GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 1/2010
Da ‘Al Ittihaad’ ad ‘Al Shabaab’

Nel rischio Somalia un nuovo ruolo per l’Italia


Michele Lanna


Dopo un lungo periodo di "disattenzione" verso la Somalia, avvenimenti recenti e conseguenti nuovi scenari pongono per l'Italia la questione di una maggiore presenza e di oculati interventi nello scacchiere del Corno d'Africa. Di fronte all'evoluzione e all'espansionismo del movimento "Al Shabaab", diventa urgente leggere correttamente ciò che sta accadendo e porre in essere adeguate strategie d'intervento, prima di assistere alla nascita di un nuovo "stato canaglia" somalo, con implicazioni dirette sulla stabilità dell'intera area. Ma con un approccio culturale moderno e avanzato che tenga in debito conto il tipo di società somala e le organizzazioni che ne sono derivate, perché come rileva il professore Michele Lanna, il termine Terrorismo è divenuto oggi così inflazionato da rendere i contorni del concetto stesso, sempre più sfumati ed imprecisi al punto di svuotarsi, praticamente, di senso. Una visione confortata proprio dall'evoluzione dei movimenti attivi in Somalia, da "al Ittihaad" passando per le Corti Islamiche fino all'odierna "Al Shabaab".
(Foto da http://upload.wikimedia.org)



Con l’attacco terroristico alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001, gli Stati Uniti hanno mutato la loro strategia nei confronti del resto del mondo.
Tale avvenimento ha evidenziato come i maggiori pericoli non provengano solamente dagli Stati aggressivi o canaglia (rogue states), ma anche da quelli deboli o falliti, territori di facile controllo da parte delle organizzazioni terroristiche (1) .
In Somalia il processo di pace, promosso dalla comunità internazionale, si è fermato ancora una volta. Si è riacutizzato, così, il violento conflitto tra il Governo Federale di Transizione e l’opposizione islamista rappresentata da Harakah al-Shabaab ed Hisbul Islam. All’uccisione di quattro ministri del G.F.T. nel mese di dicembre 2009, è seguìto così l’attacco dello scorso febbraio, a colpi di mortaio, al palazzo presidenziale.
La situazione si fa sempre più drammatica e intricata e a nulla sembra valsa la nomina a Primo ministro dell’islamico moderato Sheikh Sharif Ahmed. Al caos somalo sembra, così, essersi ormai definitivamente affiancato il terrorismo fondamentalista.
Già nel febbraio 2008 il Dipartimento di Stato americano, attraverso la public notice 6137, inseriva ufficialmente al-Shabaab tra le organizzazioni terroristiche. Tale mossa, in verità, non si è dimostrata molto efficace, in quanto da un lato ha prodotto una violenta reazione dell’organizzazione, dall’altro le ha fornito, seppur indirettamente, una sorta di legittimazione politico-criminale. Controproducenti sono pure, certe semplificazioni che portano a sovrapporre, tout court, al-Shabaab ad al-Qaida.
Il rischio è quello di creare delle profezie che si autoavverano e di trasformare al-Qaida in una sorta di “franchising” del terrorismo internazionale, in grado di fornire legittimazione politico-ideologica ad ogni gruppo terroristico di matrice islamista, operante in ogni parte del mondo, a prescindere dalle caratteristiche, dalle dimensioni e dalle reali potenzialità offensive.
In Algeria, per esempio, il G.S.P.C. (Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento), ridotto ad un organizzazione assolutamente marginale ed incapace di coinvolgere la popolazione civile, ha assunto il nome di “Aqmi” ed acquisito spessore e rilevanza “politico” criminale sul piano internazionale, in seguito alla “benedizione” ricevuta da Ayman al-Zawahiri, nel 2006, ed alla possibilità di fregiarsi così del nome di al-Qaida.
A ciò si aggiunga che l’uso del termine Terrorismo (2) è divenuto oggi così inflazionato da rendere i contorni del concetto stesso, sempre più sfumati ed imprecisi al punto di svuotarsi, praticamente, di senso.
Non si combattono più le “organizzazioni” terroristiche, quali organismi in grado di condurre azioni offensive, ma si muove guerra al “Terrorismo”, considerato come un vero e proprio attore.
A ciò si aggiungano le forti implicazioni semantiche e comunicative rappresentate dal fatto che nel terrorismo “la vittima è il messaggio” (3) .
Questa breve riflessione intende approfondire le radici e le caratteristiche del terrorismo in Somalia, in una prospettiva socio-antropologica, indispensabile per leggere correttamente ciò che sta accadendo e porre in essere adeguate strategie d’intervento.
Ci sembra, infatti, imprescindibile indagare preliminarmente le motivazioni per le quali determinate organizzazioni attecchiscano in certi paesi, in una prospettiva che sia capace di allargare il campo ed affiancare alla mera analisi delle connotazioni “militari” e criminali, gli aspetti sociali, culturali ed economici che le nutrono.


