprirà prospettive nuove per lo sfruttamento di rotte commerciali e per l’estrazione di idrocarburi.
Lo status di potenza artica, che oggi rappresenta un handicap nell’arena globale, rappresenterà, per entrambi questi Paesi, un notevole bonus geopolitico e strategico in futuro.
L’Artico sarà il cuore della nuova competizione strategica determinata dal cambiamento climatico. Secondo stime del National Snow and Ice Data Center americano, nel 2060 potremmo conoscere un Circolo polare artico stagionalmente sgombero dai ghiacci. Le due implicazioni dirette di un tale scenario sono la possibilità di accedere a quantità ingenti di petrolio e l’apertura di rotte commerciali più brevi. Il transito dal Mare del Nord per le rotte del Nord Atlantico e del Nord Pacifico potrebbe far risparmiare in media 5.000 miglia nautiche (rispetto alle rotte attuali, che attraversano il Canale di Suez), pari a una settimana di navigazione in meno in media. Viaggiare dall’Europa e all’Asia attraverso il Passaggio a Nord-Ovest, invece che dal Canale di Panama, porterebbe ad un risparmio di 4.000 miglia nautiche.
Benché le tecnologie utili per l’esplorazione dei giacimenti di idrocarburi in un’area impervia come quella artica non saranno disponibili prima del 2050, già oggi è in corso una serrata competizione per un nuovo posizionamento strategico nell’area. Ne è testimonianza il referendum per l’indipendenza della Groenlandia, sotto amministrazione della Danimarca da trecento anni e che in virtù di un forte consenso popolare ha espresso, nel settembre 2008, la volontà di una maggiore autonomia. La nascita di un governo autonomo aumenterà, come primo effetto, il volume delle royalties per l’estrazione di enormi quantità di petrolio e gas naturale intrappolate nei ghiacci.
Nell’agosto 2007, il sottomarino Arktika ha provocatoriamente piantato una bandiera russa sul fondale marino del Polo Nord, una mossa che gli USA hanno condannato come un atto di “illecita sottrazione territoriale”. Nel luglio 2009, per la prima volta dai tempi della Guerra Fredda, la Marina russa ha deciso il dispiegamento permanente di parte della sua flotta navale nel Circolo polare artico.
In quello stesso periodo, il documento strategico periodicamente pubblicato dal Ministero della Difesa canadese e conosciuto come “Canada Defence Policy” ha impegnato il governo di Ottawa ad aumentare le risorse finanziarie per la difesa degli interessi nazionali e la sovranità del Paese sull’Artico.
Nel corso della sua ultima assemblea plenaria, la FAO, organismo dell’ONU che sovrintende le politiche per la sicurezza alimentare, ha puntato il dito contro la minaccia costituita dal cosiddetto “land grab” (letteralmente sottrazione di terra). Come conseguenza diretta dell’aumento della popolazione e della domanda alimentare, cui fa fronte la crescente desertificazione e l’impossibilità di mettere a coltura terreni sommersi o contaminati, alcuni governi hanno creato delle casseforti di moneta liquida al solo fine di acquistare territori. Una pratica comune nell’epoca del colonialismo più aggressivo, durante il quale, però, le grandi potenze imperiali presidiavano territori oltrefrontiera per schierarvi guarnigioni, stimolare i circuiti commerciali, garantirsi un presidio strategico anche in termini di approvvigionamento energetico.
Il colonialismo post-moderno ha, invece, uno scopo completamente diverso: i terreni acquistati (e non conquistati con gli eserciti) vengono messi a coltura di grano, riso, avena ed altri cereali, facendone dei veri e propri appezzamenti extraterritoriali, cui fare ricorso in dose massiccia in caso di crisi alimentare globale.
Come conseguenza degli effetti del cambiamento climatico, il cibo diventa un fattore di superiorità strategica. La Russia ne ha sancito addirittura formalmente lo status di bene indispensabile alla sicurezza nazionale, equiparandolo al rango militar-industriale e riempiendo i vecchi capannoni di manutenzione dei tank con quantità enormi di cereali.
Il land grab è la faccia contemporanea della lotta per la conquista, che ha ispirato la volontà di potenza delle Nazioni sin dalla loro nascita. Oggi, la competizione si gioca a suon di Fondi sovrani e di moneta sonante.
Le immagini recenti più forti ed emblematiche per l’opinione pubblica rispetto agli effetti sulla sicurezza del cambiamento climatico sono senza dubbio quelle dello tsunami in Asia e dell’uragano Katrina negli USA. In quest’ultimo caso, la mobilitazione della macchina militare americana è stata massiccia ed ha spinto ad una revisione profonda della strategia di sicurezza interna agli Stati Uniti.
La tempesta provocò danni per 80 miliardi di dollari, uccidendo 1.800 persone e costringendone 270.000 lontano dalle proprie abitazioni; più di 70.000 soldati furono mobilitati, in un frangente nel quale gli USA erano fortemente concentrati sui due scenari di crisi di Afghanistan e Iraq. L’uragano ebbe anche un impatto devastante sulle infrastrutture critiche: molti pozzi petroliferi furono seriamente danneggiati e l’attività di estrazione e pompaggio venne sospesa per settimane; senza contare i danni materiali alla rete viaria e al sistema di telecomunicazioni.
Benché non vi sia necessariamente una relazione univoca tra cambiamento climatico e la furia dell’uragano Katrina, la catastrofe ha rappresentato una presa di coscienza collettiva rispetto alle conseguenze in termini di sicurezza - oltre che umanitarie - dei disastri naturali.


