GNOSIS 4/2009
Dalla concorrenza corretta l'impulso per la ripresa |
Intervista ad ANTONIO CATRICALA' Presidente dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) a cura di Pio Marconi |
La crisi del 2008 non ha colpito soltanto il tessuto economico del Paese, ha inciso anche sulle culture politiche e sugli orientamenti della società. La fiducia nel mercato che, a partire dagli anni Ottanta, si era affermata, sembra oggi indebolita. Da noi, ma anche in tutte le grandi democrazie, si riscoprono le politiche di intervento pubblico, le regolamentazioni, gli investimenti statali. Persino il protezionismo, che sembrava al bando in virtù dei Trattati europei e dagli accordi sul commercio mondiale sta, malamente mascherato, riproponendosi. L’idea di concorrenza come veicolo di sviluppo è un’utopia? Non credo si possa definire utopia un ideale che, quando si è tradotto in scelte politiche concrete, ha portato a ritmi di crescita ininterrotti: pensiamo al modello statunitense, dove un accordo bipartisan tra democratici e repubblicani ha consentito, negli anni Novanta, un’ondata di liberalizzazioni che hanno guidato la crescita del Pil. Certo, la crisi mondiale ha risvegliato la paura. E la paura porta al protezionismo, alla chiusura dei mercati, al non voler riconoscere l’interdipendenza delle economie. La difficile congiuntura economica ha creato una generale diffidenza verso i vantaggi generati dal confronto concorrenziale e verso i meccanismi di mercato; si chiedono a gran voce nuove regole e limiti all’azione delle imprese; in breve, si mette in dubbio la bontà dell’intero processo di liberalizzazione che, pur tra alti e bassi, è comunque in corso.Le esperienze del passato mostrano, però, come questa voglia di chiudersi sia non solo sbagliata ma anche pericolosa. La storia ci insegna che le politiche adottate dai governi per ovviare alle situazioni di crisi, incentrate anche sull’introduzione di restrizioni e di deroghe alle norme antitrust, non hanno fatto che acuire e prolungare la congiuntura negativa: negli Stati Uniti, ai tempi della Grande Depressione, alcuni consiglieri di Roosevelt ritennero che la concorrenza ne fosse concausa e nel 1933 fu approvata una legge per la ripresa dell’industria nazionale che recava importanti deroghe alla normativa antitrust federale. La legge fu dichiarata incostituzionale nel maggio del 1935 e il comitato, istituito da Roosevelt nell’aprile di quell’anno, per esaminare gli effetti della riforma concluse che quel programma, promuovendo cartelli e monopoli, aveva di fatto rallentato la ripresa. Questa esperienza conferma che è estremamente rischioso tornare a soluzioni protezionistiche, intendendosi come tali tutte quelle che determinano situazioni di privilegio per alcuni operatori ponendoli, quindi, al riparo non solo della minaccia di concorrenti esteri, ma di chiunque voglia esercitare una sana ed efficace azione competitiva. La strategia di mantenimento di mercati aperti e concorrenziali, se pure può andare incontro ad alcune eccezioni per settori particolarmente delicati, è dunque la migliore, l’unica in grado di mantenere e attrezzare il sistema Paese per la fase successiva a quella della crisi. La crisi ha colpito anche le istituzioni costruite in Occidente a garanzia del mercato e della concorrenza. Negli USA si è riconosciuto che la rete e il sistema dei controlli sono stati inadeguati. E in Europa? E in Italia? Ritengo che la crisi, proprio per la sua portata endemica, abbia posto con forza all’attenzione delle Istituzioni politiche di tutto il mondo che il modello di vigilanza ‘nazionale’ non è sufficiente. Non è un caso che il progetto di vigilanza europea, sia pur tra qualche resistenza, abbia già avuto il via libera dei ministri finanziari della Ue. L’Europa, e l’Italia in particolare, ha retto meglio l’onda d’urto della crisi finanziaria: non ci sono stati fallimenti bancari, non abbiamo assistito alla corsa allo sportello per salvare i risparmi. Il nostro sistema bancario ha dimostrato una buona solidità. Grazie alla solidità patrimoniale delle nostre aziende di credito il sistema è riuscito a contenere le perdite. Complessivamente i meccanismi di vigilanza, costruiti sull’obiettivo fondamentale della stabilità, hanno funzionato. Tuttavia, sarebbe ingiusto sottovalutare i tanti casi di risparmiatori rimasti scottati da investimenti sbagliati: queste famiglie hanno subìto il loro piccolo tsunami e non credo possano consolarsi con le valutazioni sulla buona tenuta del nostro sistema finanziario. L’Antitrust ha ricevuto denunce di persone che avevano visto andare in fumo i risparmi di una vita. Un parere richiesto al Consiglio di Stato ha chiarito che sui prodotti finanziari non siamo competenti e abbiamo dovuto girare le denunce alle Autorità consorelle. Ma quanto avvenuto deve