Ricognizione storico-geopolitica

Sempre più frequentemente la politica estera di molti paesi occidentali, con in testa gli Stati Uniti d’America, legge le dinamiche esistenti in molte realtà dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente, sempre con le stesse lenti, sottovalutandone storia e tradizioni (4) .
La Somalia, in particolare, non può essere ridotta ad un paese arretrato, con strutture ataviche ed intrinsecamente violento, illiberale ed antidemocratico. Sebbene alcuni aspetti di questa descrizione siano veri.
Una prospettiva siffatta è il frutto di analisi superficiali e frettolose e corre il rischio di essere strumentale a politiche meramente imperialiste.
La società somala, da un punto di vista strutturale, si articola in clan che rappresentano il coagulo ed il punto di riferimento di un gruppo di famiglie discendenti da un unico stipite. Nel tempo, poi, i clan hanno sviluppato dei sotto-clan che, a loro volta, hanno dato vita al “gruppo solidale” al quale aderiscono le famiglie costituite da individui legati tra loro da vincoli d’affetto.
La struttura clanica somala si connota, quindi, per un forte carattere patriarcale ove la figura maschile esercita un potere d’indirizzo su tutti i componenti del gruppo. Ciò non significa, però, un potere assoluto attribuito al pater familias, essendo il meccanismo democratico molto sviluppato a tutti i livelli.
Il peculiare e, per certi versi arcaico, sistema sociale somalo è oggetto di studio da diverso tempo e conosciuto in Europa sotto la definizione di “democrazia pastorale”. Sebbene tale modello tradizionale risulti incompatibile (ed incomparabile) con l’idea occidentale di Stato moderno, possiede anche molti aspetti positivi che si tendono invece a sottovalutare (5) .
Del resto, la storia anche recente ha mostrato come, malgrado la mancanza di strutture pubbliche, il clan sia riuscito a vivere di vita propria alimentando il commercio e l’allevamento e mostrandosi, sostanzialmente, impermeabile ai signori della guerra prima ed al radicalismo religioso poi.
Oltre al forte legame sociale ed al profondo senso di solidarietà tra tutti gli appartenenti al clan, la società somala si caratterizza per essere laica e sostanzialmente impermeabile alla Sharia.
Salvo rare eccezioni, infatti, il fondamentalismo religioso non ha mai attecchito e, la stessa affermazione delle Corti islamiche prima e di al-Shabaab poi, non è riconducibile a motivazioni religiose, essendo piuttosto legata alla loro capacità di garantire l’ordine, il rispetto di regole minime ed una sorta di “welfare”.
L’aver cercato di ridurre una simile struttura all’islamismo fondamentalista appare, quindi, velleitario, miope e per certi versi pericoloso.
Lo stesso fenomeno dei “warlords”, del resto, è stato amplificato da dissennate politiche occidentali. Ogni warlord, con l’appoggio più o meno aperto delle potenze straniere, ha potuto godere di milizie e della possibilità di sfruttamento di una determinata area, senza contestazioni di sorta, aprendo il territorio a qualunque tipo di commercio illegale (dai rifiuti tossici, alle droghe, alle armi) ed arruolando i giovanissimi delle famiglie più povere.
Uno degli errori più gravi del colonialismo prima e dell’amministrazione fiduciaria poi, fu quello di non aver tenuto in considerazione la struttura sociale ed organizzativa del Paese, impiantandovi addirittura istituzioni “estranee” al tessuto ed alla cultura locale.
La caratteristica centrale, con la quale fare i conti, è che l’idea di “Stato”, in quanto autorità sovraclanica, è una categoria fondamentalmente estranea alla cultura somala (6) .
Questa peculiarità non è mai stata affrontata direttamente, in quanto è stata prima “elusa” dal caos degli anni sessanta, poi compressa dopo il 1969 dalla dittatura di Siad Barre ed, infine, negata dalle scorrerie dei warlords.
L’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia (A.F.I.S.), istituita nel 1949 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, prevedeva un piano che assegnava all’Italia i suoi ex domini coloniali ed era finalizzata alla successiva concessione dell’indipendenza (7) .
Tale impostazione comportò il trapianto d’istituzioni politiche, economiche e sociali, provenienti dall’esterno e la loro progressiva “somalizzazione” (8) .
L’Italia, benché fosse stata l’ex potenza coloniale, mostrò un’assoluta sottovalutazione del fatto che la Somalia fosse impermeabile all’idea di Stato e tentò un maldestro ed improbabile travaso della propria struttura istituzionale (9) .
Ciò avvenne in un contesto sociale il cui senso di appartenenza “dipendeva tradizionalmente dal legame di sangue e dall’istituto del clan o cabila” (10) . Tale commistione determinò un effetto reciproco e doppiamente dannoso tra clanismo e politica.
In ambito politico, infatti, il clanismo erose ed alterò le regole politico-istituzionali impedendo il consolidarsi del senso di appartenenza alla nazione.
La politica, da parte sua, snaturò “la lealtà clanica” rispetto a quello che rappresentava nel mondo tradizionale. Mentre il sistema clanico era, infatti, “finalizzato al bene della comunità e a mantenere l’equilibrio delle sue componenti, la sua trasposizione nella modernità legava le logiche tradizionali ad interessi eminentemente di parte…(11) .
Il risultato di tale reciproca influenza, secondo J. L. Amselle, fu un “meticciamento, nel quale il tratto fondamentale era il persistere di pratiche tradizionali, claniche, ma in funzione di obiettivi moderni, politici(12) .


Il conflitto interclanico

Il cronico conflitto somalo, resistente ad ogni tentativo di risoluzione, è nella nostra prospettiva il prodotto della lacerazione della società somala, violentata da brutali e ripetuti interventi esterni.
Gli ”internal conflicts”, tra cui può essere ricondotto quello somalo, si caratterizzano dal punto di vista del “funzionamento”, per essere molto spesso “low intensity conflicts” o guerre a bassa intensità. Essi possiedono, cioè, una spiccata attitudine a prolungarsi nel tempo e sono, spesso, resilienti agli accordi di pace, che pure vengono siglati con una certa frequenza.
L’origine del conflitto può farsi risalire al 1991, allorquando spodestato il dittatore Siyad Barre, Mogadiscio diventa terreno di battaglia tra due principali contendenti, Ali Mahdi ed il generale Aidid. Da questo momento in poi, la Somalia andrà sotto il controllo di decine di signori della guerra, “warlords”, in grado di controllare, attraverso le loro milizie, un determinato territorio.
L’assenza di un governo centrale e la conseguente impunità, inoltre, fa si che i signori della guerra finanzino le proprie milizie attraverso attività più o meno lecite (13) .
Dal punto di vista socio-economico, il fenomeno dei “signori della guerra” alberga in condizioni sociali ed economiche ben precise: attecchisce in una società impoverita, sia dal punto di vista economico che sociale, dove la mancanza di prospettive per larghe fasce di popolazione, in particolare giovanile, favorisce il sorgere di fenomeni di esclusione e di violenza.
Sebbene, infatti, la Somalia (a differenza dell’Africa occidentale o del Congo orientale) registri la quasi totale assenza del carattere etnico della violenza, ciò che accomuna i giovani somali è il fatto di costituire una sorta di “classe senza diritti”, di esclusi, che decide d’impugnare le armi.
Il funzionamento di questa “economia di guerra”, che naviga nella deregolamentazione del mercato globale e che può essere sostenuta solo con l’uso della violenza, si fonda pertanto su tale “forza lavoro”.
Il paradosso è che il “sistema economico” somalo, attraverso queste condizioni, riesce a garantire lo svolgimento di operazioni e transazioni internazionali per milioni di euro che coinvolgono lobbies economico finanziarie, industrie e che ha ad oggetto lo smaltimento di rifiuti tossici e pericolosi ed il traffico d’armi.
Mentre le economie di guerra di tipo tradizionale, però, si sostengono sul presupposto che lo Stato sottoponga ad una regolamentazione molto estesa l’economia di mercato; in Somalia il fenomeno è invertito, in quanto l’economia di guerra ha, invece, bisogno proprio dell’assenza dello Stato.
Come accennato in precedenza, sebbene la Somalia possa vantare in Africa una situazione privilegiata, avendo un’unità etnica, culturale, linguistica e religiosa, nel paese, fino al momento della colonizzazione, non era mai esistito uno stato unitario.
Lo Stato, anziché momento di sintesi, è sempre stato visto come qualcosa di cui impossessarsi per spartirsi i beni a livello familiare e clanico.
La complessità della struttura clanica somala è, quindi, un elemento centrale di ogni analisi del conflitto somalo, di cui deve tener conto qualsiasi strategia che tenda al suo superamento. A riprova di ciò, le numerose conferenze di pace si sono rivelate inadeguate e spesso scollate dalla realtà del paese. Il limite di tutti i tentativi di pacificazione consiste nell’aver trascurato che i reali conflitti si svolgono tra i clan (e talvolta all’interno dei clan stessi) degradati a “partiti politici” e sono finalizzati ad ottenere un posto nel “processo di pace”.
La descritta conflittualità clanica (14) non è da rinvenire, quindi, nella composizione clanica, tout court, quanto piuttosto nel processo di snaturamento che il clan ha subito nel corso degli anni, da parte del potere coloniale prima e delle influenze dei paesi stranieri poi.
Anche l’Islam, in gran parte moderato e tollerante, al quale appartiene la quasi totalità della popolazione somala, non è riuscito a superare la logica clanica, divenendo ostaggio di gruppi fondamentalisti, talvolta inclini al terrorismo.
Questi ultimi, applicando la Sharia, hanno compresso tutte quelle libertà di cui in parte i somali già godevano e quel rispetto dei diritti umani ai quali aspiravano sempre più le nuove generazioni, soprattutto delle città.
La comunità internazionale (15) contribuisce ad implementare le rivalità inter-claniche, appoggiando spesso un clan contro l’altro e favorendo gli uni a svantaggio degli altri. Anche gli stati confinanti giocano la loro partita, continuano a rimescolare le carte tra le varie fazioni somale, convinti che un popolo continuamente diviso e in lotta sia preferibile ad un popolo unito.
In definitiva, se è vero che il clanismo era impermeabile all’idea di stato nell’accezione moderna, non è stato il clan a produrre caos e violenza quanto piuttosto il suo snaturamento e manipolazione.