L’analisi di Intelligence

Nel marzo 2007, una mozione parlamentare firmata dai Senatori americani Richard J. Durbin (Democratico - Illinois) e Chuck Hagel (Repubblicano - Nebraska) ha impegnato la intelligence Community a valutare il possibile impatto sulla sicurezza del cambiamento climatico. Da allora, il National Intelligence Estimate, il documento di riferimento della comunità che ne disegna il perimetro dell’analisi, riporta costantemente una sezione dedicata a questo tema.
In quello stesso anno, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (su iniziativa del Regno Unito) teneva una sessione speciale dedicata all’impatto del climate change sulla pace e la sicurezza internazionale.
Nel 2006 la National Security Strategy americana aveva già stimato gli effetti di una diffusione su larga scala delle pandemie, paragonandoli ad un attacco condotto con armi di distruzione di massa da parte di un gruppo terroristico.
Anche il recente terremoto di Haiti è stato assunto dal Pentagono come caso di studio per verificare l’impatto di un disastro naturale sulla sicurezza nazionale, nei termini di una massiccia migrazione verso le coste americane dei profughi ambientali.
Uno dei casi di studio più approfonditamente analizzati dagli apparati militari e di intelligence è quello del Bangladesh. La violenza di un ennesimo monsone potrebbe colpire violentemente la capitale Dhaka, che conta 12,5 milioni di abitanti, costringendo buona parte della popolazione a migrare oltre la frontiera con l’India e il Pakistan, due Paesi chiave per la strategia di sicurezza degli USA e per gli equilibri mondiali. Una tale emergenza umanitaria non potrebbe che richiedere l’intervento massiccio delle Forze armate americane e possibilmente europee, al fine di mitigare l’impatto di una pericolosa destabilizzazione regionale.
Secondo il più recente NIE (National Intelligence Estimate) lo stress idrico, dovuto alla crescita della popolazione mondiale e alla desertificazione, sarà una delle principali cause di conflitti tra Stati a partire dal 2030. In particolare, il documento evidenzia i casi di studio di Cambogia e Vietnam, che presto potrebbero abbandonare gli intenti cordiali di una negoziazione diplomatica che si protrae da alcuni decenni, per lasciar spazio alle armi e risolvere in maniera non conciliatoria la controversia relativa ai diritti di sfruttamento del delta del fiume Mekong. Questi due Paesi, assieme alle Maldive, che potrebbero presto sparire dalla carta geografica perché sommerse dalle maree, sono considerati i più vulnerabili in termini di sicurezza legata ai cambiamenti del clima.
In Nord Africa, gli effetti della desertificazione si tradurranno presto in una crescente pressione sociale e politica, con l’aumento della urbanizzazione e della disoccupazione giovanile. In particolare, tali fenomeni accresceranno la spinta migratoria dal Maghreb e Mashrek verso l’Europa, il cui equilibrio socio-demografico sarà stravolto dall’arrivo di centinaia di migliaia di migranti nel prossimo decennio.
Un ulteriore effetto sulle dinamiche interstatali coinvolgerà la ridefinizione dei confini marittimi e delle zone economiche esclusive (EEZs), che già oggi, in molti casi, vedono attivarsi una competizione strategica su vasta scala: la Cina ne rivendica ampi tratti rispetto ai suoi vicini nel Mar del Giappone e nel Mar Cinese Meridionale.
L’impatto dei cambiamenti climatici non riguarderà solo le aree a più elevata ed endemica povertà del pianeta. Gli effetti, in termini di regolamentazione della vita civile ed economica, si ripercuoteranno anche nelle economie liberali. Un centro di ricerca canadese ha, ad esempio, studiato l’impatto del riscaldamento globale sulla disponibilità di alcuni beni di prima necessità, a cominciare dall’acqua; anche nelle economie liberali più strutturate, i governi potrebbero essere tentati di arrestare il processo di liberalizzazione dei servizi pubblici essenziali, sottraendoli alle regole del mercato. L’acqua, anche in Occidente, tornerebbe ad essere un bene pubblico a controllo ed a gestione statale, la cui valenza politica e sociale sarebbe altissima se rapportata al ruolo del potere centrale come “fornitore” di benessere. Al momento, si tratta di una condizione comune a tutti i Paesi in via di sviluppo, dove l’acqua è di proprietà dei governi e viene utilizzata come strumento di leverage del consenso politico. L’utilizzo intensivo di risorse idriche in agricoltura, ad esempio, è la principale fonte di spreco per un bene già rarissimo nelle regioni aride o semi-aride del pianeta. Il che non fa che esasperare l’inefficienza nella distribuzione dell’acqua e creare ulteriori tensioni in termini di sicurezza.