spronare il legislatore a individuare sistemi di controllo capillari sulla qualità e sulla trasparenza delle informazioni che gli operatori finanziari devono dare al pubblico. Credo che su questi aspetti ci sia ancora molto da fare: i contratti finanziari sono ricchi di informazioni talmente dettagliate da essere inutili; gli operatori finanziari che, come previsto dalla direttiva Mifid, fanno, obbligatoriamente, la ‘profilatura’ della propensione del rischio del risparmiatore sono le stesse persone che poi vendono il prodotto, assumendo più parti nella stessa commedia. Un problema cruciale per la ripresa economica, oltre che per la concorrenza, è quello del credito. In Italia il dibattito è acceso. Gli strali non partono solo dalla stampa o dall’impresa, ma dal Parlamento e dal Governo, dalla maggioranza e dall’opposizione. Agli istituti bancari viene addebitata una erogazione del credito insufficiente e vengono contestate gravi alterazioni della concorrenza. Come ha operato, come sta operando, l’Autorità Garante sulla materia? Partiamo da una constatazione: le accese polemiche tra il mondo industriale e quello finanziario, che hanno accompagnato questo periodo di crisi, confermano l’esistenza di un problema. Il sistema bancario italiano ha fatto molti passi avanti ma altri ne deve fare e non solo nei confronti della clientela retail. Soprattutto in una fase economica negativa le banche devono valutare le potenzialità delle aziende e non solo i loro patrimoni. Si tratta di un salto culturale che potrebbe essere favorito da un aumento della concorrenza nel settore, sulla quale possiamo vigilare solo dal 2006. Da allora, credo che abbiamo fatto fino in fondo il nostro dovere: abbiamo autorizzato i grandi matrimoni bancari, ponendo però le condizioni necessarie perché le concentrazioni non restringessero la competizione. Abbiamo portato a termine due importanti indagini conoscitive che hanno messo a nudo alcune anomalie: costi per la clientela troppo elevati, intrecci azionari nel settore finanziario tali da ostacolare la competizione. Non possiamo però sostituirci al legislatore: non sta a noi tagliare con l’accetta tutti i conflitti di ruolo che abbiamo evidenziato nell’indagine. Possiamo agire di cesello, e lo abbiamo fatto, quando siamo stati chiamati ad autorizzare le fusioni. Ricordo che per primi abbiamo posto all’attenzione pubblica il tema dello ius variandi, giudicandola una pratica medievale. Su questo il legislatore ci ha seguito. Ma quando siamo intervenuti contro le banche che non applicavano la portabilità gratuita dei mutui siamo stati fermati dal Tar, che ha annullato le multe. Ho la coscienza a posto: di più non potevamo fare. Ora il pallino è in mano ad altri. Spero che lo collochino nella giusta posizione. Per una fuoriuscita dalla crisi non occorre solo agire sulla produzione, ma sul consumo: sui redditi e sulle aspettative del consumatore. Il bisogno di un clima di fiducia è particolarmente forte in Italia, paese nel quale esiste una bassa propensione all’investimento a rischio. Le competenze dell’Autorità sono state di recente allargate alla prevenzione delle pratiche commerciali scorrette o aggressive, nonché alla repressione della pubblicità ingannevole. Come ha agito in questo campo specifico l’Autorità Garante? Quale ascolto ricevono le organizzazioni del consumo? E i singoli consumatori? Non appena ottenuta la competenza in materie di pratiche commerciali scorrette abbiamo istituito un call-center, con un numero verde, messo a disposizione dei consumatori e delle loro associazioni. Ci siamo messi subito in gioco, abbiamo fatto della tutela del consumatore una missione fondamentale per l’attività dell’Autorità. La risposta dei cittadini è stata positiva: dalla fine del 2007 ad oggi abbiamo ricevuto quasi ventimila chiamate, a dimostrazione che il call-center viene incontro a esigenze reali. Non tutte queste telefonate riguardano casi che rientrano nella nostra competenza ma abbiamo dirottato le denunce alle istituzioni che potevano intervenire. Al di là del call-center la nostra azione si è mossa su due direttrici: prevenzione e repressione. Sin dall’inizio del mio mandato ho sostenuto, attirando anche qualche critica, che con il mondo produttivo occorreva confrontarsi perché la sanzione è una sconfitta, innanzitutto, per l’Autorità. Per questo abbiamo utilizzato lo strumento della moral suasion per convincere le aziende ad adottare comportamenti più trasparenti nei confronti dei consumatori. Quando, tuttavia, il danno nei confronti degli utenti si è già verificato, non possiamo che sanzionare, nella speranza che le aziende imparino la lezione. L’ingresso della Class Action nel sistema processuale italiano inciderà sull’attività dell’Autorità Garante? Ci sarà una sorta di concorrenza tra diversi attori