La nascita di “Al-Ittihaad” e lo sviluppo dell’integralismo negli ultimi anni

Dopo i fatti del Settembre 2001 gli Stati Uniti, con l’obiettivo di contrastare il terrorismo islamico, hanno promosso un’iniziativa di presidio e sorveglianza sulla Somalia, insieme ad unità militari inglesi, tedesche, francesi e spagnole insediate a Gibuti e in Kenia. Per motivi non noti l’Italia non fa parte della missione.
Le forze partecipanti sono di notevole entità, pattuglie aeree sorvolano giorno e notte il territorio somalo e numerose unità navali presidiano le coste della Somalia dal golfo di Aden all’oceano indiano.
Gli Stati Uniti, però, non sembrano in grado di formulare una politica per la Somalia a causa delle carenti informazioni in loro possesso: i politici americani necessiterebbero di alcune importanti integrazioni e di aggiornamenti in modo da evitare strategie destinate a fallire come già avvenuto all’inizio degli anni Novanta.
In primo luogo, il movimento islamico somalo al-Ittihad, a cui aderiscono soprattutto commercianti ed ex ufficiali dell’esercito, non è sinonimo di al-Qaida e le insinuazioni dei mass media americani sul contrario sono ampiamente errate o tendenziose.
Al-Ittihaad è un’organizzazione piccola e relativamente debole con un obiettivo prettamente nazionale. Alcuni singoli membri dell’organizzazione hanno avuto legami con al-Qaida, che meritano un esame approfondito, ma il gruppo nel suo complesso non appare assolutamente associato a tale organizzazione terroristica.
In secondo luogo la Somalia non protegge attualmente basi e campi terroristici attivi.
Il tentativo condotto da al-Ittihaad di creare uno Stato teocratico, profittando del vuoto di potere conseguente alla caduta di Siad Barre, è definitivamente fallito e l’organizzazione è ora presente in attività orientate al sociale, all’educazione ed al commercio.
Sebbene sia stata inclusa dagli Stati Uniti tra i soggetti le cui proprietà sono bloccate e le transazioni proibite, in quanto sospettata di possibili connivenze con le reti del terrorismo fondamentalista, non è emerso allo stato alcun diretto coinvolgimento.
Il timore, inoltre, circa il possibile transito di finanziamenti a gruppi terroristici ha condotto alla chiusura di un’istituzione bancaria quale al-Baraqat, che muoveva su base fiduciaria, senza trascrizioni formali, un ammontare complessivo di 500 milioni di dollari.
Tutt’altro discorso, da tenere presente per la comprensione della realtà somala, ma distinto rispetto alla problematica del terrorismo è, invece, la presenza dell’integralismo islamico nel sociale e nell’educazione.
Nel Corno d’Africa la popolazione musulmana è divisa fra due differenti ideologie: il Wahhabismo, rigida ideologia di stampo puritano proveniente dall’Arabia Saudita ed il Sufismo, che è predominante nella regione e d’ispirazione moderata, tollerante e pacifica (16) .
Riprova ne è il fatto che nelle regioni politicamente stabili, come il Somaliland, l’integralismo non ha mai trovato spazi per crescere.
Una misteriosa rete di organizzazioni private e pubbliche, che sostiene le istituzioni islamiche di beneficenza, finanzia al-Ittihaad e gran parte del denaro proviene da ricche famiglie e dalle elìte dominanti in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti ed in Kuwait. Molti dei massimi esponenti di al-Ittihaad sono laureati in università islamiche in Pakistan, Arabia Saudita e Kuwait.
Al-Ittihaad ha progressivamente rafforzato la sua posizione in Somalia intessendo legami con uomini d’affari e creando proprie attività, soprattutto nel settore bancario, delle telecomunicazioni, dell’import-export e delle scuole religiose.
Per quanto riguarda possibili collegamenti fra al-Ittihaad ed al-Qaida è ragionevole supporre che tra le due organizzazioni siano intercorse e persistano tuttora relazioni e consultazioni, tuttavia non è ancora stato accertato nessun concreto collegamento operativo.