Quale analisi per il cambiamento climatico?

A fronte di una minaccia così pervasiva, legata a molteplici aspetti della vita sociale, economica, civile delle Nazioni, l’approccio analitico non può che essere multidisciplinare: non basta rafforzare unilateralmente le misure di sicurezza, ma occorre agire concordemente con il resto della comunità internazionale, intervenendo sui parametri di emissione dei gas serra nell’atmosfera, sul vasto e strategico capitolo della sicurezza energetica e sugli investimenti per la messa in sicurezza delle infrastrutture critiche.
Uno studio recente della Banca Mondiale ha dimostrato come una spesa di 40 miliardi di dollari in strategie e politiche per la riduzione del rischio ambientale sistemico negli anni ‘90 avrebbe garantito alla comunità internazionale risparmi rispetto ad interventi di emergency relief da disastri naturali quantificabili in 280 miliardi di dollari.
Il già citato Rapporto Stern ha stimato in 4-37 miliardi di dollari la forbice dell’investimento annuale necessario a mitigare i rischi derivanti dal cambiamento climatico per la sicurezza internazionale.
È, quindi, evidente come, soprattutto in questo caso, diventi necessaria la promozione di una governance globale dell’ecologia politica, con una equa ripartizione delle responsabilità e degli oneri per tutti gli attori politici. La sicurezza legata alla salvaguardia dell’ambiente è tipicamente indivisibile e passa dalla attuazione di misure trasversali, non confinabili ai soli aspetti di monitoraggio delle emissioni di gas serra.
Sarebbe, ad esempio, opportuno arrivare alla definizione di una carta globale dei rischi sistemici, legata alle vulnerabilità del paesaggio e alla biodiversità e che possa favorire una geografia dei rischi il più possibile accurata.
Quello dell’abbattimento delle emissioni di CO2 rimane, comunque, un obiettivo necessario e, dopo il fallimento del Vertice di Copenhagen, va rilanciato soprattutto da parte dei principali attori globali, USA, Cina e India in particolare.
Per l’intelligence si tratta di una sfida appassionante e cruciale.
L’analisi di sicurezza legata all’impatto del cambiamento climatico rientra nella più vasta area del knowledge management e che, nello scenario post-bipolare, implica un deciso cambio di rotta verso la comprensione e la prevenzione delle minacce asimmetriche e non statali.
Il sistema di sicurezza è chiamato, in sintesi, a spostare le proprie energie e risorse dall’analisi degli attori della sicurezza a quella dei fattori della sicurezza.
Rispetto a tematiche così ampie quali il cambiamento climatico e lo scenario di sicurezza, la capacità dell’intelligence dovrebbe essere in grado di:
- connettere i diversi punti ed elementi della conoscenza;
- favorire un modello di analisi e previsione non-lineare;
- raggiungere nuove fonti di analisi e valutazione della minaccia.
Il terreno della collaborazione e della condivisione di informazioni tra i sistemi e gli apparati di intelligence rimane essenziale per una comprensione non superficiale della minaccia e per la predisposizione di adeguate misure di risposta.
All’intelligence non è richiesto di smentire o avallare le previsioni scientifiche sul cambiamento climatico. Ma essa dovrà sempre di più diffondere cultura della sicurezza che, nel nuovo secolo, assume i contorni della prevenzione di minacce asimmetriche.
L’interazione tra uomo e ambiente è, da sempre, un elemento portante della sicurezza e oggi diventa addirittura centrale per valutare adeguatamente i rischi sistemici e la capacità di promuovere uno sviluppo umano, economico e civile che non comprometta la sopravvivenza delle future generazioni.



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