della doglianza? Una sovrapposizione di iniziative? O sono ipotizzabili sinergie? La class-action non si sovrappone all’attività dell’Antitrust, semmai rappresenta uno strumento complementare per tutelare al meglio i consumatori. È un’arma civilistica che mira a riconoscere il danno collettivo e a facilitare il ricorso alla giustizia da parte dei consumatori che sono stati danneggiati. In sede di discussione parlamentare avevo auspicato un ruolo maggiore per l’Antitrust immaginando che potessimo svolgere una sorta di azione di filtro preventivo. Purtroppo questa impostazione non è passata. Ora che la class-action è finalmente diventata legge è essenziale che ne venga fatto un uso intelligente. Ritengo che occorra azionare questa leva a fronte di danni realmente gravi, causati da comportamenti irresponsabili da parte delle aziende. Non vorrei che qualcuno cadesse nella tentazione di inflazionare il ricorso alla class-action perché sarebbe il modo migliore per affossarla. In tempi non lontani si parlava in Italia dell’esistenza di forme di capitalismo di Stato. Molti monumenti di quell’esperienza sono stati ormai demoliti. Lo Stato centrale si è progressivamente ritirato dall’attività di impresa. Si è affacciato però un altro fenomeno: un capitalismo municipale fatto di un reticolo di aziende a partecipazione comunale o con l’ente locale come azionista unico. Questo sistema è compatibile con i principi della concorrenza? È lecito ed utile che il controllato coincida con il controllore? Ho più volte segnalato il pericolo della diffusione di tante piccole Iri. Il capitalismo municipale non è compatibile con i principi della concorrenza non perché le società siano di proprietà dei Comuni ma perché quegli stessi Comuni sono allo stesso tempo proprietari e controllori della gestione dei servizi. Un conflitto di obbligazioni che si risolve in prezzi più alti per i consumatori e in servizi più scadenti. Fortunatamente, dopo anni di false partenze, è finalmente diventata legge una riforma dei servizi pubblici locali che, sia pur concedendo un periodo di transizione, necessario per evitare il caos nei servizi pubblici, ha fissato alcuni princìpi fondamentali: la gestione dei servizi pubblici deve essere messa a gara e le società che si presentano devono essere a maggioranza privata. Questo modello spezza quel legame fin qui esistente tra i Comuni (che avranno la responsabilità, innanzitutto politica, di controllare l’operato di chi si aggiudica le gare) e le ex aziende municipalizzate diventate private (che dovranno operare al meglio, pena il rischio di essere espulse dal mercato). L’Autorità Garante segnala di aver irrogato nell’ultimo anno sanzioni per quasi sessanta milioni di euro, di cui oltre trenta solo nel settore delle pratiche commerciali scorrette. Cifra ragguardevole. Si è sicuri dell’effetto deterrente? La sanzione pecuniaria colpisce oggi gli utili o il patrimonio dell’azienda. Le conseguenze della violazione gravano così su soggetti non responsabili dell’illecito accertato: i soci e, forse, anche i consumatori che potranno veder lievitare i prezzi. Gli unici che sembrano immuni da censura sono gli amministratori. Non sarebbe più opportuno un sistema capace di colpire personalmente (sul piano patrimoniale) i responsabili delle violazioni della concorrenza, delle pratiche scorrette? La deterrenza delle sanzioni c’è, anche se occorre distinguere tra il regime sanzionatorio previsto per le violazioni delle norme a tutela della concorrenza e quello vigente contro le pratiche commerciali scorrette. Nel primo caso gli strumenti in vigore sono adeguati: la legge ci dà la possibilità di sanzionare con multe fino al 10% di fatturato anche se non ci consente di aggredire i patrimoni delle aziende associate quando le intese vengono decise a livello di associazione di categoria. Nel complesso tuttavia possiamo graduare la sanzione tenendo conto di tutti gli elementi. Per le pratiche commerciali scorrette, invece la multa può arrivare ad un massimo di 500mila euro, che costituisce un’enormità per un’azienda medio-piccola e un’inezia per una grande azienda quando mette in atto pratiche commerciali scorrette gravi che danneggiano una moltitudine di consumatori. Quanto alla possibilità di colpire direttamente il patrimonio degli amministratori non credo che un’innovazione del genere potrebbe dare maggiore deterrenza al sistema sanzionatorio mentre, sicuramente, renderebbe ancor più complicate le istruttorie che dovrebbero accertare responsabilità personali. Del resto gli azionisti hanno tutte le armi per punire un amministratore che viola le leggi. Se non le utilizzano è perché, evidentemente, la cultura della concorrenza e della correttezza commerciale non fa parte del bagaglio aziendale.
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