L’affermazione dell’Unione delle Corti islamiche

L’Unione delle Corti islamiche raggruppava le varie corti “di quartiere” che operavano a Mogadiscio e che avevano la funzione di dirimere le contese locali e mantenere l’ordine pubblico.
Dopo l’attacco da parte dei Signori della guerra nel 2006, le corti locali si federarono nell’U.C.I. (Unione delle Corti islamiche) ottenendo l’appoggio della popolazione, stanca delle angherie dei warlords.
In seguito alla presa di Mogadiscio da pare dell’U.C.I., la situazione della città migliorò notevolmente, al punto che fu possibile riaprire il porto e l’aeroporto chiusi dal 1991. Si verificò, così, un naturale ampliamento della loro area d’influenza, fino a comprendere parte del sud del Paese, sebbene senza mai giungere a Baidoa, sede del governo centrale di transizione. Dal punto di vista organizzativo, l’U.C.I. era sostenuta e finanziata da uomini di affari somali, che prima sostenevano i signori della guerra e che sostenevano la maggior parte delle spese per il mantenimento delle milizie islamiche. Sebbene l’U.C.I. abbia provato ad introdurre la Sharia la connotazione del paese, tipicamente laico e tribale, ha ostacolato tale tentativo e le Corti si sono dovute limitare al controllo politico, rinunciando a quello religioso.
Nel dicembre 2006, il governo provvisorio, sostenuto militarmente dall’Etiopia, decise però di scacciare le Corti Islamiche da Mogadiscio e, nel giro di poche settimane di guerra, con il successivo intervento militare degli Stati Uniti, riuscì a riprendere il controllo della capitale.
La fortuna dell’U.C.I. è ascrivibile ad una strategia nuova per la Somalia (17) caratterizzata essenzialmente da tre fattori: a) una tecnica militare molto professionale che comprendeva incursioni notturne ed attacchi prima dell’alba (18) ; b) una fortissima motivazione delle milizie derivante dalla comune ideologia religiosa (19) .
Punto debole dell’organizzazione sembra, però, essere stata, ancora una volta, la tradizionale struttura tribale della popolazione somala.
Oggi l’U.C.I. (20) sembra essere quasi scomparsa dalla Somalia, sebbene abbia goduto di grande seguito da parte della popolazione civile, sia per l’opera di pacificazione che è stata in grado di garantire, sia per l’assistenza sociale che ha fornito alla popolazione.


La nascita di Al-Shabaab e del terrorismo fondamentalista

L’organizzazione islamista “al-Shabaab”, in arabo “La Gioventù”, è anche nota come Ash-Shabaab, Hizbul Shabaab (Il Partito della Gioventù) e Movimento di Resistenza Popolare nella Terra dei Due Migrazioni (MRP).
Si tratta di un movimento insurrezionale islamista che si è sviluppato a seguito della sconfitta dell’U.C.I. ad opera del Governo Federale di Transizione (GFT) e dei suoi sostenitori, in primo luogo, l’Etiopia (21) . Come era prevedibile l’occupazione da parte dell’Etiopia, storico nemico dei somali, ha prodotto nello stesso tempo il proliferare di diversi gruppi armati e, in alcuni casi, il loro coagulo.
La resistenza antietiopica “al-Muqaawama”, infatti, era un nucleo molto eterogeneo, composto anche da gruppi estranei alla leadership delle Corti, come appunto, al-Shabaab.
Durante il biennio di occupazione etiope, “i giovani” hanno, così, acquisito un notevole spessore “politico” ed un forte consenso popolare ed oggi si presentano come uno dei gruppi più organizzati operanti in Somalia, capace di agire su tutto il territorio centro meridionale del paese.
Gli elementi di maggiore forza degli Shabaab risiedono nell’avere una struttura interclanica di tipo orizzontale, che consente loro un funzionamento militare di tipo “cellulare”, e un’ideologia capace di associare una formidabile retorica anticlanica a rivendicazioni “nazionaliste”.
L’organizzazione si struttura verso la fine del 2004, nella cittadina somala di el-Buur, grazie all’accordo di una ventina di personalità (22) . Il suo consolidamento avverrà più tardi all’interno dell’U.C.I. attraverso la figura di Adan Hashi Ayro (23) , il quale però per la giovane età e le scarse credenziali religiose, non assumerà mai una posizione di leadership all’interno dell’UCI.
Dal punto di vista organizzativo, sono quattro gli organi di governo Shabaab.
Il primo è costituito dalla “Shura”: una sorta di parlamento, composto da circa cinquanta membri e presieduto dall’Emiro, Sheikh Mohamed Mukhtar Abdirahman “Abu Zubeyr”.
Il secondo organo è il “al-Da’wa”, in somalo “predicazione”, con funzioni di propaganda e di arruolamento di nuovi miliziani.
Il terzo è rappresentato da “al-Hesbah”, una sorta di polizia religiosa che vigila sull’osservanza dei costumi islamici.
L’ultimo organo di governo, infine, è costituito da “al-Usra”, che rappresenta l’ala militare del gruppo (24) .
L’aspetto centrale da analizzare è quello che riguarda la modalità con la quale Shabaab è riuscita ad imporre le proprie amministrazioni locali.
Nella Somalia meridionale le amministrazioni che si sono succedute, da una parte hanno sempre costituito uno strumento di dominazione e assoggettamento da parte del clan dominante, dall’altra hanno causato grande sofferenza alla popolazione civile. Shabaab è riuscita, invece, ad occupare territori inserendosi, con azioni di guerriglia all’interno delle gerarchie locali e, soprattutto, senza danneggiare la popolazione civile. Così, per esempio, con la presa di Merca del 2008, dove l’organizzazione riesce ad entrare in città due giorni prima dell’occupazione ufficiale, approfittando del legame dei suoi leader con alcune famiglie della zona. Tale azione fu “corroborata” da alcuni attentati ai danni delle milizie di Yusuf che le permisero di liberarsi delle gerarchie militari più importanti. L’occupazione della città avvenne, così, senza danneggiare la popolazione civile ed a seguito di un accordo con le autorità tradizionali locali, interessate a liberarsi di Yusuf.
La stessa modalità è stata sperimentata dal Shabaab a Baidoa nel gennaio del 2009, dopo il ritiro del contingente etiope, allorquando “i giovani” hanno negoziato il loro ingresso con parte delle autorità locali.
Il forte carattere pragmatico dell’organizzazione, pertanto, riesce a modulare il suo atteggiamento radicale per inserirsi nei sistemi locali del potere.
Far ricadere i successi di Shabaab esclusivamente nel suo pragmatismo e nella capacità di rimodularsi tenendo conto delle specificità locali, o ancora nella sua propaganda spiccatamente populista, sarebbe, però, estremamente riduttivo.
Le cause della sua fortuna sono riconducibili, piuttosto, ad un notevole spessore politico e ad una chiara agenda “nazionale”, che la accredita come unico movimento sovra-clanico dalla forte impronta nazionalista.


Situazione attuale

Nelle ultime settimane, il governo di Sheik Sharif, riconosciuto dalla comunità internazionale, sta raccogliendo milizie e le sta schierando nella capitale per sferrare la grande offensiva, annunciata oramai da qualche mese.
Riguardo alla capacità offensiva, al-Shabaab può contare nella capitale tra i tre ed i quattromila soldati, ma non dispone di carri armati né di artiglieria pesante, ma solo di mortai, kalashnikov e mitragliatori posizionati sulle “tecniche” (pick-up armati).
La situazione generale è ancora oggi caratterizzata da una serie di conflitti violenti che vedono, da una parte il governo di transizione e Ahlu Sunna Wal Jama’a (ex Sufi) con l’appoggio del contingente militare Africano (Burundi e Uganda) e dall’altra un’alleanza tra al-Shabaab e Hisbul Islam (ex Al Ittihad), localizzati sul territorio come specificato di seguito.
Si spara a Mogadiscio e si compiono sanguinosi attentati, come quello del 15 febbraio scorso, contro il segretario di stato somalo alla difesa, Yussuf Mohamed Siad.
La città risulta allo stato per l’80% sotto il controllo di al-Shabaab e Hisbul Islam, mentre i governativi con la protezione del contingente militare africano, sono asserragliati al porto, all’aeroporto e alla residenza del presidente.
La tattica delle milizie islamiche è ispirata allo stile militare con incursioni notturne; mentre la reazione dei governativi e del contingente militare africano generalmente danneggiano la popolazione civile, usando molto spesso artiglieria pesante e mortai continui. I conseguenti danni materiali e le molte vittime inermi nella popolazione, non consentono, però, quasi mai di neutralizzare né causare perdite importanti nelle fila dei fondamentalisti.
La stragrande maggioranza dei parlamentari e molti dei ministri incluso il Primo Ministro sono costretti, per ragioni di sicurezza, a vivere all’estero sopratutto in Kenya.
Al-Shabaab e Hisbul Islam sono così riusciti a prendere il controllo di quasi i 2/3 del territorio somalo ove hanno instaurato amministrazioni locali (25) .
Di fatto, però, tutto il paese, ad eccezione del Somaliland e del Puntland, continua ad essere attraversato da un conflitto aperto e da grandi tensioni.
Le uniche zone tranquille del paese sono rappresentate dal Puntland e Somaliland.
Dal 1991 il Somaliland si è proclamato Repubblica indipendente ed ha sviluppato un apparato amministrativo che permette al governo di assicurare una soddisfacente stabilità politica e sociale. Sebbene non abbia ancora ottenuto il riconoscimento internazionale, intrattiene relazioni con la Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania, Svezia, Norvegia, Finlandia, il Sud Africa e l’Etiopia, mentre è assente la diplomazia italiana.
Il Puntland, invece, dal 1998, si è costituito come amministrazione locale nell’ambito della Repubblica somala e si è sviluppato ricalcando il sistema del Somaliland. Non rivendica, però, alcuna velleità secessionistica.
Qui, recentemente, gli integralisti hanno avviato una serie, ancora ininterrotta, di omicidi di ex ufficiali dell’esercito, della polizia, di intellettuali e parlamentari.
Il 29 ottobre del 2008 due attacchi suicidi hanno investito in maniera simultanea sia Hargeisa che Bosaso, capitali del Somaliland e del Puntland causando almeno la morte di 60 persone e quindi anche questa parte della Somalia relativamente stabile rientra nelle mire espansionistiche del fondamentalismo islamico.


Progetto della strategia fondamentalista

A Mogadiscio, tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, è trapelata l’informazione che i vertici di al-Shabaab hanno avuto un incontro segreto per avviare una sorta di alleanza con al-Qaida in Yemen, con l’obiettivo di assumere il controllo del Golfo di Aden. Grande difficoltà nella realizzazione di tale obiettivo è costituita dal fatto che nel Somaliland e nel Puntland le amministrazioni presenti esercitano un più penetrante controllo del territorio.
I terroristi, secondo fonti del Somaliland, per ottenere il controllo del Golfo di Aden, potrebbero mettere in campo due differenti soluzioni: destabilizzare le regioni del Puntland e del Somalilad, trasferendovi miliziani al-Shabaab originari di quei territori (ivi compreso il capo di al-Shabaab Ahmed Abdi Godane), i quali in quanto profondi conoscitori degli aspetti sociali, politici, culturali ed economici di quelle aree, potrebbero intervenire con azioni terroristiche mirate ed efficaci.
Altra opzione, invece, potrebbe essere quella di costituire un’alleanza, attraverso un “arruolamento” dei pirati, allo scopo di utilizzare le loro conoscenze delle acque territoriali e delle tecniche di pirateria per agevolare l’entrata nel paese delle armi attraverso i porti naturali situati nelle coste del Somaliland e del Puntland.
Nella ex Somalia italiana Shabaab, seppure con non pochi problemi al suo interno, sembra, così, oramai prossima a prevalere definitivamente nella guerra contro il G.F.T..
Le dichiarazioni di inizio febbraio dei vertici di Harakah al-Shabaab al-Muja’eddin sembrano confermare il definitivo allineamento dell’organizzazione ad al-Qaida. Tuttavia, i contenuti del comunicato, riportati dal portavoce ufficiale del movimento Sheikh Ali Dhere fanno emergere anche altri elementi di novità all’interno del fronte di opposizione armato al governo federale, come la fusione del gruppo islamista con la brigata di Ras Kambooni.
Rilievi critici alla fusione tra al-Shabaab e la brigata di Ras Kambooni sono stati, però, sollevati anche da Sheikh Hassan Dahir Aweys, leader di Hizbul Islam, il secondo movimento islamista impegnato nella guerra contro il G.F.T..
Altra notizia di rilevante interesse è che secondo fonti somale al-Shabaab starebbe perdendo consensi tra la popolazione civile.
Sulla base delle considerazioni esposte, appare evidente come sia necessario affrontare il problema del terrorismo fondamentalista in Somalia, senza limitarsi alle sole azioni militari contro gli apparati bellici delle organizzazioni terroristiche.
Alla strategia e agli interventi di tipo militare, pur irrinunciabili, andrebbe pertanto affiancato, nel breve periodo un lavoro più profondo e complesso. Sarebbe auspicabile, sin da subito, avviare colloqui con le amministrazioni, soprattutto del Somaliland e, successivamente, con quelle del Puntland, per condividere le informazioni, prime fra tutte quelle sul terrorismo.
Nel medio periodo sarebbe, inoltre, necessario porre in essere una strategia globale che miri alla risoluzione del conflitto in Somalia ed alla ricostituzione di un’amministrazione statale.
A nostro avviso, il pericolo maggiore rappresentato dagli Shabaab risiede, infatti, proprio nel rischio che essi costituiscano uno stato in Somalia, realizzato sul modello di Hamas in Palestina o di Hezbollah in Libano (26) .
Le similitudini di Shabaab con le organizzazioni mediorientali riguardano elementi essenziali. Shabaab, infatti, amministra territori e fornisce servizi alla comunità, gode di un ampio consenso tra la cittadinanza e nasce come movimento di liberazione nazionale, contro l’odiato vicino Etiope e contro il G.F.T.. Essa, inoltre, può beneficiare di strutture statali deboli o, addirittura, inesistenti e si fa portatrice di una causa di tipo ideologico-religioso in grado di coagulare un ampio consenso internazionale e notevoli finanziamenti economici.
Lo scenario più temibile, ed anche più probabile, in un futuro prossimo potrebbe essere, pertanto, quello di una Somalia interamente amministrata dagli Shabaab, che godono del sostegno della popolazione civile, alla quale assicurano pace, stabilità e servizi sociali.
Le avvisaglie di tale possibile trasformazione si intravedono nella relativa facilità con la quale, in maniera iperpragmatica e poco “integralista”, Shabaab riesce a proporsi come “sintesi sovraclanica” e ad amministrare territori, laddove sono fallite tutte le conferenze di riconciliazione succedutesi negli ultimi anni.
Quando ciò si sarà verificato ci troveremmo di fronte non più un’organizzazione terroristica, più o meno temibile, ma uno stato “canaglia” con il quale dover fare i conti anche sul piano politico diplomatico.


Una possibile strategia d’intervento

L’influenza italiana sull’intero Corno d’Africa risulta oggi fortemente ridimensionata e nella stessa Somalia il potere d’indirizzo esercitato dalla diplomazia italiana è enormemente diminuito. Il metodo solitamente adottato dall’Italia è stato caratterizzato dal privilegiare in ogni momento soltanto il gruppo o i gruppi dominanti presenti nella capitale Mogadiscio e nei territori immediatamente circostanti e dal trascurare, di fatto, i rapporti con le realtà periferiche ancorché ben organizzate come il Puntland, l’Alto Giuba e il Somaliland.
L’Italia, inoltre, non è mai stata promotrice di iniziative proprie, e si è per lo più limitata a partecipare, con evidente riduzione del proprio ruolo, a quelle promosse da Paesi terzi.
L’attuale Governo in carica sembra intenzionato a rilanciare il ruolo dell’Italia in Somalia, come testimoniato dalla decisione di riallacciare relazioni diplomatiche (27) .
Dal punto di vista politico-diplomatico sarebbe auspicabile, da un lato un ruolo più cauto nei confronti degli stati mediorientali e dall’altro una contemporanea maggiore presenza nella Regione del Corno d’Africa.
Le condizioni attuali permetterebbero, infatti, all’Italia d’intraprendere e/o guidare nuove ed efficaci iniziative finalizzate alla soluzione del problema somalo, sulla base di una proprio originale disegno politico, non contrastante ma opportunamente diversificato rispetto alla politica fin qui perseguita dagli U.S.A..
Sotto il profilo operativo, a breve termine, l’Italia potrebbe: 1) riconoscere il Somaliland come “autorità” ed allacciare con esso relazioni diplomatiche ufficiali, allo scopo di lanciare un chiaro segnale alla comunità civile delle altre aree della Somalia, sui vantaggi di un ordinamento politico partecipativo; 2) favorire il consolidamento delle realtà amministrative somale formatesi autonomamente su basi sostanzialmente rappresentative; 3) operare in termini di mediazione per ricomporre l’attuale spaccatura politica presente in Puntland ed in Alto Giuba (Baidoa) e concorrere al consolidamento delle loro strutture politiche e amministrative; 4) intrattenere rapporti continuativi con tali amministrazioni fino ad allacciare con esse relazioni diplomatiche, quando le condizioni oggettive lo permetteranno; 5) mediare fra Somaliland e Federazione Somala del Sud per rinegoziare l’Atto di Unione fra i due stati; 6) stimolare e sostenere le restanti regioni della Somalia ex italiana nella loro trasformazione in amministrazioni autonome, sul modello attualmente realizzato in Somaliland; 7) puntare alla creazione di una entità “sovraregionale”, di tipo federale, composta dalle tre realtà amministrative di cui sopra, alla quale sia riconosciuta dignità di Stato, e che sia destinata a divenire interlocutore unico della comunità internazionale per tutti gli interventi in Somalia; 8) consentire progressivamente alle realtà amministrative “mature” l’ingresso nella entità “sovraregionale”, fino ad arrivare ad uno Stato di tipo federale, comprendente l’intero territorio della Somalia.
Facendo convergere su queste tre entità amministrative il dialogo e gli aiuti dell’intera comunità internazionale, si otterrebbe l’effetto, tutt’altro che secondario, di estromettere temporaneamente i signori della guerra dal dialogo politico internazionale, d’indebolirli sul piano politico interno e d’invogliarli al dialogo con le forze sane della Somalia.
Attraverso un siffatto processo sarebbe, inoltre, possibile giungere ad una struttura nazionale di tipo federale, rispettosa delle esigenze e delle consuetudini locali e tribali, realizzata sì con il supporto della comunità internazionale, ma direttamente ad opera e per volontà degli stessi somali, attraverso la riunificazione fisiologica e non traumatica di realtà politico-amministrative funzionanti.
L’impostazione metodologica di una possibile proposta italiana, per la stabilizzazione della Somalia, è basata sulla considerazione che dal 1991 ad oggi si sono succedute ben 13 iniziative per la riconciliazione del Paese, tutte rimaste senza esito, e un’identica sorte è presumibile per l’ennesimo tentativo di pace tuttora in corso.
Questo dimostra che le decisioni prese a tavolino, da soggetti esterni scarsamente rappresentativi, non sono sufficienti per arrivare alla ricomposizione del Paese e che per raggiungere l’obiettivo è necessario lavorare non fuori, ma all’interno della Somalia.
Per il raggiungimento degli obiettivi descritti, l’Italia dovrebbe nelle fase iniziale, promuovere approfondite consultazioni con le parti interessate, per definire problemi, soluzioni, programmi e ruoli.
In condizioni di stabilità, le consultazioni dovrebbero iniziare con i rappresentanti del paese, ma in questo caso l’assenza di un governo centrale significativo in Somalia e la presenza di numerose gruppi di potere al suo interno, rendono necessario raggiungere un ampio accordo al di fuori della Somalia.
Le consultazioni internazionali dovrebbero iniziare con gli U.S.A., e proseguire poi con la Gran Bretagna e l’Unione Europea, per aprire ad altri Paesi europei che ne fossero eventualmente interessati.
Nel caso si riuscisse a raggiungere un accordo di massima sulla proposta italiana, sarebbe necessario decidere il ruolo delle Nazioni Unite nell’ambito del progetto e coinvolgere l’Ufficio per gli Affari Politici presso le Nazioni Unite di New York.
Nella fase successiva il dialogo dovrebbe rivolgersi ai paesi-chiave della regione, l’Etiopia, il Gibuti, il Kenya e l’Egitto, nonché ai Paesi arabi interessati come la Libia e l’Arabia Saudita.
Uno strumento irrinunciabile per il successo della “proposta italiana” è rappresentato dalla comunicazione. Sarebbe opportuno attivare, sin da ora, un sistema radiofonico in lingua somala, che fornisca per tutta la giornata informazioni ampie e corrette sulle situazioni locali e sulle iniziative in atto in Somalia e all’Estero, ad un livello più approfondito di quanto viene fatto attualmente dalla BBC.


(1) Il rapporto della "National Security Strategy" statunitense, del settembre 2002, evidenzia "come gli Stati deboli, come l'Afghanistan, possano divenire pericolosi per gli interessi statunitensi al pari di altri grandi Stati. La povertà non trasforma i poveri in terroristi e assassini. Tuttavia la povertà, le istituzioni deboli e la corruzione possono rendere gli Stati deboli molto vulnerabili alle reti terroristiche ed ai cartelli della droga" (in "La Somalia dopo la sconfitta delle corti islamiche" - XV Legislatura n. 65 febbraio 2007).
(2) Tale termine, che deriva dal latino "terror", nasce nell'Europa del XVIII secolo (dove la frangia più estrema del movimento rivoluzionario francese, capeggiata da Robespierre, instaura un regime basato sulla sistematica eliminazione degli avversari) e, da qui, viene, poi, esportato in tutto il mondo. È dopo la Seconda Guerra Mondiale, però, che esso si affermerà nell'accezione più vicina a quella odierna. Sarà, infine, solo negli anni '60 e '70 che si arricchirà di una duplice prospettiva: quella di "terrorismo interno", per designare azioni che mirano a destabilizzare l'ordine costituito e quella di "terrorismo esterno", per indicare strategie "di terrore" che tendono a condizionare la politica estera di stati sovrani.
(3) Jaques Deridda fornisce una suggestiva spiegazione del fenomeno: "Dobbiamo pensare diversamente la temporalizzazione del trauma se vogliamo capire l'11 Settembre. Perché il "terrore" mantiene la ferita aperta sull'avvenire, non soltanto nel passato. Il trauma è prodotto dall'avvenire, dalla minaccia del peggio "a venire" piuttosto che da un'aggressione "bella e finita"".
(4) Come osserva Yves Lacoste, "tutte le opinioni geopolitiche che si affrontano o si confrontano, in quanto riferite a rivalità di poteri, ufficiali o ufficiosi, attuali o potenziali, su dei territori e sugli uomini che vi abitano, sono delle rappresentazioni caricate di valori, più o meno parziali e più o meno consapevolmente di parte, relative a situazioni reali le cui caratteristiche obiettive sono di difficile definizione".
(5) Dal punto di vista socio-antropologico, come osserva I. M. Lewis, "le Istituzioni tradizionali somale si caratterizzano per un forte carattere segmentario… organizzate in forme claniche… acefale e con struttura estremamente flessibile,.legate da un principio di discendenza agnatizia patrilineare e dedite prevalentemente all'allevamento nomade".
(6) M. Lanna, G. Palermo M. Abdi Gabose, "Somalie. Dalla democrazia pastorale al conflitto interclanico" (Edizioni Labrys, 2008).
(7) Le potenze vincitrici non erano disposte ad appoggiare soluzioni definitive, nel senso di un'indipendenza dei territori, fatto ritenuto pericoloso per l'intero assetto coloniale a livello mondiale e crearono, così, come soluzione di compromesso, quella del mandato internazionale o del trusteeship.
(8) Cfr. Guadagni M. "Trapianto e rigetto dei modelli giuridici. Riflessioni per una visione interdisciplinare ed antropologica degli area studies", Elisabetta Grande (Ed.), “Transplants Innovation and Legal Tradition in The Horn of Africa”, L'Harmattan Italia, Torino, 1995.
(9) In particolare, osserva Morone, "l'amministrazione italiana procedette alla creazione di una serie di organi di governo periferici e centrali, assemblee municipali, distrettuali e nazionali, che dopo una prima fase di sperimentazione, vennero progressivamente resi elettivi". Nello specifico, fu esportato il modello istituzionale della tradizione politico-amministrativa italiana, basato sul centralismo amministrativo, sulla burocratizzazione dell'apparato statale, su un sistema educativo basato sulla lingua italiana e, soprattutto, sbilanciato sul versante teorico piuttosto che su quello pratico.
(10) Lewis I. M., op.cit.
(11) Lewis I. M., op.cit.
(12) Amselle J. L., "Logiche meticce. Antropologia dell'identità tra Africa e altrove", Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
(13) Oltre all'assistenza dei paesi esteri (paesi arabi ed Etiopia in testa), alle remittenze della diaspora somala e alle attività commerciali e d'intermediazione, sono i saccheggi, i rapimenti, il mercato nero, il traffico illegale di armi e droga (kaat) a rappresentare le maggiori entrate dei warlords.
(14) Gli elementi che potrebbero spiegare effetti positivi sulla trasformazione del sistema conflittuale somalo ed in grado di favorire uno sblocco del conflitto inter-clanico, possono essere sia interni al paese che esterni. Per quanto riguarda i primi, si consideri come la tradizione somala si fondi su di una stessa cultura ed una stessa lingua e la stessa religione, anziché elemento di divisione, potrebbe contribuire a far sentire i somali appartenenti ai diversi clan, tutti "fratelli". Le confraternite religiose, del resto, già in passato, avevano creato dei "villaggi" nei quali coabitavano gente di clan diversi. Per quanto riguarda, invece, i fattori "esterni" che possono contribuire al superamento del conflitto inter-clanico, un ruolo centrale potrebbe essere giocato dalla comunità internazionale che potrebbe fornire il suo contributo in diversi modi. Anzitutto, bloccando i traffici illeciti (con i quali, invece, molto spesso convivono) e veicolando correttamente gli aiuti umanitari, con una modulazione che tenda a favorire la pace e l'unità e che sostenga quei somali che lavorano per la ricostruzione e per la pace.
(15) Molti sono i Paesi che per ragioni differenti, sono interessati alla Somalia. Un primo gruppo è costituito dai Paesi "Front-Line": Eritrea, Gibuti, Kenya ed Etiopia. L'Eritrea, tradizionalmente ostile all'Etiopia, ha sempre appoggiato i movimenti armati somali fornendo anche armi ad alcune fazioni. Gibuti, la cui popolazione è in gran parte di origine somala, ha tutto l'interesse ad avere un confinante stabile. Il Kenya da un lato ha subito, a causa dell'anarchia somala, gravi ripercussioni sulle proprie regioni del nord (soprattutto sconfinamenti di miliziani con conseguenti effetti destabilizzanti) e dall'altro si è avvantaggiato economicamente sia perché gli aiuti internazionali diretti in Somalia attraversano il porto di Mombasa, sia perché le organizzazioni internazionali operanti in Somalia hanno sede a Nairobi. L'Etiopia, infine, tradizionalmente ostile alla Somalia, osteggia uno stato somalo forte ed unito che potrebbe contrastare il suo primato nel Corno d'Africa ed avanzare rivendicazioni sull'Ogaden. Un secondo gruppo è dato dai paesi arabi, quali Egitto, Libia, Arabia Saudita ed altri Paesi minori della regione. Mentre il terzo gruppo è composto dai paesi occidentali, quali U.S.A., Inghilterra, Francia, Germania e Italia. Al di là di ogni giudizio sui risultati conseguiti, dal dopoguerra l'Italia è stato il Paese occidentale più presente in Somalia, in termini politici ed economici, con la propria diplomazia, con finanziamenti statali e con imprese industriali. Dal 1991 però, dopo il saccheggio dell'Ambasciata italiana a Mogadiscio ed il mancato atterraggio della delegazione diplomatica del sottosegretario Borruso, ha chiuso la propria ambasciata e non ha più promosso iniziative, limitandosi a partecipare ad iniziative promosse da Paesi terzi. Ed oggi, pur essendo uno dei più importanti donatori di aiuti umanitari, ha perso il suo tradizionale primato a vantaggio di altri Paesi come Gran Bretagna, Francia, Germania, Svezia, Norvegia e Finlandia. È, quindi, di particolare rilevanza la recente decisione del nostro paese di riaprire la propria ambasciata a Mogadiscio e di promuovere entro l'anno una conferenza internazionale.
(16) Fino alla fine degli anni '80 sia Mengistu in Etiopia, che Barre in Somalia hanno tenuto sotto stretto controllo i fenomeni religiosi. Nel 1975 Siad Barre fece fucilare 11 religiosi che si erano espressi contro la parità fra uomo e donna sancita dal Corano ed allora introdotta nella legislazione somala.
(17) Tale strategia ha incontrato il sostegno della popolazione civile che, ormai stremata da 15 anni di guerre, di violenze e di soprusi perpetrati dai signori della guerra si è schierata per la stragrande maggioranza a favore delle milizie islamiche.
(18) Al contrario della tattica criminale dei signori della guerra, con milizie scarsamente addestrate che arrecavano pesanti danni alla popolazione.
(19) L'ideologia religiosa, al contrario della motivazione mercenaria, ha prodotto nei combattenti la forza e l'impegno che hanno portato al successo.
(20) Dopo la sconfitta dell'U.C.I., i vari Signori della guerra, leader delle varie fazioni, hanno reagito diversamente. Alcuni, come Mohamed Qanyare Afrah (ex ministro del Governo TFG con Yusuf) hanno consegnato le proprie armi al loro clan. Altri, come Muse Sudi (altro ex ministro del Governo TFG) e Bashir Raghe (potente uomo d'affari) hanno trovato protezione presso le loro tribù.
(21) Si calcola che circa 3/4 mila membri dell'U.C.I. siano confluiti in questo gruppo.
(22) Tra queste ricordiamo Sheikh Mohamed Mukhtar Abdirahman "Abu Zubeyr", oggi emiro del movimento, Abu Mansur "Robow", Adan Hashi Ayro, Hawiye, Ibrahim al-Afghani, Sheikh Hassan Abdullah Hersi al-Turki, tuttora alla guida di un gruppo, presente soprattutto nelle regioni meridionali, e conosciuto come "Brigata di Ras Kambooni".
(23) Il comandate Ayro avrà però una carriera breve poiché morirà nel 2008 a seguito di un'incursione aerea statunitense.
(24) Sul punto si osservino anche le "capacità innovative" dell'ala militare di Shabaab che ha "importato" in Somalia la figura del martire, estranea alle dinamiche culturali del paese.
(25) Sono state instaurate amministrazioni a Baidoa, Merca, Jowhar, Kisimayo, Beled Weyn, Dusamareb e a ridosso di Galcayo anche se a Beled Weyn e Dusamareb spesso incontrano una debole resistenza da parte di Ahlu Sunna Wal Jama'a armati e appoggiati dal governo etiopico.
(26) Il favore con cui queste organizzazioni sono guardate dalla popolazione civile è legato al fatto che gestiscono anche ampi programmi sociali, che prevedono assistenza sanitaria, sistemi d'istruzione, biblioteche, sostegno economico alle fasce meno abbienti e altri servizi, rappresentando una sorta di welfare state in aree deprivate ed instabili.
(27) L'ambasciata somala a Roma è stata riaperta nel mese di settembre dello scorso anno e, a breve, dovrebbe essere riaperta la nostra rappresentanza diplomatica a Mogadiscio.

© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA